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GEOGRAFIA_CULTURALE_6_CFU

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GEOGRAFIA CULTURALE (VAROTTO) 
La geografia culturale è l’applicazione di una certa idea di cultura in ambito geografico, spesso senza 
assumere una posizione critica. È una disciplina giovane dal punto di vista dell’istituzione accademica, ma 
paradossalmente molto forte. 
Prima di entrare propriamente nel campo della geografia culturale, dobbiamo dare una definizione di cultura. È 
dalla definizione che prendiamo in considerazione che dipenderà il significato della geografia culturale. Ci basiamo 
su quattro concetti principali: 
1) Significato etimologico di origine indoeuropea “kwel” = colto o coltivato, ciò che si eleva dalla terra, 
o ciò che è curato dall’uomo. Questa definizione prevede perciò un concetto di cultura contrapposto a 
quello di natura. 
 
2) Concetto classico (elitario) = greco “paideia” (educazione, elevazione spirituale), latino Humanitas 
(bonae artes o arti liberali). Ci si eleva da terra attraverso l’educazione, l’uomo è pienamente realizzato 
mediante un processo di educazione. Ciò implica che la cultura sia un fatto sviluppato in maniera 
individuale, non è a panaggio di tutti, infatti una volta era riservata solo agli schiavi liberi. L’idea di cultura 
classica è giocata sull’educazione personale e sull’apprendimento delle arti liberali ed è elitario per sua 
natura, in quanto non aperto a tutti. La persona colta è tale perché si distingue dal volgo. Si tratta quindi 
di una cultura personale attraverso l’erudizione. 
 
3) Concetto illuministico (universale). Già nel rinascimento si comincia a criticare il sistema elitario 
perché ci sono i “meccanici”, cioè tutti coloro che sono addetti alla manifattura e che richiedeva un certo 
tipo di formazione. Con l’Illuminismo la cultura si produce tramite la ragione. La cultura diventa patrimonio 
universale: è la manifestazione di capacità raziocinanti, qualità morali e intellettuali appartenenti a ogni 
individuo e migliorabili con l’uso della ragione (strumento educativo). La ragione sostituisce le arti in sé. 
 
Bisogna fare una distinzione tra: 
 
- Concetto francese di “Aufklarung/civilisation”, che è una cultura aristocratica (buone maniere, galateo, 
naturali valori dell’individuo) 
- Concetto tedesco di “Zivilisation/cività”, che si riferisce a una dimensione collettiva della cultura, un 
progresso culturale a panaggio della popolazione (complesso di norme-valori anche solo esteriori e 
convenzionali) 
Questi due termini richiamano il grado di civiltà di un popolo, ma attuano anche una duplice attribuzione di 
valore alla cultura: la prima è fatta di formalismi di una persona colta che deve rispondere a determinate 
regole, la seconda punta di più alla sostanza, infatti nella civiltà tutti sono coinvolti universalmente, 
nessuno è escluso. 
4) Concetto di cultura in età contemporanea (fine Ottocento, inizi Novecento). Si sviluppano nuove 
discipline: antropologia culturale, etnologia, sociologia, geografia. 
La cultura non è semplicemente qualcosa che viene assunto con forme logico-razionali di educazione, ma è 
qualcosa che contraddistingue biologicamente l’uomo in quanto animale sociale: l’uomo biologicamente, in 
quanto essere che vive in società, sviluppa una propria cultura che non viene trasmessa geneticamente 
ma socialmente. La definizione di cultura segue quella del linguaggio (l’uomo da solo non parla, mentre a 
contatto coi suoi simili sviluppa capacità comunicative). 
 
E.B. Tylor, precursore dell’antropologia culturale, dà una definizione complessiva di cultura nella sua 
opera “Primitive culture” (1871). «La cultura è quel complesso insieme che comprende conoscenza, 
credenze, arte, valori morali, leggi costumi e ogni altra capacità e atteggiamento acquisiti dall’uomo in 
quanto membro di una società». Questa definizione è importante appunto perché si va oltre al concetto di 
cultura legata alla ragione: anche l’uomo primitivo può avere una propria cultura. Questa ampiezza di 
spettro fa sì che le definizioni di cos’è cultura si moltiplichino, tant’è che nel 1952 Kroeber raccoglie più di 
200 definizioni differenti. 
 
5) Duplice funzione della cultura. L’antropologo americano C. Geertz introduce nel 1973 il concetto di una 
differenziazione nella cultura. Egli afferma che in ogni pratica culturale osserviamo esistere due esigenze: 
 
- Il controllo della realtà tramite l’elaborazione di progetti, piani o sistemi orientati simbolicamente. 
Hanno quindi anche la funzione di omogeneizzazione e condivisione di un determinato insieme di 
regole. 
- La differenziazione, contrapponendosi al controllo, che evidenzia la pluralità e arbitrarietà dei 
simboli. Individuato un modello condiviso, vi troviamo all’interno una pluralità di interpretazione 
come se dovessero garantire ad ogni individuo di quella collettività un proprio spazio di autonomia. 
Le pratiche culturali hanno quindi sempre una dimensione collettiva ma anche una dimensione individuale. 
Fino adesso abbiamo parlato di cultura in senso generale, ora parliamo della distinzione tra la sfera simbolica 
e immateriale (cultura) e la sfera pratica a materiale (civilizzazione). La cultura in geografia può essere 
intesa come: 
 Genere di vita (Vidal de la Blanche): la cultura è uno stile di vita o comportamento. Si può descrivere 
attraverso una serie di fattori: lingua, religione, abitudini, strutture familiari, stile insediativo… Rimanda 
alla geografia culturale tradizionale perché richiama le possibilità di fare un ragionamento sulla cultura in 
termini geografici, con dati che si possono facilmente ricavare statisticamente e quantitativamente con 
l’osservazione fisica. Inquadra le caratteristiche di una popolazione in maniera molto netta servendosi di 
indicatori considerati universalmente validi. 
  Nebulosa “struttura del sentire” (John Williams). Quelli accennati nel punto precedente sono dei 
connotati che non servono in questa direzione, perché la cultura è una struttura molto più difficile da 
indagare. La società non è necessariamente definita e compatta come afferma la geografia tradizionale, 
ma può essere intesa in maniera individuale o in piccoli gruppi. Entra in gioco la distinzione fondamentale 
“simbolico vs. concreto”. 
  Insieme delle produzioni che riflettono tale struttura del sentire. Si basa sulla retorica, che è un 
sistema di strategia di rappresentazione che esprime una struttura del sentire e costruisce un discorso a 
partire da essa. Questo poi diventa un discorso pubblico, più o meno forte, che si impone o soccombe 
rispetto ad altri… Ha un fine preciso, che può essere politico, economico, tra varie categorie sociali… La 
strategia di rappresentazione è dunque il prodotto derivato dalla relazione stretta tra produzione e 
consumo, tra valutazione economia e valore simbolico. Vale per esempio per i discorsi politici, che 
presuppongono l’imposizione di un determinato modello culturale. 
Definizione dell’enciclopedia Treccani: «l’individuo è immerso non tanto in un bozzolo protettivo definibile 
come cultura, ma in flussi culturali locali e globali che strutturano habitat di significati (…)» Il bozzolo richiama 
l’idea di una struttura protettiva abbastanza rigida e stabile, cioè la cultura tradizionale, qualcosa che un individuo 
possiede in partenza e non può essere modificato, mentre i processi danno l’idea di qualcosa di dinamico che si 
evolve e si articola. 
«Le culture si formano non solo e non tanto da attributi interni esclusivi, ma dall’incontro e dallo scambio in 
scenari regionali e globali sempre più interconnessi.» La definizione culturale di un individuo deriva dal confronto 
con altri modi di sentire, per influsso, opposizione, analogia, condivisione… 
«Le culture, costruzioni meticce e frutto di continue connessioni e disconnessioni, sono non di rado recuperate 
nella loro immagine reificata e statica (che si struttura in maniera rigida) nell’ambito di politiche e retoriche locali, 
di rivendicazioni etniche e indigeniste, definendo in tal modo un altro importante ambito di indaginedelle scienze 
sociali.» 
 
GEOGRAFIA CULTURALE TRADIZIONALE 
Ci sono state diverse scuole di pensiero che hanno avuto più o meno proseliti. Esse si sono sviluppate in momenti 
diversi, quindi erano influenzate dalla filosofia del tempo. 
 Scuola tedesca di Friedrich Ratzel, “Völkerkunde” (1885), in parte naturalistica e in parte etnografica. 
Ratzel studia ecologia con Heckel, e studia etnologia a Monaco di Baviera. La sua è un’opera di riferimento 
perché per prima distingue tra popoli naturali e popoli culturali (Naturvölkern e Kulturvölkern). Risente in 
maniera molto forte del positivismo, poiché implica l’osservazione oggettiva dei fenomeni attraverso dati 
riscontrabili sul terreno, e del determinismo, in quanto afferma che le caratteristiche culturali di un popolo 
sono determinate dall’ambiente. I fatti culturali vengono spiegati in rapporto alla natura, recuperano la prima 
definizione di cultura (“kwel”). Si parla di determinismo ambientale: le differenze culturali sono prodotto di 
analoghe differenze ambientali. 
 
Compare l’elemento evoluzionistico: esiste una sorta di linearità evoluzionistica che porta i popoli a 
progredire in maniera lineare accedendo a diversi gradi di sviluppo civile. I popoli più vicini alla natura hanno 
un livello culturale più basso proprio in ragione della teoria evoluzionistica. 
 
Si instaura un rapporto molto stretto tra lo spazio e il livello di evoluzione culturale e tecnologica di un 
popolo. I popoli tecnologicamente più avanzati sono anche culturalmente più evoluti, quindi hanno diritto di 
avere uno spazio vitale corrispondente. Questo concetto è alla base delle politiche di espansione verso i popoli 
ritenuti inferiori (come nella politica totalitaria del Terzo Reich in cui il popolo ariano è ritenuto il popolo più 
forte). L’università E. C. Semple traduce l’opera di Ratzel in ambito americano e la porta alle sue estreme 
conseguenze, arrivando al punto di affermare che i nostri modi di pensare trovano sempre una loro causalità 
nei modi in cui viviamo. Secondo questa tesi, l’assolutismo nasce in climi estremi, mentre la democrazia in 
climi temperati. Vige un rapporto stretto tra natura umana e substrato fisico naturale, per cui la natura 
diventa un prodotto etnico. C’è un ultima teoria, quella del diffusionismo, secondo cui il popolo assume 
determinate caratteristiche che rimangono tali anche quando il popolo emigra altrove. 
 Scuola francese di Paul Vidal de la Blanche, “Les genres de vie dans la géographie humaine” 
(1911), rifiuta l’impostazione deterministica e tende a dare più spazio all’uomo. Concepisce la cultura come 
“genere di vita” e la sua struttura è ancora strettamente ancorata all’ambiente fisico e alle capacità tecniche. 
Ma c’è un elemento nuovo che sgancia i nessi tra cultura e natura, cioè la possibilità di elaborare risposte 
diverse a parità di condizioni ambientali: le medesime condizioni possono produrre effetti diversi. La 
cultura dipende anche dall’evoluzione tecnica, da come si organizzano i gruppi su base di credenze, regole e 
abitudini che non sono spiegabili solo con criteri fisici. Questa scuola si avvicina di più allo strutturalismo, 
poiché implica una varietà di esiti che dipendono da come un gruppo di esseri umani si organizzano ed 
evolvono. 
  Scuola di Berkeley di Carl Ortwin Sauer, “The morphology of landscape” (1925), di origine tedesca 
ma università californiana. Il discorso viene rovesciato perché è la cultura che determina gli esiti di 
comportamento di un certo gruppo. La cultura viene intesa come un sistema omogeneo, compatto e stabile, 
quasi predefinito, cioè un “superorganico”. È qualcosa che sta al di sopra del livello biologico di 
funzionamento delle società umane. Si parla ora di determinismo culturale: tutti gli individui sono 
precondizionati dalla tradizione culturale che hanno alle spalle e hanno poche possibilità di allontanarsene. Si 
attribuiscono dei caratteri culturali ad un area più o meno estesa, chiamata area culturale, fino ad 
omogeneizzarli per un intera nazione. Sarà proprio in relazione a questo modello statico che la nuova 
geografia culturale reagirà, rivendicando le minoranze. Non tutti gli individui si riconoscono in questa 
tradizione pur essendone in qualche modo interessati. 
 
 Scuola italiana di F. Farinelli, “Villaggio indiano” (1981), contemporaneo ai primi articoli di geografia 
culturale anglosassoni. Studiando il modo in cui i geografi hanno analizzato le modalità insediative dei 
popoli in Italia fino agli anni ’70, egli registra la tendenza a ridurre l’atto insediativo (processo che evolve nel 
tempo, azione dinamica) a elementi statici. Questi sarebbero oggetti facilmente identificabili: i tipi edilizi. Si 
considera perciò solo l’esito finale dell’atto insediativo, attraverso la diffusione geografica dei tipi edilizi 
fissi. Dall’analisi di questi elementi si deducono delle caratteristiche culturali. 
C’è un passaggio etimologico-epistemologico cruciale: si parte da concetti che si riferiscono al dinamismo 
dell’azione a concetti che si riferiscono a tipologie edilizie. 
Village -> Settlements (dall’insediamento agli insediamenti intesi come oggetti diversi) 
Siedlung -> Siedelungen (dall’insediamento in sé ai prodotti dell’insediamento) 
Dimora -> Tipi edilizi (dal dimorare delle abitazioni, che ha un significato semantico più ampio, ai vari tipi 
edilizi) 
Queste concezione hanno un denominatore comune: tendono a fissare nello spazio e nel tempo questo processo 
culturale. Ciò implica che quando identifico un tipo edilizio che definisce una determinata area culturale, tutti i tipi 
che si discostano non vengono considerati in linea con essa. Ogni tipo di evoluzione o trasformazione, viene 
identificata come qualcosa che tende a fuggire da quest’identificazione. 
 
Questo vale anche per la geografia culturale americana, i cui principali esponenti sono C. Sauer, fondatore della 
geografia culturale, e W. Zelinsky (“The cultural geography of United States”). Già il titolo dell’opera 
prefigura una sorta di omogeneità culturale degli Stati Uniti e questo è uno dei motivi di critica più forti che 
porteranno a distaccarsi da quest’approccio. Egli adotta appunto il concetto di superorganico, per cui la cultura è 
applicata come un blocco coeso a determinate aree culturali. In questo caso la cultura si caratterizza per essere 
omogenea e sovraindividuale, qualcosa sospeso nell’aria su cui non ci si interroga più di tanto. La cultura è la 
gente (ciò che agisce e trasforma il paesaggio), la natura è il mezzo attraverso il quale la cultura agisce, e il 
prodotto è il paesaggio culturale. Devo studiare la morfologia di un paesaggio come esito di un prodotto culturale 
che si applica a dei fatti naturali. 
Zelinsky dice che stiamo descrivendo una cultura, non gli individui che partecipano ad essa. La cultura è come un 
blocco monolitico che gli individui non sono in grado di superare, poiché sono predeterminati dalla tradizione 
culturale che hanno alle spalle (determinismo culturale). Quando parla degli Stati Uniti, Zelinsky parla di 
configurazione, una sorta di struttura che configura in partenza l’esito culturale degli individui inseriti all’interno 
di essa. Secondo la sua tesi, la cultura americana è caratterizzata da quattro elementi: spiccato individualismo ai 
limiti dell’anarchia, predisposizione alla mobilità, meccanicismo razionale (spiega il livello di avanzata tecnologia), 
perfezionismo messianico. Si cercano di applicare questi principi ad ogni sfera della quotidianità, rivelando delle 
falle. Si mettono in evidenza tutte le sfaccettature, infatti non tutti gli individui si possono riconoscere in questa 
configurazione. 
Bonazzi invece afferma che una cultura non può esistere senza menti, ma è qualcosa che va oltre alla 
partecipazione dei singoli. La sua totalità è palpabilmente più grande della somma delle singole parti. Compare ora 
un’idea dialettica di cultura, intesa come processo che può evolversi nel tempo. Bisogna distingueretra cause 
formali e cause efficienti. Il mezzo è l’uomo che applica i principi culturali, è la causa efficiente. La causa formale è 
la natura. 
 
NUOVA GEOGRAFIA CULTURALE 
Negli anni ’60-’70 si tende a rompere questa omogeneità e rigidità con forme di critica sociale che alimentano le 
scienze sociali. La geografia culturale tradizionale, che tende a fare un discorso collettivo, spesso agganciandosi a 
dati materiali, è contestata dagli individui che rivendicano il proprio spazio dialettico. La nuova geografia 
culturale fa più attenzione agli aspetti immateriali, recuperando la cultura come processo: è più un modo di 
organizzare la realtà dal punto di vista simbolico e valoriale, che solo successivamente può condurre ad esiti 
concreti. Rivendica dignità scientifica, quindi un approccio più concreto che agisce sull’individualità o sulla 
dialettica interna ai gruppi culturali, solo apparentemente coesi e omogenei. 
Geografia culturale tradizionale: 
- Materialità: consolidarsi fisico nello spazio del processo culturale (tipi, oggetti, strumenti) 
- Collettività: etnia, popolo, struttura senza possibilità di dialettica 
Nuova geografia culturale: 
- Immaterialità: rappresentazioni, simboli, percezioni, spiritualità 
- Individualità: interazione tra individui, soggettività, esistenza, psiche 
È una geografia anti-sistemica, ispirata dal pensiero marxista anticapitalistico. Nella nuova geografia 
culturale la parte prevale sull’intero, l’individuo o la minoranza sono più degni di attenzione della massa comune. 
Si vuole cogliere la varietà del procedere di una cultura. Si recupera l’aspetto di “paideia” contrapposto al 
convenzionale, che non deve essere qualcosa a cui ispirarsi o a cui essere fedeli, è semplicemente il punto di 
arrivo di chi ci ha preceduto. Si riserva un’attenzione alla soggettività e alla persona rispetto all’esito oggettivo 
della dimensione culturale tradizionale. Si sceglie di dare importanza alla libertà del soggetto, anche oltre la 
razionalità rigida (sfera dei sentimenti). Si occupa delle situazioni borderline, i cui membri possono essere 
portatori di valori comunque autentici, in quanto espressione del sentire. Non esiste una regola universale che 
determina i nostri atteggiamenti, bensì si differenziano da soggetto a soggetto e a seconda delle situazioni. 
Polarità dialettiche della nuova geografia culturale: 
INDIVIDUALE > COLLETTIVO 
(colto – civilizzato, convenzionale) 
SOGGETTIVITÀ > OGGETTIVITÀ 
(libertà, sensibilità – razionalità, convenzione, regola) 
SPIRITUALITÀ > MATERIALITÀ 
(organizzazione simbolica del mondo – strumentalità, attività, prodotti) 
(antropologia culturale – etnografia) 
INVISIBILITÀ > VISIBILITÀ 
(rappresentazioni, credenze, miti – oggetti, siti) 
 
CULTURAL STUDIES IN INGHILTERRA 
Si sviluppano durante gli anni ’50 del Novecento, precedentemente alla nuova geografia culturale. Si tratta di una 
serie di riflessioni critiche mosse all’interno dell’ambito delle scienze sociali anglosassoni, legati alla “teoria 
sociale” della Scuola di Francoforte marxista, che si sviluppa negli anni ’30. 
Un aspetto contingente sono le riforme di matrice labour del sistema scolastico, che consentono l’accesso 
all’istruzione alle persone adulte, agevolando la possibilità di una riflessione teorica anche nelle classi sociali degli 
operai (working class). 
Altro elemento importante è la dissoluzione “attiva” dell’Impero britannico (Common Wealth) con 
conseguente emersione della sua natura eterogenea e multiculturale (postcolonial studies). Gli elementi che 
caratterizzavano il mondo coloniale inglese si riversano dal punto di vista migratorio verso il centro dell’impero, la 
capitale londinese, che sviluppa così un ampio assetto culturale. Questo è uno stimolo fondamentale affinché gli 
studi culturali mettano in discussione proprio la definizione stessa di cultura. 
Questi studi si concentrano nel “Centre for Contemporary Cultural Studies” (CCCS), fondato a Birmingham 
nel 1964. I principali geografi coinvolti sono: 
 Raymond Williams, “Culture is Ordinary” (1958), fondatore del centro. Egli rifiuta la “cultura alta” e 
l’idea che il prodotto culturale sia prodotto solo del quadro più colto, come i campi della letteratura e della 
poesia. Considera prodotti culturali anche quelli della società di massa (es. juke box) che non rientrano nello 
spettro tradizionale di cultura. 
Mette a confronto la descrizione del paesaggio classico inglese con quello della sua esperienza vissuta. La 
sua visione del paesaggio risulta quindi fortemente viziata dalla propria visione personale, senza alcun 
tentativo di oggettività. Dà valore all’esperienza autobiografica, uno degli elementi cardine della nuova 
geografia. Non c’è più l’illusione di poter costruire un’immagine oggettiva, anzi, l’immagine più vera è 
probabilmente quella che riconosce il punto di vista di partenza. Non c’è più un paesaggio omogeneo, bensì 
la coesistenza di elementi contrapposti all’interno di un medesimo sguardo, che tra di loro che non 
dialogano. Ciò mette in evidenza l’eterogeneità, l’evolvere del paesaggio che non è soltanto di forze fisiche, 
ma anche di forze che rispettano un modo di sentire. 
Sauer si occupava di aree rurali abbastanza stabili e limitava la sua analisi a quelle perché erano anche 
funzionali al proprio approccio. Insomma si occupa dei movimenti impercettibili nella durata del paesaggio, 
del dinamismo storico, non nel dinamismo quotidiano. Williams invece racconta di cambiamenti culturali 
nell’arco di una generazione, non nei secoli. Il paesaggio risulta quindi un prodotto di relazioni sociali anche 
dissonanti, non è un prodotto storico predeterminato destinato a durare nei secoli. La cultura è una sorta di 
luogo di mediazione tra le forme di produzione (substrato economico agganciato alla politica, 
dimensione marxista) e l’esistenza personale. 
  Richard Hoggart, “The uses of literary” (1956), direttore del centro dal ‘64 al ’68, proviene da una 
famiglia operaia dell’Inghilterra del nord. È importante evidenziare che molto spesso i nuovi geografi sono 
personaggi umili, e importano il punto di vista di provenienza. Hoggart rivendica dignità alla cultura del 
lavoro, che non è necessariamente qualcosa di raffinato, bensì è legata al quotidiano, ai processi di 
produzione. Presta attenzione al vissuto comune nei suoi dettagli più semplici. 
  Edward P. Thompson studia le differenze culturali all’interno di una medesima area e ne prefigura le 
potenziali conflittualità – per esempio: posizioni di resistenza alle innovazioni, contrasto coi poteri forti… 
Questo approccio si appoggia alla storia locale, difatti si utilizza il localismo come arma culturale per 
difendersi da trasformazioni non volute. 
  Stuart Hall si dedica alla difesa delle posizioni culturali deboli, aventi una loro dignità culturale che non 
viene considerata o che passano sotto a una serie di stereotipi culturali e di critiche. Alcuni esempi sono la 
cultura popolare britannica, il femminismo, la razza… 
 
Alcuni geografi inglesi lanciano un appello per una nuova geografia (1980) nel tentativo di convincere i loro 
colleghi ad abbandonare le idee saueriane, ancora in voga anche in Inghilterra pur essendo di matrice americana. 
 P. Jackson (Oxford-Sheffield), “A plea for Cultural Geography” (1980), studia ciò che hanno fatto i 
geografi inglesi prima di allora e scopre un’assenza di critica nei confronti della cultura. Come suggerisce il 
titolo dell’opera, è il primo a lanciare questo appello, denunciando il fatto che finora si è sempre analizzata 
l’area metropolitana sulla base del paradigma dettato dalla tradizione. Invita a considerare la cultura in 
modo più dialettico prendendo in considerazione le aree metropolitane marcate dalla multiculturalità. 
Bisogna fecondare la riflessione culturale attraverso una profonda indagine sociale. 
  J. Duncan (Vancouver), “The superorganic in American Cultural Geography” (1980), critica il 
superorganico dell’ideologiaamericana. Colpisce Sauer ma soprattutto i suoi discepoli, che spesso sono più 
rigidi, tra cui Zelisnky. Considera il loro approccio come una sorta di reificazione culturale (= omologazione) 
e avverte il bisogno di cogliere l’eterogeneità del mosaico culturale degli Stati Uniti. È colui che accusa 
Zelinsky di considerare gli uomini solamente come causa efficiente, cioè agenti di una cultura che è la causa 
formale dei comportamenti umani. Questa visione infatti implica l’assenza di dialettica e dinamismo, di 
riscatto verso norme prefigurate e di rapporti sociali. 
  D. Cosgrove (London-University of California), “Towards a Radical Cultural Geography” (1983). 
Secondo lui, la geo culturale, se vuole veramente dire qualcosa, deve assumere un atteggiamento radical 
(marxista) nella consapevolezza del fatto che un prodotto culturale è spesso agganciato a esigenze di 
potere. Dietro a prodotti politici e culturale ci sono sempre obiettivi di preservazione del potere da parte dei 
gruppi dominanti. Anche la struttura architettonica e il prodotto edilizio, come una villa di lusso in un 
paesaggio, sono il prodotto di un potere che celebra sé stesso a discapito delle altre realtà, attraverso 
prodotti di arte e cultura che acquisiscono un panaggio di cultura elevata. Dunque, la geografia culturale 
su base laica è quella che si occupa di esaminare i prodotti culturali in rapporto all’evoluzione del 
potere. 
 
Riassunto dei TEMI della nuova geografia culturale: 
- Spazio del potere e voci deboli (postcolonial studies): dalla working class, agli emigrati, al genere 
femminile, alla cultura gay… 
- Significati di dimensione simbolica del paesaggio (Cosgrove): il paesaggio culturale non è solo esito di 
una trasformazione storica, ma anche il luogo dove si espone dialetticamente il conflitto sociale 
- Produzione di discorsi e retoriche geografiche che spesso nascondono posizioni di potere e 
prevaricazioni: marketing che fa leva su immagini che sono in realtà edulcorate, operazioni culturali 
ciclopiche come i giochi olimpici, prodotti culturali che servono a un determinato scopo (es. retoriche 
totalitariste e nazionaliste) 
- Attenzione alla differenza, alla trasgressione, alla resistenza 
- Cultura come interazione tra persone (prossemica): cogliere l’ebollizione continua all’interno della 
cultura che non porta mai a qualcosa di definitivo, ma è frutto di un continuo evolversi e intrecciarsi (vedi la 
nebulosa “struttura del sentire”) 
 
GEOGRAFIA POSTMODERNA 
Si sviluppa dalla fine degli anni ’80 e si basa su questi punti fondamentali: 
 Decostruzione di testi e discorsi geografici VS il “taken for granted”: si presuppone che nessun 
punto di partenza sia oggettivo e incondizionatamente valido, integrando i vari punti di vista. Ciò porta a 
una costruzione di una teoria della conoscenza geografica che serve a contestualizzare la geografia 
e la cultura nei vari ambiti. 
  Politiche dell’identità e ascolto voci minori: sono importanti per i geografi che si occupano delle 
geografie di modernizzazione, cioè quelle che emergono dai cocci dello stato coloniale (post-colonial 
studies) che aveva imposto un discorso forte sul territorio. Emergono le minoranze, con la decostruzione 
dei concetti di orientalismo (cioè l’idea di Oriente è eccessivamente viziata dalla visione dell’Occidente che 
lo vede come altro da sé) e degli studi di genere (rivalutazione del mondo femminile e di un modo di 
intendere la scienza e la geografia culturale specifico del mondo femminile). 
  Postmodernismo di ispirazione marxista, come tardo capitalismo: secondo Jameson gli studi sul 
postmodernismo altro non sono che una seria di operazioni culturali che in realtà nasconde precise 
finalità economiche da parte di gruppi di potere. Per questo lo chiama “capitalismo soft”, legato 
all’ultimo stadio di progresso capitalistico. Punta sul soggetto, sull’individuo, sulla libertà del singolo, sul 
marketing, sull’appeal… Città e società postmoderne sono interamente basate sull’estetica del consumo 
e la cultura viene intesa come sovrastruttura, o addirittura motore dell’economia attraverso particolari 
rappresentazioni che stimolano i consumi e il turismo. A tal proposito Amendola dice che nessuna città può 
permettersi di essere brutta perché l’economia si regge sull’appeal estetico. 
 
GEOGRAFIA POST-POST MODERNA 
Già nel primo decennio duemila emerge una controproposta culturale, che va oltre la geografia postmoderna. 
È la così detta “svolta spaziale” (spatial/material turn, non-representiational theory; Thrift 1996), caratterizzata 
dal recupero del dato fisico, al ritorno alla studio della concretezza, che si era abbandonata in nome 
dell’importanza delle rappresentazioni e del immateriale. Si può dire che ci sia una sorta di neo-determinismo 
data l’importanza dello spazio nel determinare i discorsi geografici. 
C’è un generico ritorno alla concretezza geografica VS “socialmente costruito” o “privilegio del visivo”. Anzi, le 
retoriche vengono considerate come strutture materiali. In sintesi, la geografia culturale post-post moderna studia 
come le rappresentazioni condizionano la realtà. 
 Ritorno alla specificità geografia, verso una sorta di oggettivazione delle immagini culturali dei luoghi, 
recuperando la valenza culturale dei luoghi a prescindere dalle rappresentazioni. Norbeg Schulz descrive il 
“genius loci” come lo spirito del luogo, il quale ha una premianza che supera qualsiasi contingenza 
rappresentativa. Esso categorizza gli spazi con uno spirito particolare proprio di quel luogo che è difficile 
cambiare (es: luoghi classici, romani…). 
  Recupero della materialità, oltre il “simulacro” (agency degli oggetti: thing/think), biografie di oggetti 
materiali (es: souvenir che viene prodotto sempre in Cina). Esempio del souvenir o dell’immagine turistica, 
che esprime un bisogno di fuga. Diventa l’occasione di partenza per capire i flussi turistici. Inoltre poiché 
un certo tipo di immagini veicola le nostre aspettative, vogliamo ritrovare l’immagine turistica che ci ha 
fatto partire. Dal modo di pensare si passa alla cosa stessa (think -> thing), dalla rappresentazione 
alla materialità. 
  Dialettica fisicità/oggettualità e rappresentazioni: performance, embodiment (incanalazione fisica di 
questi modelli nella società concreta), circolazione e ricezione. La cartografia da immagine del mondo 
diventa modello per il mondo, ovvero un certo modo di rappresentare la terra di fatto poi condiziona quello 
stesso oggetto, orientandone le politiche di trasformazione. 
 
 
 
IL CONCETTO DI LUOGO 
Il concetto di luogo è il concetto chiave della geografia culturale, nonché uno dei temi più dibattuti della riflessione 
scientifica contemporanea. Siamo sempre di più abitanti politopici: il dinamismo a livello individuale e collettivo 
è aumentato negli ultimi decenni, e pur rimanendo legati a un luogo di partenza, interferiamo con tanti luoghi 
diversi. C’è un invasione del globo all’interno del locale, che non è più definito ma è riempito di oggetti che 
rimandano ad altrove. Il compito della geografia culturale è quello di ricostruire i nessi tra i luoghi e studiarne 
le relazioni. 
La parola luogo è talmente abusata da diventare scivolosa, perché crea una sorta di gap tra la semplicità e la 
frequenza con cui la usiamo e la complessità di significati e riflessioni scientifiche che comunica, che spesso 
vengono dati per scontati. In realtà ha un significato molto articolato, con posizioni diversissime tra loro. 
DIAPOSITIVE 2-3-4 
40°46’N 73°58’ W sono delle coordinate che collocano un luogo nello spazio, ma di esso non mi dicono nulla. 
Corrispondono a New York, ma non è sufficiente perché è qualcosa di molto più ampio. Se effettuiamo una 
zoomata progressiva scopriamo che si tratta dell’isola di Manhattan, ma in realtà c’è ancora un luogo più definito: 
Tompikins Square Park. 
Parlando di New York ci si riferisce già a una stratificazione di significati e memorie (complessità, NONsemplicità). Possiamo provare a riassumere il significato di New York col termine “Grande mela”, coniato nel 
1901 da Edward Martin. Nel suo saggio su New York dà una definizione critica di questa mela: lo stato di New York 
viene paragonato a un albero le cui radici provengono dalla valle proletaria del Mississippi, mentre il frutto di 
questo albero riceveva un sussidio economico sproporzionato dallo stato. Insomma viene considerato un luogo 
privilegiato dal punto di vista fiscale che rubava le risorse da tutto il circondario. New York però è anche il 
mondo dell’ittica: all’ippodromo di New York viene dato il nome di “Grande mela” nel gergo in uso tra gli 
appassionati afro-americani. È anche il mondo dei jazz per la grande occasione di successo e di fama che offre ai 
giovani talenti musicali. Il sindaco Rudolf Giuliani comincia a veicolare l’immagine di New York come una “grande 
mela”, cioè la grande città delle occasioni, in pratica è il mito americano declinato su scala newyorkese. Nel 
1997 Giuliani ha battezzato il luogo dove abitò Fitzgerald “Big Apple Corner”. Dal punto di vista economico Non è 
da trascurare il fatto che le due città più celebrate dell’America, New York e Los Angeles, sono le città in cui ci 
sono le più grandi industrie cinematografiche: Hollywood e Broadway. Queste due città hanno fatto 
dell’immagine di sé una vera e propria operazione di marketing che ha moltiplicato le aspettative, ma in realtà 
vivono grandi problematiche dal punto di vista umanistico. 
Ci spostiamo all’isola di Manhattan, termine indiano precedente alla colonizzazione. Nella parte orientale dell’isola 
si trova Tompkins Square Park: 
1830: spazio pubblico per iniziative del vicepresidente D. Tompkins. Parco per bimbi, ma anche luogo di libertà 
di espressione per predicatori, proteste e dissenso anarchico. Si caratterizza per essere un luogo di libertà a tutti 
gli effetti. 
1960: spazio per bohemiennes, squatters (senza tetto), artisti di strada. Le situazioni borderline si appropriano 
di questo spazio, facendo costruzioni di tipo abusivo. Creazione di community gardens e casitas portoricane. È 
uno spazio libero e disordinato che a un certo punto attrae anche l’élite colta per la sua ricchezza umana e 
culturale. Questa borghesia alternativa (= gentry) desidera appropriarsi delle proprietà immobiliari che si 
affacciano su questo parco. Diventa un luogo di tendenza, ricco di spettacoli, manifestazioni, artisti, ha anche 
attrattiva commerciale per i locali alternativi… 
1980: processo di gentrification, cioè l’aumento del valore immobiliare determinato dall’aumento dell’appeal 
dello spazio urbano. È un fenomeno che avviene soprattutto nei quartieri popolari che passano da una situazione 
di degrado urbanistico a luoghi di forte appeal per il loro richiamo culturale, per la posizione centrale e la loro 
storia. Avviene la nobilitazione di un luogo che da un livello popolare basso diventa a panaggio di classi sociali più 
elevate con l’acquisto degli immobili, resi più qualificati e dal valore immobiliare molto più elevato. La gentry 
scalza le persone meno abbienti perché quando aumenta il valore immobiliare non hanno la possibilità di 
acquistare alloggi. Muta quindi la composizione sociale del quartiere verso classi più elevate, diventa un luogo 
radical chic (alternativo) per i borghesi. Ciò produce conflitti nel rapporto tra questi due gruppi sociali distanti tra 
loro. La classe più abbiente richiede interventi dell’ordine pubblico, come la rimozione degli homeless (barboni) 
per ragioni di sicurezza pulizia e qualità. C’è anche in ballo un’operazione di tipo politico: il sindaco ha deciso di 
attribuire la proprietà del parco non all’assessorato del verde di New York, ma all’NYC Department per l’operazione 
di riqualificazione immobiliare. Nasceranno una serie di proteste che culmineranno nella rivolta del 1986. 
1992: Ristrutturazione dell’assetto complessivo del parco stesso da parte del sindaco Giuliani, col conseguente 
smantellamento della realtà anarchica del parco. Questo ci fa capire come questo sia stato fatto proprio da gruppi 
sociali diversi che lo concepiscono in maniera altrettanto diversa. Hanno un’idea che confligge: i poveri lo 
considerano come uno spazio libero del quali appropriarsi, i bohemiennes, gli artisti, gli anarchici e i predicatori ne 
fanno un luogo di libertà in cui possono esprimere le idee liberamente, e la gentry lo vede come un luogo fascinoso 
per la sua storia alternativa, ma con l’operazione di gentrificazione questo luogo finirà per non accettare più 
queste diversità. L’operazione immobiliare prevista dal sindaco sarà però frenata dall’acquisto del parco da parte di 
una fondazione. Si assiste al contrasto tra il potere pubblico che voleva ristrutturare gli spazi ed effettuare il 
rilancio immobiliare dell’area, e la fondazione che vuole garantire lo spazio pubblico e di libera espressione. 
Da questa spiegazione possiamo trarre delle conclusioni sul concetto di luogo: 
 Luogo vs spazio: (posto, posizione, localizzazione): intanto il luogo non è semplicemente uno spazio 
perché questo termine richiama solamente la localizzazione fisica all’interno dello spazio, ciò dove è 
ubicata una cosa. Per definire un luogo non bastano certo le coordinate geografiche! 
  Luogo vs soggetto: esperienza personale (trasformazione spazio/luogo): evidentemente il luogo è 
collegato a un’esperienza personale. Non tutte le esperienze sono uguali, dipendono dalle caratteristiche 
del soggetto. Attribuiamo un senso del luogo diverso a seconda di chi lo esperisce. 
 
 Luogo e tempo: stratificazione di storie, memorie: i luoghi sono una stratificazione di vissuti, hanno 
diverse fasi storiche. Si mettono a contatto col concetto di storia e di memoria. 
 
 Luogo vs spazio: multiscalarità, luoghi-matriosca i luoghi non hanno una dimensione unitaria, bensì 
sono formati da una stratificazione anche multiscalare di significati che interagiscono l’uno con l’altro. Sono 
luoghi matriosca, che al loro interno nascondono altri luoghi. 
 
LUOGHI E MIGRAZIONI 
Emerge anche il tema della mobilità. Chi costruisce il censo di un luogo non necessariamente è sempre vissuto 
in quello stesso luogo. È tutta una serie di provenienze esterne che produce significato in quel luogo. Bisogna 
riflettere sul rapporto luoghi-mobilità-migrazioni. Questo dinamismo è qualcosa che possiamo considerare una 
regola generale applicabile a tutti i luoghi e a tutte le epoche o è specifico di un momento storico? Russel King 
introduce il rapporto luoghi-migrazioni: il luogo è ciò che si autodefinisce dall’interno e ciò che viene da fuori va a 
turbare l’equilibrio (localismo) oppure il luogo è sempre stato composto dall’interazione di interno ed esterno, cioè 
è sempre stato ibrido? 
DIAPOSITIVE 6-7-8-9-10 
Sembra che l’homo sapiens sapiens si sia diffuso in tutto il mondo partendo dall’Africa, ciò significa che sin dalle 
origini della storia l’uomo non è rimasto fermo in un luogo. Questo tipo di dinamica migratoria non è determinato 
solo dalla volontà dell’uomo, ma anche da svariati fattori esterni: siccità, calamità naturali, alluvioni, che hanno 
rotto l’equilibro del suo luogo di vita e l’hanno costretto a muoversi per trovando altre risorse e possibilità, 
riorganizzando lo spazio… Questo ha portato all’espansione della nostra specie un po’ in tutti i continenti alla 
ricerca di situazioni più favorevoli. Glaciazioni e situazioni di forte cambiamento climatico hanno aiutato a 
selezionare le aree più favorevoli alla sopravvivenza. Insomma il dinamismo era presenta sin dalle origini, 
obbligato dalle calamità. 
È importante il rapporto tra necessità e volontà di muoversi. A prima vista è la necessità a determinare la 
migrazione, ma di fatto l’uomo non ha radici, i piedi sono fatti per camminare ed è naturalmente portato allo 
spostamento. Il maggiore fattore di sradicamento però ce l’ha nella testa, cioè il bisogno di conoscenza e 
superamento dei limiti intrinseco dellanatura umana che lo distingue dagli animali. 
Il tema della migrazione cambia significato con la civilizzazione e la nascita di agricoltura e allevamento. 
L’addomesticamento di piante e animali dà all’uomo una sicurezza in più: non è più cacciatore-raccoglitore, non 
dipende più dalle risorse che trova nell’ambiente, ma è in grado di riprodurle, avviando un processo di 
sedentarizzazione. 
L’uomo si è sempre mosso per necessità o per volontà, ma quando comincia a sedentarizzarsi si sposta 
apparentemente di meno. La sedentarizzazione e la nascita delle città, connesse all’agricoltura e all’allevamento, 
gli garantiscono la stabilità, molto più che con la caccia e la raccolta. Tuttavia non è vero che diminuisce il 
dinamismo dei popoli, anzi può trasferirsi con un progetto deliberato e mirato di colonizzazione. L’uomo 
trasferisce la sua abilità tecnica in posti nuovi, in cui organizza la sua permanenza. Questa sedentarizzazione solo 
apparentemente stabilizza l’uomo, in realtà ci porterà alle fasi del colonialismo. 
L’agricoltura consente un surplus di risorse, con conseguente miglioramento delle condizioni di vita, incremento 
demografico, espansione e conquista di nuove terre (colonialismo). Il commercio triangolare, primo caso di 
organizzazione pianificata a livello intercontinentale, prevede non solo lo spostamento di risorse, ma anche di 
popolazione. Tra il Cinquecento e l’Ottocento si sono mossi 2 milioni di europei e 6 milioni di africani. Terminato il 
colonialismo non è però concluso lo sfruttamento e lo spostamento di masse di manodopera da parte delle potenze 
economiche multinazionali. 
Poi c’è la fase di migrazione volontaria dal vecchio mondo verso il nuovo mondo. Questa è la fase delle 
migrazioni transoceaniche che ha portato dal 1950 al 1914 al sovrappopolamento dell’Europa che già stava 
producendo un forte incremento demografico grazie alla rivoluzione tecnologica-industriale. 
Adesso sarà importante parlare del concetto di transizione demografica per comprendere qual è il rapporto tra 
popolazione e risorse. Tra il Cinquecento e il Seicento, in una situazione di pre-rivoluzione scientifica (= 
Illuminismo, investimento nella scienza che prodotto miglioramenti delle condizioni mediche) la popolazione del 
mondo si trovava in condizioni di alta natalità e alta mortalità. Precedente alla rivoluzione industriale c’è la 
rivoluzione agricola che porta un cambiamento positivo nell’alimentazione, quindi più possibilità di affrontare le 
malattie. Questa è la situazione delle aree sottosviluppate o precedenti alla rivoluzione tecnologica industriale. 
Quando quest’ultima avviene e interviene un miglioramento non solo dell’alimentazione ma anche delle condizione 
igienico-sanitarie, subito il tasso di mortalità comincia a scendere, perché si evita un gran numero di morti 
bianche. Però non scende il tasso di natalità perché risente delle condizioni tecnologiche, economiche e 
culturali. Il fare meno figli è il prodotto di una serie di altri fattori, scende solo quando fare tanti figli costituisce un 
problema. Nelle famiglie agricole avere tanti figli non era un grosso peso economico, anzi comporta un aumento di 
manodopera, mentre nelle nostre società è un peso economico perché si devono avere le risorse sufficienti per 
poterli mantenerli ed educarli, garantendo loro un tenore di vita adeguato allo standard in cui mi trovo. Anche la 
condizione femminile è determinante del tasso di natalità. Nei paesi in cui la popolazione femminile ha i tassi di 
impiego occupazionali maggiori abbiamo tassi di natalità inferiori, perché la donna che lavora ha meno tempo di 
occuparsi dei figli. 
Gran parte dei paesi europei hanno un gap tra tasso di natalità e tasso di mortalità abbastanza 
contenuto: quando comincia a scendere un tasso, scende anche l’altro. In Europa abbiamo una fase di 
incremento demografico che corrisponde esattamente a questa situazione. Tra la seconda metà dell’Ottocento e la 
prima metà del Novecento l’Europa attraversa una fase di transizione demografica. Questo aumento demografico 
porta alta natalità e bassa mortalità, ed è boom che si registra ovunque. La popolazione cresce in maniera 
esponenziale fino a stabilizzarsi. 
Oggi siamo in una situazione in cui entrambi i tassi si sono assestati a una soglia fisiologica che è intorno al 
10‰, infatti la popolazione italiana non cresce più. [attenzione: stiamo parlando del saldo naturale, cioè gli 
abitanti di nazionalità italiana, non del saldo migratorio.] In realtà in alcuni paesi (es. Italia, Giappone) dove il 
reddito è molto elevato, le condizioni di vita sono molto buone complessivamente e c’è uno stato sociale debole, 
c’è un tasso di mortalità superiore al tasso di natalità. Costa troppo fare figli e quindi il livello di procreazione 
si attesta sotto la media nazionale (8‰). Teoricamente dovrebbero esistere 2,1 figli per coppia, ora siamo a 1,6. 
L’Italia dovrebbe perdere popolazione e i flussi migratori sopperiscono a questo: sia in termini diretti, ovvero 
popolazione che entra concretamente, sia indiretti, ossia il comportamento e la cultura che per chi entra prevede 
più figli. Infatti le coppie di immigrati che provengono da situazioni di povertà hanno più figli del normale. 
Questo schema della transizione demografica non è applicarlo a livello planetario. Nei paesi in via di sviluppo 
(es. Cina, India) la popolazione esplode. È intervenuto il cambio della mortalità, ma non è ancora sceso del 
tutto il tasso di natalità. Per porre rimedio a questa situazione, in Cina viene introdotto forzosamente il controllo 
delle nascite e l’abbattimento dei figli dopo il primo, mentre in India la soppressione delle nate femmine. Così 
facendo, il gap tra il numero di nati maschi e il numero di nati femmine non è biologicamente giustificabile. I 
governi hanno capito che questo incremento demografico incontrollabile doveva essere fermato, e l’hanno 
arrestato in maniera forzosa, non naturalmente come dovrebbe avvenire col miglioramento delle condizioni 
economiche generali (aumento del reddito, costo della vita più elevato, livelli tecnologici più avanzati e quindi 
contrazione della natalità). Per ragioni politiche questa diffusione del benessere viene bloccata e si è costretti 
a intervenire forzosamente. I demografi hanno da tempo lanciato un allarme perché la popolazione del pianeta 
rischia di andare fuori controllo perché questa transizione non si chiude nei paesi in via di sviluppo. 
Nel 2050-2100 si teorizza che la popolazione dell’intero pianeta dovrebbe fermarsi. MA non è ancora tutto 
risolto perché questa situazione fa sì che la popolazione progressivamente invecchi, perciò i costi sociali 
dell’invecchiamento (la pensione per gli anziani) produrrebbero una situazione di pericolo, per cui il livello di 
benessere sarebbe addirittura peggiore dell’incremento demografico. Il rapporto tra popolazione attiva e 
popolazione passiva vedrebbe lo svantaggio della prima, perché pesa un carico molto maggiore di costi per 
sostenere la popolazione anziana, a meno che non intervenissimo e dessimo quei soldi ai nuovi nati, evitando 
questo rischio. Tuttavia questa situazione viene compensata dai paesi in via di sviluppo, che bussano alle porte 
dell’Europa: l’incremento demografico dell’Africa riequilibra il salto demografico. 
 
Tornando al discorso delle migrazioni, dobbiamo dire che anche la popolazione stabile se è in una fase di 
transizione produce inevitabilmente dinamismo perché abbiamo un incremento di popolazione che deve 
trovare sbocco altrove. Questa fase di transizione demografica europea ha prodotto uno spostamento di milioni 
di abitanti in zone del nuovo mondo: 50 milioni di europei tra il 1950 e la seconda guerra mondiale si sono 
trasferiti nelle Americhe, 70% negli Stati Uniti e il resto nel Sudamerica; solo in Italia sono emigrati 9 milioni di 
abitanti. Ci sono fattori di spinta e fattori di traino: le grandi ondate migratorie europee sono state prodotte da 
situazioni di squilibrio demografico,povertà e attrazione verso altre realtà. 
Ma il rapporto luoghi-migrazioni / staticità-mobilità è cambiato effettivamente negli ultimi anni oppure no? E se sì 
in che termini? Perché oggi va tanto di moda parlare di difesa del locale (= localismo) e non lo era nella fase di 
migrazioni transoceaniche tra fine Ottocento e inizi Novecento? 
Globalizzazione e dinamiche migratorie, pur essendo sempre esistite, hanno assunto negli ultimi decenni 
caratteri nuovi. Oggi siamo di fronte alla compressione spazio-temporale e l’estensione delle relazioni 
spaziali. Ciò è stato determinato da vari fattori: 
 Accelerazione dei processi: maggiore potenza e diffusione dei mezzi che consentono uno spostamento 
rapido. Alcuni fattori fondamentali sono i voli low cost, elemento formidabile di avvicinamento; i mezzi di 
comunicazione fisica quali navi, aerei, treni, e la diffusione di massa delle automobili negli ultimi 
cinquant’anni; i mezzi di comunicazione virtuali come tv, telefono, internet… Quindi non è soltanto la 
comunicazione fisica ma anche quella virtuale che ci avvicina a luoghi lontanissimi del pianeta. 
 
 Ampliamento numerico del fenomeno: si calcola che da 30-60 milioni di immigrati negli anni ‘80 del 
Novecento siamo passati a 191 milioni di immigrati nel 2005. In realtà dal punto di vista quantitativo non 
è un dato soverchiante, difatti costituiscono solamente il 3% della popolazione mondiale. Però non si sta 
tenendo conto delle migrazioni interne, non ci sono solo quelle transnazionali. Riassumendo, la 
maggiore disponibilità e potenza dei mezzi di comunicazione ha consentito un forte aumento della mobilità 
stessa. 
  Push factors (spinta) > Pull factors (traino): si è invertito il segno della direzione: prima si partiva dal 
mondo civilizzato alla conquista di nuovi mondi, oggi si va dal terzo mondo al primo. Cambia anche la 
natura del fenomeno: prima erano migrazioni volontarie, ora non sono più guidate dai fattori di traino, 
bensì dalle situazioni di miseria. Sono l’eccessivo incremento demografico e la povertà permanente 
che fanno da fattori di spinta. Il benessere dei paesi del primo mondo viene comunicato anche 
televisivamente. Queste migrazioni adesso non sono più governate, si è costretto a difendersi imponendo 
meccanismi di controllo come la chiusura delle frontiere. 
  Ampiezza spaziale delle migrazioni: si è molto dilatata, infatti le migrazioni non partono più soltanto 
da aree regionali vicini, che non erano nemmeno culturalmente così distanti dalla nostra realtà. Oggi 
abbiamo a che fare con migrazioni “so far”, da molto lontano che mettono a contato realtà molto diverse 
tra di loro. Da flussi quasi esclusivamente regionali si è passati a flussi globali. 
  Compresenza e varietà di migranti in un luogo: questa multiscalarità dei flussi migratori 
(regionali, continentali, globali) danno origine a un caleidoscopio etnico notevole e alla compresenza nello 
stesso contesto di nazionalità diversissime. Per esempio Arzignano (Vicenza) è famoso per la lavorazione 
delle pelli, un lavoro pesante, “sporco”, che attrae una notevole quantità di immigrati di nazionalità diverse 
in un paese che ha 10-15.000 abitanti. Nel 2010 si sono calcolate 69 nazionalità diverse. 
  Maggiore articolazione sociale: se fino agli anni ‘60-‘70 la popolazione migrante era prevalentemente 
giovane e maschile e seguiva il ricongiungimento dopo la fase esplorativa, oggi c’è un articolazione sociale 
molto maggiore in termini di componente demografica. I ricongiungimenti familiari sono sempre più 
rapidi, ci sono anche le migrazioni femminili (dovute anche alla richiesta di manodopera) e infantili. La 
situazione si è rovesciata: molto spesso è la donna che emigra in cerca di lavoro lasciando a casa il marito. 
Questa situazione produce esigenze e impatti molto diversi sui luoghi d’arrivo. Uno dei problemi più 
frequenti è l’integrazione di tipo scolastico dei bambini. Ma ci sono svariate fasce sociali che emigrano, non 
soltanto i poveri ma anche le fughe di cervelli, persone molto colte e preparate che emigrano sulla base 
della richiesta della propria professionalità. 
I Gasterbeiter (= lavoratore ospite) sono migranti ospiti in Germania, che ha un modo di concepire la migrazione 
in modo molto selettivo ed esclusivo. Negli anni ‘60-‘70 del Novecento la Germania ha accolto una serie di 
lavoratori provenienti prevalentemente dall’area turca che hanno fatto comodo all’industria tedesca perché erano 
manodopera a basso costo. La Germania però non acconsentiva ai ricongiungimenti familiari perché 
rappresentavano un costo sociale aggiuntivo. Alla fine del periodo lavorativo dovevano ritornare in patria, non 
potevano rimanere permanentemente nel suolo tedesco. Questo meccanismo è andato avanti fino al periodo 
nazista, e la Germania ne ha ricavato un vantaggio netto data la forza lavoro a basso prezzo e senza costi 
sociali: non c’erano pensioni da elargire e i contributi versati non uscivano dalle casse tedesche. Tutto questo ha 
avuto una fine quando è cambiata la situazione economica, con le regole imposte dall’Unione Europea che 
prevedevano maggior riconoscimento dei diritti dei migranti. La situazione tedesca è cambiata e di 
conseguenza la migrazione è molto aumentata. 
Queste migrazioni di massa, che solo in parte rispondono alle esigenze del mercato del lavoro, portano a 
conseguenze sociali non calcolabili. Per questo costituiscono un elemento di ostacolo in partenza e vengono 
imposte una serie di norme per contrastare queste masse in entrata. Questa situazione riguarda moltissimo 
tutti i paesi del primo mondo che difendono il proprio status con forme di controllo sociale non facilmente gestibili. 
In Australia è difficilissimo entrare non solo per l’isolamento fisico, ma anche per i controlli molto rigidi che 
impediscono la dinamica migratoria. 
 
DIAPOSITIVA 12 
Questa mappa illustra la composizione etnica dei quartieri londinesi. Come si denota, I bianchi British 
provenienti dal Regno Unito tendono ad essere una popolazione con residenza suburbana. La deurbanizzazione è 
un fenomeno che interessa le grandi metropoli in cui la popolazione locale più abbiente è localizzata in zone dove 
la qualità residenziale è maggiore, meno interessate dai problemi delle aree centrali. Le altre etnie [irlandesi, 
europei, area asiatica: indiani, pachistani, bengalesi, neri caraibici, neri africani, cinesi] vengono indirizzate a 
progetti di rigenerazione urbana, caratterizzati dalla volontà deliberata di sancire la connotazione etnica 
del quartiere. Questo fa sì che le popolazioni migranti tendono a trovare residenza vicino ai propri connazionali. 
Questo è il modello tipicamente anglosassone-americano di tipo multiculturale, che rende le diverse etnie presenti 
nella città ben contingentate. Queste politiche insomma sono volte a connotare lo spazio dello straniero, in cui va 
preservata la sua diversità culturale, ma è uno con confini netti e lì deve rimanere. 
Se noi facessimo una mappa di una qualsiasi città italiana, la composizione demografica e la distribuzione delle 
residenze degli immigrati risulterebbe pressoché uguale in tutti i quartieri. Non solo gli immigrati insistono nelle 
stesse quantità in tutti i quartieri, ma paradossalmente tutti i quartieri ne hanno la stessa quantità. La 
distribuzione è abbastanza omogenea in tutta la città, contrariamente al modello inglese, su cui hanno influito 
anche fattori storici come la colonizzazione. 
 
Finora abbiamo fatto un discorso quantitativo, in realtà quando noi parliamo di rapporto luogo-migrazioni 
dobbiamo inserire anche un altro registro, l’analisi qualitativa. Bisogna scavare di più all’interno della 
soggettività e abbandonare le etichette dei dati ufficiali. Chi mi dice che questa distribuzione per gruppi etnici non 
sia discutibile, decostruibile dal proprio interno? Per esempio: un indiano può provenire dal nord o dal sud 
dell’India, può essere di una certa casta, può essere da più tempo in una data città e avereuna posizione culturale 
diversa da chi ci è appena arrivato, può essere laureato. Questa classificazione sulla base dell’etnia o della 
nazionalità può essere un dato molto grezzo perché richiede ulteriori approfondimenti, e può anche essere 
fuorviante perché non colgo la distinzione qualitativa. Stessa cosa dicasi per altre componenti; per esempio, 
l’indicazione della religione in un contesto così ibrido di influssi culturali e di libertà individuali. Quando 
parliamo di religione in Italia abbiamo un’idea di predominanza cattolica, ma in realtà chi professa effettivamente 
è una percentuale più ridotta. Connotare un migrante sulla base di una propria fede religiosa può avere un senso 
quando quel migrante fa della fede un elemento della propria identità, ma magari quello stesso migrante non è 
credente o non è praticante. L’identità culturale presupposta dall’origine non necessariamente è uguale nel tempo. 
Bisogna quindi ibridare e decostruire una serie di etichette che diamo per scontate. 
DIAPOSITIVE 13-14-15 
Le poesie di commiato dei migranti sono simili al modello dei “Promessi sposi”, in cui Lucia abbandona il paese 
natio. Questi testi ci comunicano due valori fondamentali: la nostalgia e il dolore legati alla perdita 
traumatica del luogo. Le partenze sono spesso dolorose e vengono accettate con più o meno consapevolezza e 
determinazione. I monumenti all’emigrante si sono moltiplicati, e, come lo poesie, sono sempre connotati da 
questo senso di incertezza e timore verso l’ignoto. 
Il monumento all’emigrante di Adelaide è significativo perché immortala una famiglia in partenza, i cui 
membri hanno lo sguardo volto verso tre direzioni diverse. Il padre guarda verso la destinazione di arrivo, con una 
certa determinazione e sicurezza; la madre si guarda indietro con nostalgia e dolore verso i luoghi che sta 
abbandonando; il figlio guarda nella dimensione mediana tra i due. Da ciò ricaviamo che esistono tre propensioni 
differenti al momento del movimento migratorio: 
 La speranza di uscire da un mondo povero, limitato e senza prospettive, quindi la volontà di riscatto e la 
speranza di ottenere dei vantaggi dopo una prima fase di sacrifico.  La visione nostalgica di ciò che si abbandona, che sottolinea la sofferenza ma anche la mitizzazione del 
luogo che si lascia, cioè la selezione memoriale degli elementi abbandonati. La nostalgia è potente motore 
di mitizzazione, ma solo degli elementi positivi!  L’atteggiamento di ibridazione, che appartiene a una persona che di fatto apparterrà 
contemporaneamente a due mondi, che rimarrà sempre in mezzo. 
Il calco di Asiago ne ha rovesciato completamente il significato. “Speranza e nostalgia” del primo monumento si 
sono trasformati in “coraggio, orgoglio, sogni, conquiste”. Gli emigrato sono energia nuova, nuove forze giovani 
che provengono da lontano. Il primo è una sorta di auspicio al miglioramento ma richiama l’incertezza e la 
difficoltà di partire, mentre il secondo esalta la popolazione migratoria coi suoi elementi positivi e rinnovatori. 
Si tratta di un rapporto soggetto-luogo che si può indicare soltanto dal punto di vista qualitativo. 
 
Quando si parte da un luogo si producono delle conseguenze sia nel luogo di partenza che nel luogo di arrivo. Si 
priva di una serie di risorse e di energie il luogo di partenza, poiché chi si muove per primo sono le componenti 
più intraprendenti che hanno il coraggio di affrontare l’ignoto, che non sono soddisfatti delle loro condizioni di 
vita, e sono potenzialmente energie positive. Ciò provoca un impoverimento del luogo di partenza (es. nel sud 
Italia non si è mai sottolineato quando abbia inciso la fuga di cervelli che ha alimentato ancora di più la situazione 
di arretratezza). La nostalgia favorisce la mitizzazione del paese d’origine, secondo cui il Paese rimane nella 
memoria del migrante bloccato nella situazione in cui l’ha lasciato, e al riorno si aspetta di ritrovare ciò che aveva 
perduto, senza cambiamenti. Questo processo è funzionale alla riscoperta folclorica di quello stesso paese; un 
esempio è il presepe che si vorrebbe immutabile, di cui si apprezza l’arretratezza, ma la si riscopre dal punto di 
vista del tempo libero. 
Quando parliamo di luoghi d’arrivo parliamo dei luoghi che ricevono la manodopera, che rappresenta un 
aumento della componente demografica e un fattore di rinnovamento perché gli immigrati vengono 
impiegati in attività economiche ed è influenzato anche il mercato degli alloggi. È un meccanismo che ha a che fare 
con l’immissione di energie nuove che possono essere allocate spazialmente in maniera diversa; per esempio ci 
sono i quartieri etnici che si ritagliano un proprio spazio riservato e protetto, anche di fronte a situazione di 
intolleranza e difficoltà di integrazione (China Town, Little Italy, quartieri londinesi…). La componente negativa è lo 
spaesamento iniziale che può essere più o meno duraturo a seconda delle capacità di integrazione e 
assimilazione da parte del paese ospitante. Quello di Gasterbaiter era un caso di comunità locale che non accetta 
di convivere con lo straniero e lo isola senza avviare tentativi di integrazione. Laddove non ci siano forme di 
alienazione forti imposte dall’autorità politica, queste migrazioni danno origine a situazioni di meticciato e 
ibridazione, per cui si creano delle trasformazioni, quasi sempre verso il potenziamento economico, ma anche di 
arricchimento culturale. 
Superata la prima fase migratoria, nella seconda fase si crea una dialettica qui-laggiù, secondo cui i rapporti tra 
il luogo di partenza e di arrivo sono molto più facilitati. Grazie alla diffusione della tv satellitare c’è la possibilità 
di rimanere in contatto quotidiano col paese d’origine in maniera insolita rispetto al passato. Ciò riduce in 
parte il trauma ma rende difficile l’integrazione nel nuovo luogo. Oggi sembra esserci un’esigenza di 
appartenenza politopica, continuamente favorita dai mezzi di comunicazione sia virtuali che fisici, ma anche 
dalla possibilità i mantenere la doppia cittadinanza dal punto di vista giuridico. Questa dialettica potrebbe essere 
qualcosa di temporaneo ma anche perdurare nel tempo, non si sceglie se appartenere a una parte o all’altra. 
L’ultima fase migratoria è quella potenziale del rientro al luogo di origine. Spesso accade alla fine dell’attività 
lavorativa quando si è acquisito un certo status economico, e si dà ascolto al richiamo della nostalgia. Ma può 
anche accadere che ci si inserisca in maniera talmente forte nel luogo di arrivo che non si è più disposti a 
ritornare; oppure l’operazione di mitizzazione, nel momento in cui si colgono gli aspetti positivi del luogo di 
arrivo, viene messa alla prova da tentativi di ritorno che spesso falliscono perché il luogo d’origine non 
corrisponde più all’immagine di partenza che avevamo conservato. Dobbiamo fare i conti con gli aspetti negativi 
che ci avevano spinto a uscire e per questo si fa fatica a reintegrarsi, ci si pente oppure semplicemente non si 
rientra perché non si è più in grado di accettarli. Bisogna effettuare un’operazione di selezione culturale che fa 
sì che io tenga in vita degli aspetti della mia cultura ma che ne cancelli degli altri. Abbandono volentieri gli 
elementi repulsivi del mio paese d’origine, come le strutture inefficienti, l’apparato statale non funzionante, la 
corruzione, mentre conservo gli aspetti positivi come la cultura del cibo. Le culture quindi non sono come dei 
blocchi monolitici, bensì sono fatte da tanti elementi su cui opero una selezione, portando a un’ibridazione del 
proprio background culturale. 
Queste forme di ibridazione sono interessanti perché sono fecondative, cioè creano la nascita di nuovi universi 
culturali che sono prodotto del connubio di realtà diverse. La cultura sembra sempre uguale a sé stessa da 
quando nasciamo a quando ce la portiamo nella tomba, sembra che non si possa più lasciare, ma in realtà non è 
proprio così. Quando noi parliamo di luoghi, soprattuttoquelli con una grande mescolanza culturale, dobbiamo 
cominciare a ragionare sul concetto di luogo stesso: è qualcosa che predeterminiamo in partenza escludendo 
tutta una serie di parametri che consideriamo estranei, o dobbiamo considerarlo come qualcosa che si muove in 
continuazione, e che ha semplicemente bisogno della nostra metabolizzazione? 
Naturalmente questa mescolanza genere anche aspetti negativi, come la critica al marketing etnico, 
all’esaltazione etnica da vetrina, che non è autentica ma è qualcosa di commerciale che serve a noi per dare un 
tocco esotico al nostro salotto. Avviene il nascondimento di aspetti culturali che non sono così appetibili al 
business turistico, come la diversità religiosa (es. la moschea è elemento di conflitto tra comunità), imprigionando 
quella cultura in determinati clichés. Le ibridazioni quindi devono metterci in guardia da enfatizzazioni etniche che 
sono lontane dalla realtà e vengono sbandierate da meccanismi di marketing e sfruttamento pubblicitario. 
 
PICCOLA TERRA (Università di Padova, 2012) 
“Piccola Terra” è un documentario sulla tematica del ritorno alla terra, che noi analizzeremo nella chiave di lettura 
del rapporto luogo-migranti. Racchiude una serie di significati che hanno a che fare con l’identità, la tradizione, il 
patrimonio… Tutto ciò che è concepito come qualcosa di peculiare di un luogo geografico viene rimodulato dalle 
dinamiche migratorie. Si parla della relazione tra località delle Prealpi venete “Valstagna” e un immigrato 
marocchino, che mette in gioco la propria cultura con l’identità del luogo, innescando meccanismi di integrazione 
originali. Questo documentario è interessante perché veicola un immagine positiva del rapporto migranti-luogo. Il 
titolo “Piccola Terra” rimanda sia al fazzoletto di terra al centro della prestazione di recupero, sia al globo, 
alla globalizzazione. All’interno di esso c’è un altro documentario di 50 anni fa che ritrae gli stessi luoghi, 
consentendoci di fare un confronto tra passato e futuro. 
Prima di tutto viene mostrata la dinamica emigrazione-immigrazione. I due documentari relativi allo stesso 
luogo ci parlano di gente che se ne va: in quello di 50 anni fa i due contadini erano gli ultimi a coltivare, i giovani 
se n’erano già andati a lavorare nelle miniere del Belgio e della Francia perché non volevano star lì a morire di 
fame, mentre il marocchino Aziz dice che Valstagna è diventato il suo paese. Il luogo di emigrazione si svuota e si 
impoverisce, mentre c’è la possibilità di arricchirsi con dinamiche di senso opposto. 
Come incidono sullo stesso luogo questi movimenti migratori? Il pregiudizio può bloccare questo fenomeno di 
arricchimento, ma è una cosa che avviene a prescindere. Il bisogno di appaesarsi di queste popolazioni è 
un’opportunità per i luoghi di risignificarsi. Allora bisogna riflettere sul concetto di cultura: è qualcosa di atavico 
che si trasmette per via verticale, di padre in figlio, ma anche per via orizzontale. L’autoctono spiega ai cittadini la 
sua attività lavorativa e in cambio loro lo aiutano a rimettere a posto il muro a ceppo. Il modo in cui si scolpivano 
le pietre 50 anni fa è lo stesso del marocchino. Ma allora la cultura è a panaggio di autoctonia, sempre uguale a sé 
stessa, o accetta di essere ibridata? 
Il documentario è tutto giocato sull’ibridazione: la cultura non è un bagaglio immutabile bensì un processo. 
In quanto processo ammette ibridazioni che hanno bisogno di essere alberate all’interno della continuità. Aziz 
trasmette il fulcro centrale della cultura marocchina, il tè alla menta, coltivandolo dove c’erano i 
terrazzamenti del tabacco, cioè la cosa più tradizionale della valle prealpina. Suo fratello è uno dei 
pizzaioli più bravi del paese perché ha imparato qui: è un marocchino che fa il cibo italiano più tradizionale! Lui 
stesso chiama una ragazza italiana che balla la danza del ventre meglio delle arabe. Aziz balla con una ragazza 
dalla Bosnia-Erzegovina, e danzano entrambi secondo la propria tradizione. Sullo sfondo di quella scena c’è 
Halloween, un’altra tradizione ancora diversa! Inoltre, Aziz è sposato con una ragazza ceca e parla con suo figlio 
tramite Skype. Lui risponde in ceco, sa cinque lingue anche se l’italiano diventa la sua madrelingua, sa l’arabo, il 
ceco, il francese (perché Aziz ha tutti i suoi parenti in Francia) e il dialetto veneto. 
Su cosa si misura allora la cultura? Pensiamo ai sottotitoli, che sono stati fatti perché il video potesse circolare 
sia nel mondo arabo che in quello italiano, ma sono fondamentali anche per capirsi tra la stessa popolazione di 
Valstagna perché coesistono svariate etnie! In un piccolo villaggio di soli 1800 km2 si ha bisogno di sottotitoli per 
capirsi veramente, e queste sono complicazione di livelli di comunicazione corrispondenti a una cultura. Cosa 
si intende appartenere alla stessa cultura? Certamente il veicolo linguistico è fondamentale, ma è importante 
soprattutto fare le stesse cose quotidianamente, perché significa condividere un ventaglio di aspetti che 
vanno ben oltre la lingua. 
Il sistema di adozione terriera funziona così: c’è un comitato che va alla ricerca dei proprietari dei terreni 
abbandonati, li assume e li dà in gestione per cinque anni gratuitamente a chi ne fa richiesta. Aziz è uno di quelli 
che richiede di adottare un terreno. Il sindaco lo guarda un po’ di traverso, non c’è una grande apertura. Ciò è 
evidente dalla battuta finale “Ma sarà menta?”. Si collega la marjuana al marocchino, il pregiudizio serpeggia. Aziz 
quando viene accompagnato dal vicesindaco nel terrazzamento, che parla solo dialetto (dinamica del mantenersi 
all’interno di un veicolo linguistico molto locale). Il terreno è vicino alla casa del vicesindaco che così lo può 
controllare, non si riesce a eliminare l’idea che ci sia qualcosa di losco in quest’adozione che viene dall’esterno. Ma 
Aziz non lo adotta per fare affari economici, la coltivazione della menta serve per coltivare l’integrazione. 
Solo coltivando gli stessi terreni degli antenati, facendo le stesse cose che hanno fatto loro, può dire di essere uno 
di loro. È questo il suo scopo, vuole far sentire a casa anche i propri figli. Il suo è un abitare politopico, cioè 
la capacità di sentirsi a casa in posti diversi: si sente in UN suo paese, non NEL suo paese. 
Ma qual è la menta originale? Quella del Marocco o quella selvatica? Angelo Chemin, storico locale del Brenta per 
eccellenza, afferma che la menta originale è quella selvatica, ma per Aziz quella originaria è quella del suo paese. 
In realtà non si sa bene quale sia quella originale, probabilmente ha origini germaniche. Quest’idea di originalità 
/ originarietà si ricerca in maniera e con strumenti diversi, ognuno ha la sua genealogia di originalità. 
Il tema della tecnologia attraversa il film un po’ in diagonale. Il film inizia con l’immagine dell’elicottero che 
aiuta Claudio nella più tradizionale delle traiettorie. Claudio usa ancora la falce, fa il formaggio come si faceva una 
volta, con le fasce di legno che oggi non sarebbero nemmeno a norma perché non sono igieniche. È molto legato a 
suo padre e alla tradizione, ma più è autoctono e più è isolato. Vive in una casa che ospitava 50 persone negli anni 
’60, adesso vive solo con sua madre, aggrappato esclusivamente alla sua autoctonia. Nonostante sia tradizionale 
in tutto, si avvale dell’elicottero per trasportare i materiali. Aziz contrariamente è più tecnologico: ha internet, il 
cellulare, Skype, è un uomo di mondo, ma alla fine pianta la menta con le mani. Il film inizia con l’elicottero e 
finisce con le mani. Paradossalmente l’azione più atavica è collegata ad Aziz, mentre l’elicottero di 
partenza è collegato a Claudio. C’è un cortocircuito, il film non vuole darci delle risposte, ma parci degli 
interrogativi. Ci troviamo di fronte a luoghi ibridi che lo sono sempre stati, ma in questo momento ce ne 
accorgiamo di più, traiettorie diverse che si intrecciano anche inspazi piccolissimi come questo terrazzamento. 
Dopo il film, il progetto continua a ricevere adesioni e i terrazzamenti continuano a venire adottati in tutto il 
Veneto. Aziz è diventato un punto di riferimento dell’integrazione, il documentario è stato proiettato nella 
camera dei deputati, e lui è stato ricevuto dal re del Marocco, che ogni anno riceve i marocchini che si sono distinti 
come portatori dei valori del Marocco. La cosa più incredibile è che Aziz ha riscoperto i terrazzamenti della valle di 
marocchina di Urica, e vorrebbe fare progetti di cooperazione nazionale per evitare che da lì se ne vadano i 
marocchini. Infatti anche là sta accadendo lo stesso processo che ha subito Valstagna negli anni ‘60: inizia 
l’inurbamento, la popolazione rurale si sposta nelle città e la campagna non rende più; è la fase preparatoria per 
emigrazione verso l’Europa. Aziz vuole recuperare i processi di sviluppo locale per frenare la fuga dei 
marocchini, che devono preservare un determinato valore. Si forma un nuovo commercio triangolare 
culturale: il marocchino arriva qui, si sosta dalla sua linea culturale, acquisisce dei nuovi caratteri, li mescola coi 
suoi e li riporta nel luogo d’origine. 
 
Dunque, facendo il punto della questione, come interferiscono il rapporto luogo-migrazioni con l’identità del luogo? 
1) Il rapporto emigrazione-immigrazione è ben rappresentato dal contrasto tra passato e presente: 
negli anni ‘60 era luogo di emigrazione della popolazione giovane dalla zona povera del Brenta, verso le 
miniere del Belgio o della Francia. Lo stesso proprietario del terreno di Aziz era proprio un immigrato in 
Francia che torna in Italia sono d’estate. È stata una stratificazione di interventi da parte dell’uomo a dare 
origine a questo paesaggio terrazzato per la coltivazione del tabacco ancora a partire dal Sei-Settecento. 
Poi si è progressivamente deteriorato perché ha perso l’energia delle fasce giovani della popolazione ed è 
stato interessato da fenomeni estesi di abbandono, con conseguenze sulla stabilità stessa delle strutture 
(pericolo di crolli sulle case circostanti). Il marocchino entra in questa situazione di deterioramento 
ambientale e paesaggistico e rinnesta una linfa vitale giovane, una volontà di rilancio che era 
andata perduta cinquant’anni prima. È però una prospettiva potenziale, non è detto che ci siano le 
condizioni favorevoli per aiutare questo processo di rinnovamento, che crea reazioni di ostilità. Insomma 
emigrazione e immigrazione sono processi che tendono rispettivamente a impoverire o arricchire i 
luoghi togliendo o portando energie. 
 
2) Di chi sono veramente le Alpi? Sono il luogo quasi per eccellenza delle minoranze etniche, sono 
sempre state un mondo di passaggio e di incontro di identità culturali che provenivano dalle diverse 
pianure europee. Le piccolo minoranze si sono isolate quando questo dinamismo all’interno del mondo 
alpino è stato interrotto dalla confinazione rigida di questo territorio, che ha portato anche alle due guerre 
mondiali. Nel mondo alpino si è sempre lottato per la difesa delle minoranze etnico-linguistiche 
all’interno degli stati nazionali (riconoscimento dello statuto speciale alla Valle d’Aosta di lingua francofona, 
al Trentino Alto Adige di lingua tedesca, il walser nella zona della Valsesia, la ricolonizzazione cimbra negli 
altopiani vicentini…). Sono state attuate iniziative politiche per il riconoscimento di un identità 
culturale che è prodotto di un processo storico di colonizzazione. Ci si è sempre preoccupati di preservare 
queste identità – l’area ladina ha protestato quando è stato riconosciuto lo statuto autonomo a Trento e 
Bolzano e non è stato riconosciuto a essa) che si giocano attraverso il vettore linguistico. 
 
Tuttavia tutta questa serie di rivendicazioni non ha mai considerato i nuovi fenomeni migratori, quelli 
relativi agli extracomunitari. Il mondo alpino marginale ha lasciato degli spazi vuoti sia fisici, cioè le 
disponibilità di abitazioni a basso costo, sia economici, ovvero le attività faticose che nessuno vuole 
svolgere come i pascoli e la cura del bestiame. Questo nuovo fenomeno ci fa ragionare sulla 
decomposizione e ricomposizione dell’appartenenza: da un lato c’è l’appartenenza formale di 
un’identità difesa attraverso la lingua, che è più un’etichetta che una vera e propria distinzione identitaria 
(vedi ladini), dall’altro le nuove realtà migratorie che si autodichiarano appartenenti al contesto di 
montagna. Questo innesto di nuova linfa da culture diverse necessita di una mediazione, ovvero la 
condizione minima perché esso non venga rigettato dal corpo sociale. Non si parla più di trasmissione 
verticale per ereditarietà, bensì orizzontale, da pari a pari all’interno della stessa generazione, senza 
fedeltà etnica in senso tradizionali. Esistono mediatori naturali, cioè le persone più aperte tra gli autoctoni, 
o dei mediatori esterni come l’università che avviano forme di trasmissione orizzontale per evitare fratture 
nel contesto locale. Ciò riguarda sia i casi di neoruralismo (ricerca della terra da parte di popolazione 
proveniente da contesti urbani) che i nuovi migranti. 
 
3) Processi di ibridazione dei saperi locali attraverso traiettorie globali. La globalizzazione è sempre 
avvenuta ma in questi tempi la cogliamo meglio per la maggiore rapidità e intensità con cui avvengono 
questi fenomeni. Tutta la tradizione del tabacco del canale del Brenta viene dall’esterno, dalle 
Americhe. Chi l’ha innestato all’interno della valle è stato un ulteriore mediatore, il monachesimo 
benedettino. Se andiamo a parlare agli abitanti di Valstagna ci diranno che loro sono i grandi coltivatori del 
tabacco, e lo dicono con una sorta di autoconsapevolezza del valore identitario della pianta, fatta 
propria dalla popolazione ma che in realtà proviene dall’esterno. La pianta del tabacco non si sarebbe 
diffusa in maniera così estesa se non ci fosse stato un input politico da parte della Serenissima nel fornire 
delle condizioni favorevoli alla coltivazioni e il garantire un prezzo politico, cioè un reddito garantito da un 
prezzo di monopolio. Se nel Sei-Settecento non ci fossero stati questi fattori originari e la coincidenza di 
condizioni economiche favorevoli, probabilmente la valle avrebbe avuto una connotazione identitaria 
completamente diversa. 
 
Questa corrispondenza biunivoca tra luogo-cultura è facilmente decostruibile perché in realtà ci 
nasconde tutta una serie di ibridazioni che sono avvenute ma che vengono cancellate in nome di una 
difesa della propria identità nei confronti del diverso e del nuovo che non si è in grado di fronteggiare. Ciò 
produce una resistenza localistica a progetti che favoriscono l’ibridazione. Lo scopo del progetto 
era proprio questo: favorire un nuovo uso dei terrazzamenti rispetto alla rassegnazione nel considerare 
ineluttabile il loro destino di abbandono. La parte politica e culturale più resistente al cambiamento, 
rappresentata dall’assessore alla cultura locale, non ha potuto ostacolare il progetto ma ha proceduto 
parallelamente restaurando la pellicola vecchia di Taffarel, come a dire: “Guardate che la nostra cultura è 
questa qui, non l’altra”. Non c’è stato nessun tipo di collaborazione con l’altra operazione, non si è pensato 
di unire i due progetti anche per ragioni banalmente economiche, veicolando insieme il vecchio e il nuovo. 
È stata una pura operazione politica di contrasto che si è palesata nella lettera di protesta ufficiale 
dell’assessore verso il documentario, che secondo lui aveva dato troppo spazio alla popolazione 
immigrata. Bisogna fare attenzione ai rischi di una concezione esclusiva del luogo che affonda 
nell’idea che quel luogo abbia una precisa identità culturale, escludendo innesti nuovi. Queste posizioni 
sono meno inclini a riconoscere il diritto di cittadinanza alle popolazioni immigrate, che non possono 
appartenere totalmente a quella data realtà locale. [nel frattempo Aziz ha ottenuto la cittadinanza

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