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I venticinque Piccoli racconti di un’infinita giornata di primavera apparvero sull’«Osaka Asahi Shimbun» a partire dal 1909, e vennero riuniti da Sōseki in questa raccolta nel 1910. A prima vista, non sembra esistere un filo conduttore che li leghi, tanto sono diversi sia nel contenuto sia nello stile – soprattutto nelle pagine in cui vengono utilizzate tecniche sperimentali di scrittura. Ma è proprio il titolo così fortemente evocativo (Eijitsu Shōhin) a contenere l’elemento unificante. «Eijitsu», la «giornata lunga», non indica soltanto un giorno in cui il tempo sembra dilatarsi all’infinito, ma evoca anche ciò che accomuna i protagonisti dei diversi racconti: il desiderio di conservare quella sensazione di intensa felicità legata a un momento, a un’occasione, a una stagione, nella speranza che possa non finire mai. Natsume Sōseki (1867-1916) è uno dei maggiori scrittori giapponesi tra Otto e Novecento. Nel suo Paese è considerato il «sommo scrittore», colui che ha posto le basi della lingua giapponese moderna e ha influenzato in modo significativo la letteratura e il pensiero delle generazioni successive. Tra i suoi romanzi più conosciuti si ricordano Io sono un gatto, Il signorino e Guanciale d’erba. Senza frontiere In copertina: Il giardino dei prugni di Kameido, 1857, di Utagawa Hiroshige (1797-1858) Traduzione dal giapponese di Tamayo Muto Titolo originale: Eijitsu Shōhin © 2017 Lindau s.r.l. corso Re Umberto 37 – 10128 Torino www.lindau.it | lindau@lindau.it www.facebook.com/Edizioni.Lindau - www.twitter.com/edizionilindau Prima edizione: aprile 2017 ISBN 978-88-6708-741-9 http://www.lindau.it mailto:lindau@lindau.it http://www.facebook.com/Edizioni.Lindau http://www.twitter.com/edizionilindau Natsume Sōseki PICCOLI RACCONTI DI UN’INFINITA GIORNATA DI PRIMAVERA Traduzione di Tamayo Muto Introduzione di Tamayo Muto Nel 2016 è stato celebrato in Giappone il centenario della morte di Natsume Sōseki, mentre nel 2017 cade il centocinquantesimo anniversario della sua nascita. Per l’occasione, dall’inizio dell’anno scorso, in Giappone sono stati trasmessi numerosi programmi televisivi, organizzate svariate mostre, pubblicati libri a lui dedicati… Sōseki viene considerato in Giappone un «sommo scrittore», un simbolo per il nostro Paese: è colui che ha gettato le fondamenta della lingua giapponese moderna e che ha influenzato significativamente la letteratura e il pensiero delle generazioni successive, nonostante la sua carriera di scrittore si collochi in una finestra temporale di soli nove anni. Le sue opere, caratterizzate da minuziose descrizioni psicologiche e a volte colorite da una vivace vena umoristica, continuano a essere molto popolari a più di cento anni dalla loro creazione. Natsume Sōseki nacque in un’importante famiglia il 9 febbraio 1867 a Edo, l’attuale Tokyo, con il nome di Natsume Kinnosuke. Ultimo di otto figli (cinque maschi e tre femmine) ebbe un’infanzia molto infelice: a causa sia dell’età già avanzata dei genitori, sia della progressiva decadenza economica della famiglia dopo i cambiamenti apportati dalla restaurazione Meiji, a soli quattro mesi venne affidato a una coppia di antiquari. La sorella maggiore però, trovandolo per caso dentro un piccolo cesto, insieme alla merce, su una bancarella di un mercato serale, colta da pietà lo riportò a casa, ma il padre non lo accolse a braccia aperte e all’età di un anno lo diede in adozione a Shiobara Shōnosuke e consorte. Sōseki fece di nuovo ritorno alla sua casa natale dopo otto anni, quando i due genitori adottivi divorziarono; il suo vero padre lo trattava con indifferenza e Sōseki, estraneo nella sua vera famiglia, pensava che i genitori fossero in realtà i suoi nonni. Successivamente, anche quando scoprì la verità, non aprì mai completamente il suo cuore a loro. La madre morì quando lui aveva quattordici anni. Quest’infanzia infelice impresse un segno profondo sulla formazione della sua personalità, rendendolo scorbutico, diffidente verso gli sconosciuti, eccessivamente scrupoloso e caparbio. Durante la sua vita ebbe diversi esaurimenti nervosi ed è quasi sicuro che ciò fosse legato ai ricordi dolorosi dell’infanzia. Nonostante ciò, comunque, fu un gentiluomo capace di grande affetto e pieno di umanità. Nel 1884 entrò nella scuola di preparazione per l’università, realizzando così un suo desiderio; lì incontrò il poeta di haiku Masaoka Shiki, che lo influenzò significativamente sia da un punto di vista umano che letterario. Fu in quel periodo che usò per la prima volta il nome d’arte, Sōseki, che trasse da un aneddoto cinese della dinastia Tang, e che aveva il significato di «una persona che non sa ammettere i propri errori». Durante questo periodo, nonostante leggesse molti libri in cinese classico, non si impegnava particolarmente negli studi e risultava particolarmente debole in inglese: nel 1886 non riuscì a superare l’esame di fine anno, per l’appendicite, e venne bocciato insieme a Nakamura Yoshikoto. Si rese allora conto dell’importanza dello studio e cominciò ad applicarsi con diligenza, mantenendosi agli studi grazie a un lavoro di insegnante in una scuola privata insieme a Nakamura (quest’episodio è alla base del racconto «Il cambiamento»). Da quel momento divenne il primo della classe in quasi tutte le materie e l’odiata lingua inglese divenne il suo punto di forza. Nel 1890, all’età di ventitré anni, entrò nell’Università Imperiale di Tokyo (l’attuale Università di Tokyo) e si specializzò in letteratura inglese diventando il migliore studente della facoltà. In quel periodo, in seguito alla morte ravvicinata di diversi familiari, cadde vittima di un primo esaurimento nervoso e cominciò a prevalere in lui un atteggiamento pessimistico. Nel 1893, dopo essersi laureato, divenne docente di inglese in una scuola di formazione per insegnanti, ma dopo soli due anni si licenziò a causa di una sua idea sull’incompatibilità dei giapponesi per lo studio della letteratura inglese. A questo si aggiunse la tubercolosi, che ebbe l’effetto di farlo ripiombare in una crisi ancora più grave di esaurimento nervoso; provò a superarla praticando la meditazione zen presso l’Engakuji, un tempio buddhista a Kamakura, senza però ottenere grandi risultati. Con l’intenzione forse di fuggire dal caos di Tokyo, si trasferì a Matsuyama, nella prefettura di Ehime, e venne assunto come insegnante presso la Jinjō Chūgakkō (attuale scuola superiore Matsuyama Higashi), che divenne l’ambientazione del suo romanzo Bocchan (Il signorino). Lì ritrovò Masaoka Shiki, trasferitosi temporaneamente nella sua città natale, e insieme a lui si dedicò alla composizione di haiku, lasciando numerosi lavori di pregio. Nel 1896, dopo essersi trasferito di nuovo e aver iniziato a insegnare nella Daigo Kōtōgakkō della prefettura di Kumamoto (diventata successivamente l’Università di Kumamoto), si sposò con la diciottenne Nakane Kyōko, figlia del primo segretario della Camera dei Pari. Allevata nel lusso, era una ragazza che usciva dagli stereotipi dell’epoca: aveva un carattere deciso e ostinato, ma allo stesso tempo aperto e liberale. La loro vita coniugale fin dall’inizio non fu affatto serena, sia per le crisi depressive del marito, sia per la forte personalità della moglie, tormentata da attacchi isterici, di cui cominciò a soffrire a causa del contrasto tra la presente vita matrimoniale e l’infanzia molto agiata del passato. Durante il terzo anno di matrimonio, depressa a causa del diverso ambiente nel quale si trovava a vivere e per un recente aborto, Kyōko tentò il suicidio gettandosi in un fiume. Anche questo episodio contribuì a minare la stabilità mentale dello scrittore. Nel 1900, all’età di trentatré anni, il Ministero dell’Educazione gli ordinò di recarsi in Inghilterra per compiere ricerche sulla lingua inglese; dunque partì lasciando la moglie incinta e una figlia di un anno. Sōseki si stabilì a Londra dove, non trovando soddisfacenti le lezioni universitarie, cominciò a prenderne di private da William James Craig,studioso di Shakespeare. Continuò poi le sue ricerche da autodidatta, utilizzando i fondi rimanenti per l’acquisto di libri. Trascorse l’ultimo anno di permanenza in Inghilterra chiuso nella sua stanza, a leggere avidamente i libri che continuava ad ammassare nella foga dei suoi studi; tuttavia non riuscì a comprendere l’essenza della «letteratura straniera» e, perso il senso della sua attività di ricerca, inviò in bianco una relazione richiesta dal Ministero dell’Educazione, accompagnandola con un breve messaggio: «Non c’è nulla che io possa scrivere». In conseguenza dello stress causato dalle differenti abitudini di vita e dalla solitudine, il malessere che si era già manifestato crebbe progressivamente, aggravandone lo stato mentale al punto da preoccupare la padrona della pensione presso cui alloggiava, oltre al Governo giapponese che era ormai a conoscenza della sua situazione. Gli venne perciò ordinato di tornare immediatamente in patria. Cinque anni più tardi, a proposito di quel periodo, nella prefazione del Bungakuron [Critica sulla Letteratura] scrisse: «I due anni che passai a Londra furono tra i più sgradevoli della mia vita. Tra i gentlemen inglesi io vivevo in miseria, come un cane qualunque messo controvoglia a far parte di un branco di lupi». Tornato dall’Inghilterra, cominciò a lavorare come professore presso l’Università Imperiale di Tokyo, ma non veniva apprezzato dagli studenti a causa dell’eccessiva rigidità nel condurre le lezioni. Oltre a ciò, il suicidio di un suo alunno causò una nuova ricaduta nella malattia mentale. Gli capitava anche di diventare violento all’interno delle mura domestiche, ma la moglie Kyōko, avvertita dal medico che tali eccessi erano causati dalla malattia, continuò a prendersene cura: sapeva che in realtà lui era una persona dal cuore tenero e lo amava profondamente. Sōseki da parte sua non smise mai di amare il carattere spontaneo e spensierato della moglie, riuscendo anche a guardare con occhio benevolo i suoi vizi e difetti. Colui che lo aiutò a risollevarsi dalla sua condizione fu Takahama Kyoshi (che compare nel racconto «Capodanno»), il quale gli consigliò di dedicarsi alla scrittura per alleviare le sue angosce. Fu così che nacque la sua prima opera, Wagahai wa Neko dearu (Io sono un gatto): pubblicata nel 1905 sulla rivista «Hototogisu», diretta da Kyoshi stesso, ottenne un grande successo. A trentotto anni per Sōseki si avviava così l’attività di scrittore: contemporaneamente all’insegnamento, si dedicò alla scrittura regalando al mondo, uno dopo l’altro, capolavori come Bocchan e Kusamakura. Nel 1907 si dimise da tutti gli incarichi di insegnante e si dedicò esclusivamente alla scrittura per il quotidiano «Asahi Shimbun». Continuò a ricevere le visite dei suoi ex allievi o di giovani letterati a lui affezionati; per riuscire a districarsi tra tutti i suoi impegni, limitò al solo giovedì tali incontri, occasione nella quale venivano presentate nuove creazioni e opere, o si discuteva di letteratura. Sōseki non smise di prendersi cura dei suoi allievi: li aiutava sia a trovare lavoro, sia economicamente, pur non trovandosi egli stesso in una situazione particolarmente agiata. Nel 1910, mentre stava scrivendo Mon (La porta), fu colpito da un’ulcera gastrica: si ritirò a Izu, presso le terme del tempio Shuzen, per curarsi, ma le sue condizioni peggiorarono rapidamente fino a portarlo in fin di vita. Riuscì però a sopravvivere e quest’esperienza contribuì sia a influenzare profondamente la sua produzione letteraria, sia a rinsaldare il rapporto con la moglie. Continuò a scrivere, pubblicando diversi testi, fino al 1916 quando, mentre stava lavorando a Meian (Chiaroscuro), fu stroncato dall’ulcera e morì a soli quarantanove anni. Eijitsu Shōhin è una raccolta che contiene venticinque piccole opere. Il 1° gennaio 1909, a circa sei anni dal ritorno dall’Inghilterra, il primo racconto («Capodanno») fu pubblicato sui quotidiani «Osaka Asahi Shimbun» e «Tokyo Asahi Shimbun», ma la raccolta non aveva ricevuto un titolo unitario. I ventitré successivi furono pubblicati nel corso dei tre mesi seguenti, a intervalli variabili, mentre l’ultimo apparve, in tre puntate, sul solo «Osaka Asahi Shimbun». A maggio del 1910 tutti i venticinque racconti furono riuniti sotto il titolo Eijitsu Shōhin, e pubblicati dalla casa editrice Shun’yōdō insieme ad altre opere di Sōseki, come Bunchō o Yumejūya. Commissionatigli dall’«Osaka Asahi Shimbun» stesso, dopo il successo di Yumejūya, con la richiesta specifica di scrivere brevi novelle dello stesso genere, da intervallare a opere maggiori, questi racconti non risultarono però essere né la ripetizione, né la continuazione di Yumejūya: sono diversi fra loro sia nel contenuto, sia nello stile. Si potrebbe dire che siano alternati in vario modo: racconti di tipo saggistico che descrivono la vita quotidiana di Sōseki; altri che rievocano le esperienze vissute durante il periodo di studio in Inghilterra o in gioventù, e infine quelli che si dovrebbero chiamare «novelle», nei quali vengono utilizzate molte tecniche sperimentali di scrittura. Il professor Haga Tōru, docente di letteratura comparata presso il Kokusai Nihon Bunka Kenkyū Sentā (Centro di ricerca internazionale sulla cultura giapponese), definisce Eijitsu Shōhin come il «laboratorio di sperimentazione di Sōseki», poiché in esso, rispetto alle opere precedenti, egli tenta un’ulteriore varia e vasta espansione della sua immaginazione poetica. Inoltre «attraverso questi numerosi piccoli racconti, sogno e realtà, passato e presente si compenetrano reciprocamente senza delineare una divisione; al loro interno viene creata ingegnosamente un’atmosfera surreale e intensa»1. Come mai allora queste venticinque piccole opere sono state raggruppate sotto il titolo di Eijitsu Shōhin? Il professor Sasaki Mitsuru, docente dell’Università di Chiba, nella sua relazione Sōseki no Eijitsu Kankaku analizza il termine Eijitsu nella letteratura classica cinese e negli haiku2. Shōhin significa «piccole opere», mentre originariamente Eijitsu è un termine cinese antico: significa «giornata lunga» e racchiude il concetto di una giornata di primavera sulla quale non tramonta il sole. Indica una giornata che, di per sé, rallenta nello scorrere del tempo. Pare che però vi sia anche un’altra nuance: la volontà o il desiderio da parte dell’essere umano che il tempo rallenti in modo che una giornata meravigliosa non finisca mai. Quindi non è il tempo ad allungarsi autonomamente, ma è anche l’uomo che intenzionalmente lo fa rallentare. Infatti, nella poesia cinese classica, il termine Eijitsu si trova anche utilizzato in connessione all’autunno: questo dimostra che originariamente poteva essere anche un’espressione del desiderio che racchiude il significato di «Sia eterna la gioia di oggi», indipendentemente dalla stagione di riferimento specifico. Il professor Sasaki analizza inoltre il significato del termine Eijitsu in Giappone. Negli haiku esiste il «kigo», una parola che deve essere presente e che indica una stagione. Eijitsu, nel suo significato di «giornata lunga», dovrebbe riferirsi (da un punto di vista scientifico) proprio al solstizio d’estate, ovvero al 21 giugno, ma nel mondo degli haiku è riferito alla primavera. Come mai? Secondo il poeta di Haiku e amico di Sōseki, Masaoka Shiki, il fatto che Eijitsu appartenga alla primavera è dovuto al «sentimento» di noi giapponesi. È un «sentimento» che ha portato il nostro cuore a riportare Eijitsu dall’estate alla primavera, nonostante fosse più appropriato per il solstizio; non è altro che il sentimento con cui attendiamo con impazienza l’arrivo delle calde giornate di primavera. Il professor Sasaki ha cercato altri esempi dell’uso del termine Eijitsu nella poesia giapponese e pare che in Giappone non venga quasi mai utilizzato nell’accezione di rallentare volontariamente il corso del tempo. Sōseki aveva una grande conoscenza della poesia cinese classica e degli haiku: pur sapendo che Eijitsu è un «termine di primavera»,lo utilizza indipendentemente dalla stagione, infrangendo senza timore la regola del mondo degli haiku. Il professor Sasaki suppone quindi che la sensazione di Eijitsu, in Eijitsu Shōhin, racchiuda sia il significato di ansiosa attesa per i caldi giorni di primavera, sia il desiderio di dilatare la durata delle giornate. Ciò che costituisce il nesso fra i venticinque racconti è questa sensazione di Eijitsu di Sōseki. Dice Sasaki: Comincia senza un particolare segno di inizio e cambia uno dopo l’altro gli argomenti; racconto dopo racconto si estendono davanti a noi panorami inaspettati; ci protendiamo in avanti istintivamente, colti di sorpresa da argomenti imprevisti. Tutto ciò ricorda il modo che hanno gli anziani di raccontare senza pausa le storie racchiuse nei loro cuori, così come vengono fuori senza un ordine definito, in una lunga giornata di primavera. Non esistendoci un particolare filo conduttore tra un racconto e il successivo, il tempo viene allungato e trascorre lentamente. A partire da Io sono un gatto, tutte le opere più significative di Natsume Sōseki sono state tradotte in svariate lingue, compreso l’italiano; Eijitsu Shōhin invece è stato pubblicato in poche altre lingue, probabilmente a causa della sua difficoltà di traduzione. Il professor Haga Tōru ha spiegato la difficoltà di renderlo in inglese prendendo come esempio uno dei venticinque racconti, «Mukashi» («I tempi antichi»)3: Può darsi che il Sōseki di quel periodo stesse scrivendo tenendo in considerazione la costruzione delle frasi nella lingua inglese. D’altra parte però, pur essendo la costruzione simile a quella inglese, sembra che ogni vocabolo, ogni immagine si rifiutino di essere sostituiti in tale lingua. Tuttavia non si tratta di letteratura giapponese pura e, nonostante accenni a diverse immagini della poesia cinese classica, non la si può nemmeno ricondurre a quest’ultima. Il fatto che non sia nessuna di queste, pur avendone gli elementi, è il motivo di questa misteriosità meravigliosa. Per la traduzione di quest’opera si è cercato di analizzare dettagliatamente il background letterario e storico, basandosi su vari documenti, per interpretare nel modo più preciso possibile il testo originale, ponendo una minuziosa attenzione alla scelta dei termini ed espressioni della lingua italiana più appropriati. Senza l’ambizione di essere riusciti a ricostruire perfettamente il raffinato testo di Sōseki, si spera che anche i lettori italiani, attraverso questa traduzione, possano smarrirsi nel mondo surreale creato dall’Autore e gustare almeno un po’ la «sensazione di Eijitsu». Marzo 2017 1 Sōseki no jikken kōbō - «Eijitsu Shōhin» Ippen no yomi no kokoromi, nella rivista «Nihon kenkyū», pubblicato da Kokusai Nihon Bunka Kenkyū Sentā, 1997. 2 Sulla rivista «Kokugo Kobubun Kenkyū», pubblicata dalla Hokkaidō Daigaku Kokubungakukai nel marzo 1987. 3 Sulla rivista «Sōseki Kenkyū» n. 1 pubblicato dalla Kanrin Shobō, 1993. PICCOLI RACCONTI DI UN’INFINITA GIORNATA DI PRIMAVERA 1 Capodanno Dopo aver mangiato lo zōni1, mi ritirai nello studio. Poco dopo ecco arrivare tre o quattro persone, tutti ragazzi giovani2. Tra essi uno indossa un frac. Non so, sarà perché non è abituato ad averlo addosso, ma tende a nascondersi dietro al melton3 del suo stesso vestito. Tutti gli altri indossano un abito giapponese e per di più quello di tutti i giorni: non sembra proprio Capodanno. Questa combriccola osservò «il Frac» e ciascuno di essi emise un «Oh!», prova dello stupore di tutti. Per ultimo anch’io dissi «Oh!». Il Frac tirò fuori un fazzoletto bianco e senza motivo si asciugò il viso, dopo di che continuò a bere ripetutamente del toso4. Anche gli altri si servivano abbondantemente dai piatti sul tavolo. Proprio in quel momento arrivò Kyoshi5 con il risciò. Egli indossava un haori6 nero abbinato a un montsuki7 sempre nero: sta assai bene con qualcosa di stile molto tradizionale. Gli chiesi: «Ha un montsuki nero. Ne ha bisogno, immagino, perché fa teatro Nō?». Kyoshi rispose: «Sì, è così» e cominciò a chiedermi se avessi voglia di cantare qualcosa. Risposi: «Per me va bene». Così cantammo insieme una canzone chiamata Tōboku8. Fui molto impreciso qua e là dato che, da quando l’avevo imparata molto tempo fa, non l’avevo quasi mai ripassata. Mi resi conto inoltre che avevo una voce esitante. Quando finalmente finii di cantare, quella combriccola di giovani che ascoltava cominciò a dire, come se si fossero messi d’accordo, che come cantante ero scadente. Soprattutto il Frac disse: «La sua voce è esile». Questi sono di quelli che in fondo non hanno la minima idea di cosa sia il canto. Pensavo perciò che non avrebbero colto assolutamente la differenza di bravura fra Kyoshi e me; quando però subii le loro critiche mi resi conto che, nonostante fossero degli incompetenti, le loro affermazioni sono completamente logiche. Non ebbi nemmeno il coraggio di rispondere: «Non dite sciocchezze!». Kyoshi allora cominciò a raccontare che in questi anni stava imparando a suonare lo tsuzumi9. La combriccola, che non sapeva nulla di canto, gli chiese: «Perché non suona qualcosa! Ci faccia assolutamente sentire!». Kyoshi mi chiese: «Allora canta lei, per piacere?». Questo era scocciante per me che non conoscevo bene l’accompagnamento musicale, ma nello stesso tempo ero intrigato dalla novità. Così accettai dicendo: «Canterò!». Kyoshi mandò il portantino del risciò a prendere lo tsuzumi. Quando arrivò, fece portare dalla cucina uno shichirin10 e cominciò ad affumicare la pelle del piccolo tamburo sopra il fuoco intenso prodotto dal carbone. Tutti guardavano sorpresi e anch’io rimasi stupito dal modo esagerato con cui lo strumento veniva esposto al fumo. Quando gli chiesi: «Va tutto bene?», diede un colpetto con la punta delle dita alla pelle ben tesa – ton – mentre rispondeva «Sì, non si preoccupi!»; il suono che ne scaturì non era male. Lo tolse da sopra lo shichirin dicendo «Mi pare già pronto». Si mise poi a tirare la corda dello tsuzumi. Non so perché, ma trovai elegante la scena di un uomo che, indossando un montsuki, maneggiava quella corda rossa. Tutti questa volta lo guardavano con ammirazione. Subito dopo Kyoshi si tolse l’haori e imbracciò lo tsuzumi. Io però gli chiesi di aspettare un attimo per potermi mettere d’accordo con lui, soprattutto perché non avevo idea di quando lo avrebbe suonato. Kyoshi me lo spiegò cortesemente dicendo: «In questo punto scandisco a gran voce il tempo alcune volte… Qui batto lo tsuzumi in un certo modo… Forza ci provi». Non mi è assolutamente chiaro; tuttavia se continuassi a chiedere approfondimenti fino ad aver capito tutto, ci vorrebbero almeno due o tre ore. Non potei fare altro che acconsentire senza aver compreso bene. Cominciai così a cantare un brano di Hagoromo11. Mentre mi avvicinavo alla metà del verso «La nebbia di primavera si estende…», iniziai a pentirmi di essere partito in modo non brillante. La mia voce era assai flebile, ma pensai anche che, se ci avessi messo più energia all’improvviso, da lì in avanti, avrei compromesso l’equilibrio di tutta l’esecuzione. Continuai quindi spingendo un pochino di più la voce, che restava pur sempre fioca ed esitante. Fu allora che Kyoshi, all’improvviso, scandì il tempo con un grido fortissimo e batté energicamente sullo tsuzumi una volta – TON. Non mi aspettavo minimamente che entrasse in modo così violento. Il kakegoe12, che originariamente pensavo fosse solo qualcosa di elegante e tranquillo, fece sussultare il mio timpano come se fosse stato quello di un vero duello di spada: il mio canto vacillò due o tre volte a causa di questo grido. Quando finalmente il canto stava per tornare calmo, Kyoshi mi spaventò di nuovo, da di fianco, con tutta l’energia del suo ventre. Ogni volta che viene spaventata, la mia voce vacilla… poi diventa piccola. Poco dopo coloro che ascoltavano cominciarono a ridere sommessamente. Anch’io cominciai a pensare dentro di me che tutto ciò fosse ridicolo. In quell’istante il Frac scoppiò per primo a ridere; questomi contagiò e anch’io esplosi in una risata insieme a lui. Una volta terminato, ricevetti pesanti critiche, e quelle di Frac furono le più sarcastiche. Con un sorriso sulle labbra Kyoshi non poté far altro che concludere in modo eccellente e con eleganza il brano, accompagnando il proprio canto con lo tsuzumi. Poco dopo se ne andò sul risciò dicendo di aver ancora delle visite da fare. In seguito fui ancora deriso in vari modi dai giovani. Persino mia moglie, dopo aver criticato il proprio marito, lodava Kyoshi dicendo: «Quando il signor Takahama suonava lo tsuzumi, si vedevano ondeggiare le maniche del suo juban13 e il loro colore era molto bello!». Il Frac condivise immediatamente quest’affermazione. Io non trovo per niente bello né il colore dello juban di Kyoshi, né il fatto che esso ondeggiasse. 1 Zuppetta a base di verdure, contenente vari ingredienti, con palline fatte di pasta di riso, cotto al vapore e pestato. Viene servita soprattutto durante le feste di Capodanno. 2 Sono allievi di Sōseki. 3 Tessuto liscio di lana inglese. 4 Sake che si beve a Capodanno. 5 Takahama Kyoshi (1874-1959), poeta di haiku e romanziere, editore della rivista letteraria «Hototogisu». Amico di Sōseki, gli fornì un grande aiuto, quando al ritorno da Londra si trovava in una situazione di instabilità emotiva, consigliandogli di dedicarsi alla scrittura per distrarsi e rilassarsi e fornendogli così lo stimolo in direzione della sua fortunata carriera. 6 Sorta di giacca ampia e corta da indossare sopra il kimono. 7 Kimono con lo stemma di famiglia, indossato nelle cerimonie. 8 Canto del teatro Nō che narra di un monaco buddhista di un paese a est che si recò nella capitale Kyō. Mentre recitava dei sutra ad alta voce, sotto il famoso prugno Nokiba no Ume, nel tempio buddhista Tōbokuin, comparve il fantasma di Izumi Shikibu (poetessa giapponese del Periodo Heian), che raccontò la sua storia e poi danzò. 9 Piccolo tamburo che viene suonato tenendolo con un braccio. 10 Fornelletto portatile in terracotta, alimentato a carbone. 11 Il brano principale del canto di Hagoromo (Manto di piume): storia di un angelo donna che aveva perso il suo manto. Il pescatore che lo aveva trovato, all’inizio non voleva restituirlo, pensando di tenerlo come un tesoro di famiglia. Poi però, commosso dalla visione dell’angelo che lo pregava di restituirglielo, accettò di farlo in cambio di una danza della donna-angelo. 12 Grido che viene usato per scandire il tempo nelle canzoni, nelle arti marziali o in occasione di sforzi particolarmente intensi. 13 Indumento che si indossa sotto il kimono. 2 Il serpente Quando uscii fuori aprendo la porta di legno, dentro le grosse impronte degli zoccoli di un cavallo stagnava una grande quantità di pioggia. Calpestavo la terra e il rumore del fango aggrediva il fondo dei miei piedi; mi sembrava quasi di sentire dolore nel sollevare il tallone. A causa del secchio appeso alla mano destra facevo fatica a tirare fuori e riaffondare i piedi nel fango; ogni volta che piantavo i piedi per terra cercando di non cadere, mi veniva voglia di gettare via ciò che avevo in mano per ritrovare l’equilibrio. Alla fine, finii per appoggiare il fondo del secchio sul letto di fango. Mentre rischiando di cadere mi aggrappai al suo manico, guardai davanti a me e vidi lo zio a circa due metri di distanza; da dietro la sua spalla, sulla cappa di paglia che indossava, pendeva il fondo di una rete da pesca steso a triangolo. In quell’istante il suo copricapo si mosse lievemente e mi sembrò di sentire provenire dal suo interno: «Che strada terribile!». L’ombra della sua cappa venne spazzata dalla pioggia. In piedi sul ponte di pietra, vedo venire l’acqua nera mentre acquista forza passando tra i ciuffi di erbe. Di solito è un corso d’acqua bello a vedersi, che non sale oltre i dieci centimetri sopra la caviglia, e sul suo fondo ondeggiano dolcemente lunghe alghe; ma oggi è torbido. Il fango sgorga dal fondo mentre la pioggia picchia da sopra, i vortici lo attraversano al centro, accavallandosi l’uno sull’altro. Lo zio, che li stava osservando da un po’ di tempo, disse tra le labbra: «Ce la faccio a catturarlo!». Attraversammo il ponte e deviammo subito a sinistra. I vortici si allungavano serpeggiando dentro la verde risaia. Continuammo per più di cento metri inseguendo la corrente senza sapere fin dove si spingesse e ci fermammo in piedi, malinconicamente noi due soltanto, in mezzo alla vasta risaia; non si vedeva altro che pioggia. Lo zio da sotto il suo copricapo volse lo sguardo verso il cielo: era sigillato nella sua oscurità come il coperchio di un vaso per il tè. Da spazi indefiniti cade fitta la pioggia; stando in piedi, sentiamo il suo rumore scrosciante: della pioggia che percuote il copricapo e la cappa che indossiamo, di quella che colpisce la risaia in tutte le direzioni. Sembra mescolarsi al rumore dell’acqua che cade sulla foresta di Kiō1 laggiù, e che con essa arrivi da lontano. Sopra la foresta, le nuvole nere si ammassano penetrando una dentro l’altra, richiamate dalle cime delle criptomerie2. Scendono a poco a poco ciondolando per il peso. I loro piedi si avvinghiano alla cima delle piante. Sembra che, a momenti, stiano per cadere dentro la foresta stessa. Tornando in me, guardo ai miei piedi e mi accorgo che i vortici arrivano dai pressi della sorgente, forse generati dall’acqua del laghetto dietro il tempio di Kiō, assalito da quelle nuvole. All’improvviso la forma dei vortici sembra invigorirsi. Lo zio, osservandoli di nuovo, disse: «Ce la faccio a catturarlo», come se avesse già preso qualcosa. Entrò poi dentro l’acqua senza togliersi la cappa. Nonostante la sua terribile forza, l’acqua non è così profonda e gli arriva solo fino all’anca. Lo zio si sistemò al centro del fiume, di fronte alla foresta di Kiō, e adagiò la rete che portava sulla spalla verso l’origine della corrente. Immobili sotto lo scrosciare della pioggia osservavamo l’aspetto dei vortici che si spingevano dritti verso di noi, sicuri che i pesci passassero sotto di essi, trascinati dalle acque del laghetto di Kiō. Senza pensare ad altro guardavamo il terribile colore di quell’acqua, pensando di riuscire a catturare una grossa preda se fosse rimasta ben incastrata fra le maglie della rete. L’acqua, fangosa fin dall’inizio, lascia intravedere soltanto la superficie in movimento, ma è assolutamente impossibile capire cosa scorra realmente sotto di essa. Aspettavo con lo sguardo fisso che si muovesse il polso dello zio, immerso sotto la superficie dell’acqua, ma esso non voleva saperne di muoversi. La pioggia che cade diventa sempre più nera; il colore del fiume diventa a poco a poco pesante. Le forme create dai vortici girano impetuosamente scendendo dalla sorgente. In quel momento, dentro un’onda scura che stava passando con veemenza davanti ai miei occhi, apparve per un istante un disegno di un colore diverso. Quel disegno fu illuminato per un secondo e mi diede la sensazione di qualcosa di lungo: pensai che fosse un’anguilla gigantesca. Improvvisamente, il polso destro dello zio stretto intorno all’impugnatura della rete contro corrente si mosse, come se balzasse da sotto la cappa fin sopra la spalla: qualcosa di lungo si staccò dalla sua mano e, disegnando una traiettoria curva come una corda pesante, sotto una pioggia buia e battente, cadde laggiù sull’argine. Subito dopo alzò lentamente la testa di circa trenta centimetri sopra le erbe e, senza muoversi, ci guardò con aria minacciosa. «Ricordati che me la pagherai cara!». La voce era indubbiamente quella dello zio. Nello stesso momento, la testa scomparve tra le erbe. Lo zio, pallido in volto, guardava il punto in cui aveva lanciato il serpente. «Zio, sei stato tu a dire ora “ricordati che me la pagherai cara”?». Egli finalmente si girò verso di me e rispose a voce bassa: «Non so bene chi sia stato…». Ancora oggi, ogni volta che parlo allo zio di quest’evento, risponde: «Non so bene chi sia stato…» e assume una strana espressione. 1 L’Autore si riferisceal tempio di Inari Kiō, nell’attuale circoscrizione di Shinjuku di Tokyo, vicino alla casa della famiglia Shiobara che aveva adottato Sōseki da bambino. 2 Pianta sempreverde della famiglia delle Cupressaceae, originaria dell’Asia, di aspetto simile alle nostre conifere. Può raggiungere i 40 metri di altezza. 3 Il ladro Quando uscii per andare nella camera accanto, pensando di andare a dormire, sentii l’odore del kotatsu1. Di ritorno dal bagno raccomandai a mia moglie di stare attenta al fuoco poiché mi sembrava troppo forte, dopo di che mi ritirai nella mia stanza. Erano già le ventitré passate. Dentro il letto i sogni furono sereni come al solito. Nonostante facesse freddo, non soffiava il vento e non sentii neanche il suono della campana d’allarme2. Come se avessi perso i sensi, caddi di colpo in un sonno talmente profondo che persi la cognizione del tempo. Poi, all’improvviso, mi svegliò una voce femminile gemente. Ascoltando bene, mi resi conto che si trattava della voce della nostra domestica, di nome Moyo, che, ogni volta che si agitava per uno spavento, assumeva una voce gemente. L’altro giorno, mentre faceva fare il bagnetto al nostro bimbo, le uscì quella voce gemente per circa cinque minuti, mentre riferiva che il vapore aveva fatto venire il capogiro al bambino, provocandogli un attacco di convulsioni. Quella fu la prima volta che sentii questa sua voce insolita, che la portava a parlare concitatamente tra i singhiozzi. È la voce di una donna che si lamenta… che ripete con insistenza… che si profonde in scuse… che è addolorata per la morte del proprio uomo…, insomma, non è proprio il tono di un’esclamazione acuta e breve che scaturisce nel caso di uno spavento. Come stavo dicendo, mi svegliai a causa di questa voce strana: arrivava senza dubbio dalla stanza accanto a quella in cui dormiva mia moglie. In quell’istante, improvvisamente, un bagliore rosso penetrò nello studio buio attraverso il fusuma3. Non appena questa luce raggiunse le mie palpebre che si stavano aprendo, saltai fuori dal letto, convinto che ci fosse un incendio e spalancai di colpo il fusuma che separava le stanze, facendo un gran fracasso. In quel momento immaginai il kotatsu rovesciato, il futon4 carbonizzato, la stanza piena di fumo, il tatami che bruciava. Tuttavia, quando aprii la porta, il lume era acceso come al solito; come al solito mia moglie e i bambini dormivano; il kotatsu era in ordine come la sera prima. Tutto era come lo avevo lasciato prima di andare a dormire, tranquillo e caloroso; solo la domestica piangeva. Raccontava concitata qualcosa mentre sembrava premere con le mani il bordo del futon di mia moglie; questa si svegliò, ma non faceva altro che sbattere le palpebre senza dare segno di volersi alzare. Non riuscendo a capire quasi nulla dell’accaduto, osservai la stanza con uno sguardo assente, restando impalato accanto alla soglia. Tutt’un tratto, tra i gemiti della domestica, emerse una parola: «ladro». Non appena la sentii, come se tutto si fosse chiarito nella mia mente, attraversai subito la stanza a grandi passi e, irrompendo all’improvviso in quella accanto, urlai: «Chi è là?». Tuttavia la stanza in cui sbucai era completamente buia; un’imposta scorrevole della cucina adiacente a essa era staccata e la splendida luce della luna penetrava fino all’ingresso della camera. Ebbi un involontario brivido di freddo guardando il chiarore della luna che, nel cuore della notte, entrava con la sua luce nella parte più profonda della casa dell’uomo. Andai a guardare fino all’acquaio della cucina, uscendo a piedi nudi sul pavimento di legno, ma intorno a me tutto era immerso in un silenzio assoluto. Sbirciai fuori dalla facciata, ma non c’era altro che la luna. Non mi venne di fare neanche un passo fuori della porta. Tornai quindi indietro, andando da mia moglie e le dissi: «Il ladro è scappato: stai tranquilla. Non è stato rubato nulla». Mia moglie si era finalmente alzata. Senza dire nulla, andò fino alla stanza buia con un lume in mano e lo mise davanti all’armadio: le due ante erano staccate, i cassetti erano rimasti aperti. Mia moglie mi guardò in faccia e disse: «Come immaginavo, siamo stati derubati!». Anch’io mi resi conto finalmente che il ladro era fuggito dopo aver rubato. Non so perché, ma improvvisamente cominciai a pensare che tutto fosse assurdo. Guardai da una parte e vidi per terra il futon della domestica che era venuta a svegliare mia moglie piangendo. Di fianco al guanciale c’era un altro armadio, e sopra di esso si trovava ancora una cassettiera. Mi disse che al suo interno, visto che era la fine dell’anno, c’erano i soldi per saldare la parcella del medico e altre cose. Feci controllare da mia moglie che assicurò che lì non era stato toccato nulla. Può anche darsi che il ladro fosse stato costretto a scappare a metà dell’opera, perché la domestica era spuntata fuori della veranda piangendo. Di lì a poco anche tutti coloro che dormivano nelle altre stanze si alzarono e arrivarono; i commenti erano i più vari: «E pensare che mi sono alzato per fare la pipì un attimo prima», «Questa sera non avevo sonno e non sono riuscito ad addormentarmi fino alle due di notte circa»… Avevano tutti un’aria dispiaciuta. Tra loro la mia figlia maggiore, di dieci anni, disse di essersi perfettamente accorta che un ladro era entrato dalla cucina e che, camminando per la veranda, faceva scricchiolare il pavimento. «Oh mio Dio!», disse spaventata la signorina Ofusa: ha diciotto anni, è una parente e dorme nella stessa stanza di mia figlia. Io tornai a letto e mi riaddormentai. A causa di tutto questo trambusto, il giorno dopo mi alzai un po’ più tardi del solito. Mentre facevo colazione, dopo essermi lavato la faccia, in cucina la domestica tutta agitata diceva di aver trovato delle impronte che sarebbero potute appartenere al ladro. Ciò era seccante e mi ritirai nello studio. Erano passati forse dieci minuti, quando sentii una voce chiedere: «Permesso?». Era una voce forte e decisa. Poiché mi sembrava che nessuno gli rispondesse dalla cucina, uscii io stesso e trovai un poliziotto davanti all’ingresso. Disse sorridendo: «Ho sentito che è entrato un ladro». Poiché mi chiese: «Avevate chiuso bene tutto a chiave?», io risposi: «No, probabilmente non avevamo chiuso tutto bene». «Allora c’è poco da fare. Se è chiuso male, possono entrare da qualunque punto della casa. Dovrebbe inchiodare tutte le imposte scorrevoli che non si possono chiudere bene», mi consigliò. Non potei che rispondere: «Sì, certo». Da quando avevo incontrato questo poliziotto, ebbi la sensazione che il vero responsabile del furto non fosse il ladro, ma il padrone della casa che era stato imprudente. Il poliziotto passò dalla cucina e lì fermò mia moglie per prendere nota degli oggetti scomparsi su un taccuino: «Un maruobi5 di satin, giusto?… Che cos’è il maruobi? Si capisce se scrivo maruobi, vero? Ah sì, allora, un maruobi di satin e poi…». Sul viso della domestica compare un sorriso ironico. Questo poliziotto non sapeva assolutamente cosa siano né un maruobi né un haraawase6. È un vero sempliciotto e fa ridere. In breve tempo finì di scrivere la lista contenente circa dieci oggetti scomparsi, per ognuno dei quali indicò il valore; poi se ne andò, chiedendo per conferma: «Allora, in totale sono centocinquanta yen, giusto?». Solo in quel momento seppi chiaramente che cosa ci era stato rubato. Gli oggetti scomparsi erano dieci, solamente cinture: quello che era entrato ieri sera era il ladro delle cinture. Nell’imminenza di Capodanno, mia moglie ha una faccia strana: dice che le bambine non potranno indossare il kimono bello neanche nei primi tre giorni del nuovo anno. Pazienza, non ci si può far niente… Nel primo pomeriggio arrivò un agente: entrò nella stanza con il tatami e guardò diverse cose. Controllò persino un piccolo secchio che era in cucina, dicendo che il ladro potrebbe aver fatto il suo lavoro mettendo al suo interno, per esempio, una candela. Dicendogli «Venga a bere un tè», lo feci accomodare nelsoggiorno dove penetrava un piacevole sole e parlammo. Mi raccontò che i ladri vengono normalmente dalle zone intorno a Shitaya e Asakusa7 con il treno e che, la mattina del giorno seguente, ritornano di nuovo con il treno. Di solito non vengono catturati. Dice infatti che, se li arrestassero, il poliziotto ne avrebbe una perdita poiché, accompagnandoli sul treno, si dovrebbe far carico del biglietto. Se fossero portati in tribunale, ci rimetterebbe i soldi del pasto. Pare che la Questura di Tokyo si prenda metà dei fondi segreti e assegni il resto a ogni commissariato. Pare ci siano soltanto tre o quattro agenti a Ushigome8… Io, che credevo che la polizia riuscisse a fare quasi tutto con la sua autorità, mi sentii molto insicuro. Anche l’agente che me lo raccontava aveva un’espressione scoraggiata. Pensavo di far controllare le serrature di casa, ma sfortunatamente la persona che lo fa di solito non poté venire, a causa dei molti impegni del periodo di fine anno. Intanto arrivò la sera; non mi rimase che andare a dormire lasciandole così com’erano. Sembrava che tutti avessero una sensazione sinistra. Anch’io non mi sentivo affatto sereno perché era come se la polizia avesse dichiarato con me che ognuno deve gestire il problema dei ladri per conto proprio. Ciononostante andai a dormire con il cuore tranquillo, pensando che, visto che era accaduto solo il giorno prima, saremmo stati probabilmente al sicuro. Invece fui di nuovo svegliato da mia moglie in piena notte: «È da un po’ che si sente un rumore come di qualcosa che si muove dalla parte della cucina. Per favore, alzati e vai a guardare perché mi fa venire i brividi», disse. In effetti si sente qualcosa di simile. Mia moglie ha già la faccia di chi si aspetta che sia un ladro. Uscii dal letto senza far rumore. Quando arrivai vicino al fusuma che separa le due camere, attraversando quella di mia moglie con passo felpato, sentii la domestica che stava russando nella stanza accanto. Aprii facendo meno rumore possibile e stetti in piedi nella camera completamente buia. Si sentì un tonfo sordo che proveniva senza dubbio dall’ingresso della cucina. Mi avvicinai, come un’ombra che si muove nel buio, facendo circa tre passi verso l’origine del rumore e mi trovai già all’uscita della camera. C’è uno shōji9. Al di là inizia subito il pavimento di legno. Mi accostai allo shōji e tesi l’orecchio nel buio: si udì un altro tonfo sordo. Poco dopo un altro. Sentii questo rumore sospetto circa quattro o cinque volte. Dopo aver verificato che proveniva senza dubbio dal fondo della credenza che si trovava sulla parte sinistra del pavimento di legno, ritornai subito nella stanza di mia moglie con passi e un’andatura normali. Quando dissi: «È solo un topo che sta rosicchiando qualcosa. Sta’ tranquilla!», mia moglie mi rispose sollevata: «Oh, davvero?», dopo di che tutti e due ci addormentammo serenamente. Si fece giorno e, quando arrivai nel soggiorno dopo essermi lavato la faccia, mia moglie, portando davanti al tavolo un katsuobushi10 rosicchiato da un topo, mi spiegò: «Ecco cos’era ieri sera». Dissi: «Ah, ecco!», mentre osservavo il katsuobushi orribilmente aggredito per tutta la notte. Allora mia moglie con un certo malcontento disse: «Già che eri lì, potevi dare la caccia al topo e mettere al sicuro il tonno secco». Solo in quel momento anch’io mi resi conto che avrei dovuto fare così. 1 Telaio in legno di un basso tavolino, al quale viene agganciata una pesante coperta o futon che va a ricoprire le gambe di chi si siede attorno al tavolo. Viene utilizzata in inverno per riscaldarsi, posizionando una fonte di calore (originariamente un contenitore con braci, attualmente una resistenza elettrica) sotto il tavolo stesso. 2 L’Autore fa riferimento alla campana di allarme antincendio che spesso, nelle giornate invernali, viene mossa dal vento. 3 Porte scorrevoli costituite da un’intelaiatura di legno ricoperta da carta o stoffa incollata, poggiate su binari in legno, fra stanza e stanza o per chiudere armadi a muro. 4 Materasso e trapunta tradizionali giapponesi che vengono distesi per terra per andare a dormire. 5 Tipo di lussuosa cintura larga da donna, fatta piegando e cucendo per lungo un telo di stoffa. 6 Cintura da donna utilizzata, chiamata anche «cintura da giorno e notte», fatta cucendo due tipi di stoffe diverse per formare la parte frontale e il retro. 7 Quartieri popolari di Tokyo. 8 Circoscrizione dove abitava l’Autore; attualmente è la zona nord-est di Shinjuku. 9 Porta scorrevole costituita da un’intelaiatura di legno rivestita da un lato solo da carta bianca traslucida. 10 Tonno essiccato che viene di solito usato tagliandolo a scaglie sottilissime. 4 Il caco C’è un bambino che si chiama Kii-chan1. Ha la pelle liscia e gli occhi brillanti, ma il colore delle sue guance non è vivace come quello dei bambini normali, che crescono in salute. Se lo si guarda un attimo, si ha l’impressione che tutto il viso sia leggermente giallino. Accadde che la nostra abituale pettinatrice, una volta, commentò la cosa, dicendo che era colpa della madre, poiché era troppo protettiva e non lo faceva mai uscire fuori a giocare. La mamma è una donna che, in un’epoca come questa nella quale vanno di moda i capelli all’occidentale, si rifà l’acconciatura rigorosamente ogni quattro giorni portando i capelli raccolti alla maniera tradizionale giapponese e chiama in qualunque momento il proprio figlio con chan: «Kii-chan, Kii-chan». Oltre a lei, c’è anche una nonna che porta il kirisage2 e anche essa lo chiama «Kii- chan, Kii-chan». Dice: «Kii-chan, è ora di andare alla lezione di koto3… Kii- chan, non devi uscire fuori avventatamente a giocare con i bambini del vicinato» o cose del genere. Per questo motivo, Kii-chan raramente usciva di casa per giocare. Bisogna ammettere però che il vicinato non è di alto livello: davanti c’è un negozio di shio sembei4; subito accanto c’è un artigiano delle tegole. Un po’ più avanti ce n’è uno che mette i rigoletti ai geta5 e uno stagnino che ripara utensili di metallo e serrature. Il padre di Kii-chan invece è un funzionario di banca. All’interno della recinzione della casa sono piantati dei pini; quando arriva l’inverno, viene un giardiniere e se ne va dopo aver ricoperto tutto il piccolo giardino di aghi secchi di pino. A Kii-chan, quando si annoia dopo la scuola, non rimane che uscire sul retro della casa per giocare. È il posto dove la mamma o la nonna fanno harimono6, dove Yoshi7 fa il bucato, dove a fine anno un uomo con un hachimaki8 annodato davanti arriva portando sulle spalle un mortaio con cui pesta i mochi9; è anche dove si cospargono di sale le verdure per metterle via nei barili. Kii-chan viene qui e gioca con la mamma, con la nonna, con Yoshi… Qualche volta capita anche che esca fuori da solo nonostante non ci sia nessuno con cui giocare. In quelle occasioni, spesso sbircia curioso, attraverso il varco tra le sottili siepi, la fila di case sotto un unico tetto che si trova sul retro. Ce ne sono cinque o sei. Visto che tra i due lati della siepe c’è un dislivello di circa un metro, tutto è disposto in modo ideale per permettere a Kii-chan di vederle dall’alto al basso, quando si mette a sbirciarle. Pur essendo un bambino, trova divertente guardare in questo modo, dall’alto, la fila di case dietro la sua. Se il signor Tatsu, in partenza per andare a fabbricare delle armi, sta bevendo il sake a torso nudo, egli lo racconta alla mamma dicendo: «Lo sai che sta bevendo il sake?». Se Gen-bō10, il carpentiere, sta affilando l’ascia, lo riferisce alla nonna dicendo: «Lo sai che sta affilando qualcosa?». Oltre a ciò, riporta esattamente tutto quello che vede: «Guarda che stanno litigando… Lo sai che stanno mangiando le patate dolci arrostite?»… Allora Yoshi ride ad alta voce; anche la mamma e la nonna ridono con aria divertita. Farle ridere in questa maniera è ciò che gli riesce meglio. Mentre Kii-chan sbircia sul retro, alle volte gli capita di trovarsi faccia a faccia con il figlio di Gen-bō, Yokichi e, quandosi vedono, si parlano non più di una volta su tre. Tuttavia, per come sono loro, è impossibile che vadano d’accordo: ogni volta finiscono per bisticciare. Se Yokichi gli dice da sotto: «Cosa dici, faccia pallida e gonfia?!», Kii-chan gli risponde dall’alto, tirando in fuori quel suo mento rotondo come se lo trattasse con disprezzo: «Ehi, bamboccio con il naso che cola, sei un pezzente!». Una volta, poiché Yokichi, arrabbiandosi, trapassò da parte a parte la siepe con una canna per stendere i panni, Kii-chan si spaventò e scappò dentro casa. La volta successiva, Yokichi raccolse una palla ricoperta con un filo di lana intrecciato in modo sopraffino che Kii-chan aveva fatto cadere giù dal terrapieno e non gliela riconsegnò subito. Egli protestò energicamente dicendo: «Restituiscimela! Lanciamela, dai!», ma Yokichi, tenendo la palla in mano, rimaneva immobile guardando in su con aria altezzosa: «Chiedimi scusa! Se mi chiedi scusa, te la restituisco», disse. Kii-chan, dopo aver detto «Figurati se ti chiedo scusa! Ladro!», andò dalla mamma che stava lavorando e scoppiò a piangere. Quando questa, perdendo la calma ma volendo salvare le apparenze, mandò Yoshi a prenderla, la mamma di Yokichi disse soltanto «Mi dispiace molto» ma alla fine la palla non ritornò più nelle mani di Kii-chan. Passarono tre giorni e Kii-chan uscì di nuovo fuori tenendo in mano un grosso caco rosso. Allora Yokichi si avvicinò come al solito sotto il muretto. Kii-chan sporse attraverso la siepe questo caco rosso e disse: «Lo vuoi in regalo?». Yokichi, guardando fisso il caco da sotto, rimase immobile e disse: «Cosa vuoi che me ne freghi? Non voglio robaccia simile!». Kii-chan ritirò la mano attraverso la siepe dicendo: «Non lo vuoi? Se non lo vuoi, allora lasciamo stare!»; a quel punto Yokichi si fece ancora più sotto il muretto mentre diceva «Come immaginavo! Cosa vuoi? Cosa vuoi? Guarda che ti picchio!». Kii-chan tirò fuori di nuovo il caco dicendo: «Allora lo vuoi?». Yokichi stava guardando in alto con gli occhi spalancati: «Figurati se voglio una robaccia simile!». Dopo che questo scambio di parole si ripeté quattro o cinque volte, Kii- chan fece cadere con un tonfo il caco che aveva in mano giù dal muretto, dicendo: «Allora te lo do!». Yokichi lo raccolse di corsa con tutto il fango che si era attaccato e, non appena lo ebbe in mano, gli diede un morso da una parte. In quell’istante, le sue narici fremettero, le labbra spesse si torsero verso destra e poi sputò il boccone di caco che non aveva finito di mangiare: «Puh!». Poi, concentrando negli occhi tutto l’odio di cui era capace, lanciò con violenza il caco che aveva in mano contro Kii-chan gridando: «Che aspra, questa robaccia!». Il caco oltrepassò la testa di Kii-chan e colpì il deposito dietro la casa. Kii-chan cominciò a correre ed entrò in casa dicendo: «Eh, che ingordo!». Dopo un attimo, nella casa di Kii-chan si sentirono delle grandi risate. 1 Chan: utilizzato come vezzeggiativo, equivalente, nelle lingue occidentali, all’appellativo «piccolo/a» o a un diminutivo. 2 Acconciatura portata normalmente dalle vedove, consiste nel legare in alto i capelli, tagliati uniformemente all’altezza della nuca, in modo che ricadano indietro. 3 Strumento musicale di origine cinese simile a una cetra, introdotto in Giappone durante il Periodo Nara. È costituito da una cassa armonica di circa due metri, che viene poggiata a terra, sulla quale sono tese tredici corde e viene suonato con un plettro simile a un’unghia. 4 Cracker giapponese di riso salato. 5 Zoccoli con infradito fatti di legno, la cui suola è sollevata da terra da due rigoletti messi di traverso. 6 Procedimento con cui veniva inamidata una stoffa, per poi distenderla su un asse di legno per asciugarla. 7 Nome della domestica. 8 Fascia di stoffa che si avvolge attorno alla testa. 9 Pasta fatta di riso cotto al vapore e pestato. 10 Suffisso che viene attaccato a un nome di persona per esprimere simpatia o per schernirlo leggermente. 5 Il braciere Quando mi svegliai, lo scaldino portatile, che mentre dormivo tenevo fra le braccia, giaceva ormai freddo sulla mia pancia. Guardai oltre la tettoia attraverso il vetro e quello scorcio di cielo di circa un metro, pesante, aveva un aspetto plumbeo. Mi sembrò che il dolore allo stomaco fosse abbastanza passato; provai così a decidermi a mettermi seduto sul futon, ma sentii più freddo di quanto mi aspettassi. Sotto la finestra la neve caduta ieri era rimasta tale e quale. Il bagno è così ghiacciato che luccica. Il rubinetto non funziona perché anche le tubazioni sono completamente ghiacciate. Mentre nel soggiorno versavo il tè nella tazza, dopo aver finalmente finito con qualche difficoltà di strofinarmi con un asciugamano riscaldato nell’acqua calda e ben strizzato, il bimbo di due anni scoppiò a piangere come al solito. Questo bimbo aveva pianto per tutto il giorno anche l’altro ieri. Aveva continuato a piangere anche ieri. Quando chiesi a mia moglie cosa fosse successo, mi rispose: «E cosa vuoi che sia successo!? È perché fa freddo». Non c’è niente da fare. In effetti, piange come se brontolasse e sembra che non abbia né dolore né fastidio alcuno; visto che piange, però, ci sarà qualcosa che lo fa sentire insicuro. Se rimango qui ad ascoltare, alla fine finisco per cominciare ad angosciarmi pure io: in certi casi lo trovo un po’ odioso. Capita che mi venga voglia di sgridarlo a voce alta ma poi, pensando di non poterlo comunque fare perché è troppo piccolo, mi trattengo a stento. È stata la stessa cosa sia l’altro ieri sia ieri, ma se penso che sarà così per tutto il giorno pure oggi, non mi sento bene fin d’ora. Visto che ultimamente avevo deciso di non fare colazione a causa dei miei disturbi allo stomaco, mi ritirai nello studio tenendo in mano la tazza con il tè. Mentre mi scaldo un po’ allungando le mani sopra al braciere, il bambino sta ancora piangendo. In breve tempo, solo il palmo delle mani è diventato così bollente da far quasi uscire del fumo, ma sento un freddo incredibile lungo tutta la schiena fino alle spalle. Soprattutto le punte dei piedi sono diventate talmente ghiacciate da farmi male. Sono quindi costretto a rimanere immobile; se muovessi anche solo un poco le mani, toccherebbero qualcosa di freddo: sarebbe doloroso per i nervi come se toccassi per esempio una spina. Persino quando ruoto il collo, il solo scivolare contro il colletto del kimono, mi provoca un brivido di freddo, e mi dà una sensazione intollerabile. Oppresso dal freddo che mi assedia, me ne stavo come paralizzato al centro del mio studio di dieci tatami1. Il pavimento è di legno: bisognerebbe usare in realtà una sedia ma, mettendo un tappeto, sto seduto per terra immaginando che ci sia un normale tatami; tuttavia, poiché il tappeto è piccolo, il pavimento lucido, scoperto per circa sessanta centimetri, luccica tutt’attorno. Mentre guardavo il pavimento senza muovere un solo muscolo, il bambino piangeva di nuovo. Non riuscivo proprio a trovare il coraggio di mettermi a lavorare. In quel momento, entrò mia moglie chiedendomi di prestarle un attimo l’orologio e disse: «Nevica di nuovo». Guardai fuori e scoprii che era cominciata a cadere una neve fine: scendeva lentamente da un punto indefinito di un cielo cupo, senza un filo di vento, silenziosa e crudele. «Ehi, quanto ci è costato il carbone, quando l’anno scorso abbiamo acceso la stufa a causa della malattia dei bambini?». «Allora ho pagato ventotto yen a fine mese». Sentendo la risposta di mia moglie, rinunciai all’idea di usare per il salotto la stufa buttata in un piccolo deposito dietro casa. «Ehi, non riusciresti a far stare un po’ in silenzio il bambino?». Mia moglie fece una faccia come per dire «Non ci si può far nulla», poi domandò: «Visto che la signora Omasa sta soffrendo abbastanza per il mal di pancia, chiediamo al signor Hayashi o a qualcun altro di visitarla?». Sapevo che la signora Omasa era a letto da due o tre giorni, ma non pensavo che stesse così male. Esortai mia moglie a chiamare subito il medico;mia moglie rispose «Farò così» e uscì dalla stanza con l’orologio in mano. Mentre chiudeva il fusuma, disse: «Che freddo in questa camera!». Ho ancora il corpo intirizzito dal freddo e non mi viene voglia di lavorare. A dire il vero, avrei un sacco di lavoro: devo scrivere la bozza per una puntata2; devo leggere due o tre racconti come mi aveva chiesto un certo giovane che non conosco; ho promesso a un’altra persona di scrivere una lettera di presentazione di una sua opera per una rivista. Di fianco alla scrivania ci sono pile di libri che avrei dovuto leggere in questi due o tre mesi, ma non sono riuscito a farlo. Da circa una settimana, ogni volta che mi siedo alla scrivania pensando di lavorare, arriva gente e tutti iniziano a chiedermi consigli su qualcosa. Inoltre sento un dolore allo stomaco: su questo punto oggi va meglio, però, qualunque considerazione si possa fare, non riesco a staccare le mani dal braciere perché fa freddo e mi sento tutto indolenzito. In quel momento qualcuno fermò il risciò davanti all’ingresso. Venne la domestica per dire «È arrivato il signor Nagasawa». Paralizzato vicino al braciere e guardando dal basso Nagasawa che stava entrando, gli dissi: «Lo sai che non riesco a muovermi per il freddo?». Nagasawa tirò fuori una lettera da sotto la giacca e lesse: «Poiché il 15 di questo mese è Capodanno secondo il vecchio calendario lunare, La prego di prestarmi dei soldi…». È come al solito una richiesta di soldi. Nagasawa se ne andò a mezzogiorno passato, e io morivo ancora dal freddo. Pensai piuttosto di trarre conforto andando in un bagno pubblico: mentre stavo per uscire nell’ingresso, portando un asciugamano, mi imbattei in Yoshida che chiese «Posso entrare?». Lo feci accomodare nel salotto con i tatami e, mentre ascoltavo i suoi vari racconti sul passato, scoppiò a piangere dirottamente. Nel frattempo, dall’altra parte della casa regnava una certa confusione perché era arrivato il medico. Quando finalmente Yoshida se ne andò, il bambino ricominciò a piangere. Alla fine andai ai bagni pubblici. Soltanto dopo aver finito il bagno, sentii caldo. Tornai a casa sollevato ed entrai nello studio, dove il lume era acceso e le tende abbassate. Nel braciere vi era della carbonella nuova. Mi lasciai cadere su un cuscino. Allora mia moglie dalla stanza in fondo si premurò di portarmi del sobayu3, dicendo: «Avrai freddo». Le chiesi come stava la signora Omasa e mi rispose: «Pare che non sia escluso che potrebbe venirle un’appendicite, sai?». Ricevendo in mano il sobayu risposi: «Forse sarebbe meglio farla ricoverare, se sta male». Mia moglie si ritirò nel soggiorno dicendo: «Sarebbe meglio così». Dopo che mia moglie fu uscita, d’un tratto calò un silenzio assoluto. Era veramente una sera nevosa; sembrava che il bambino, che stava piangendo, fortunatamente si fosse addormentato. Mentre sotto una luce brillante sorseggio il sobayu caldo e ascolto il crepitare della carbonella appena aggiunta nel braciere, la fiamma rossa tremola fioca, in mezzo alla cenere; ogni tanto una lingua di fuoco bluastra guizza fra i pezzi di carbone. Guardando il colore di questa fiamma, per la prima volta sentii il tepore della giornata, così continuai a osservare per un po’ di tempo la superficie della cenere che poco a poco diventava bianca. 1 L’autore non fa riferimento alla reale presenza dei tatami, ma alle dimensioni dello studio. Nelle case giapponesi tradizionali, la dimensione delle stanze veniva spesso indicata in tatami. Un tatami misura circa 1,65 m2. 2 Sōseki era stato ingaggiato dall’«Asahi Shimbun», uno dei principali giornali giapponesi, per scrivere romanzi a puntate. 3 Acqua calda in cui viene sciolta della polvere di soba (pasta di grano saraceno), oppure l’acqua stessa in cui viene fatta bollire la soba. 6 La pensione familiare Fu su una collina del nord che alloggiai per la prima volta presso una famiglia. Visto che mi piaceva quell’edificio di mattoni rossi a due piani, piccolo e accogliente, affittai una stanza nella parte posteriore, pagando la cifra relativamente alta di due sterline alla settimana. La spiegazione della padrona di casa era che il signor K., che allora occupava le stanze sulla facciata principale, attualmente stava facendo il giro della Scozia e non sarebbe tornato per un po’ di tempo. La padrona è una donna con un viso aspro, con gli occhi infossati, il naso schiacciato al centro e la punta all’insù, il mento e le gote appuntiti: al primo sguardo trascende talmente qualunque idea di femminilità da non consentire di darle un’età. Pensai che difetti come nervosismo, permalosità, ostinazione, testardaggine e diffidenza si fossero divertiti così tanto a giocare con i suoi occhi e il suo naso, un tempo sereni, da distorcerne a tal punto l’aspetto. Aveva capelli e occhi neri che mal si addicono a un paese del Nord; tuttavia il suo linguaggio non era affatto diverso da quello di un inglese normale. Proprio il giorno in cui mi trasferii, fui invitato al piano inferiore a prendere il tè: quando scesi giù, non c’era nessuno della famiglia. Io e la padrona, da soli, ci sedemmo uno di fronte all’altro, nella piccola sala da pranzo rivolta a nord. Provai a guardarmi attorno in quella stanza poco illuminata sulla quale non sembrava aver mai battuto il sole: sopra il camino c’erano dei malinconici narcisi. La padrona, offrendomi un tè e un toast, parlava di vari argomenti. In quell’occasione, per caso, mi confidò che il suo paese natale non era l’Inghilterra, ma la Francia. Poi, voltandosi e muovendo quegli occhi neri per guardare dietro a lei i narcisi dentro a un vaso di vetro, disse: «L’Inghilterra proprio non va, perché è sempre nuvoloso e fa freddo». Probabilmente pensava di avermi insegnato che pure i fiori non sono belli esattamente come si capisce guardandoli. Paragonando dentro di me l’aspetto scialbo dei narcisi allo scorrere del sangue slavato sotto le sue guance rinsecchite, immaginai i dolci sogni che sarebbe riuscita a fare nella sua Francia lontana. Dietro i capelli e gli occhi neri della padrona ci sarà stata una storia ormai finita, con un profumo di primavera scomparso da molti anni. Mi chiese: «Parla francese?» e interrompendo bruscamente il movimento della punta della mia lingua, con la quale stavo per risponderle di no, usò la lingua fluente del Sud, due o tre frasi una dopo l’altra. Era un accento così bello da farmi domandare come fosse possibile che un suono simile uscisse da una gola tanto ossuta. La sera, durante la cena, un vecchio pelato con la barba bianca si sedette a tavola. Mi accorsi solo allora che quel vecchio era il padrone, poiché mi venne presentato da lei dicendo: «Questo è mio padre». Costui ha uno strano modo di parlare: basta ascoltarlo anche poco per capire che non è assolutamente inglese. Ciò mi convinse che sia il padre sia la figlia si erano stabiliti a Londra da oltre Manica. Il vecchio, senza che io glielo avessi chiesto, si presentò quindi di propria iniziativa dicendo di essere tedesco. Poiché avevo sbagliato di poco le mie supposizioni, risposi soltanto: «Ah, davvero?». Tornai nella mia stanza. Non so perché ma, mentre leggevo, non riuscivo in nessun modo a togliermi dalla mente il padre e la figlia di sotto; quel vecchietto non somiglia per nulla all’ossuta figlia: al centro di una faccia gonfia, come tumefatta, è adagiato un naso tozzo e carnoso e sono inseriti due occhi sottili. C’era un presidente della Repubblica Sudafricana, di nome Kruger, che assomigliava molto a costui. Il suo viso non è un’immagine gradevole per gli occhi, inoltre il modo in cui si rivolge alla figlia è tutto meno che sereno: non so perché, ma nonostante biascichi a causa dell’infelice dentatura, si avverte un tono rude. Anche la figlia, quando risponde al padre, mi dà l’impressione che assuma un’espressione ancora più burbera. Sono tutt’altro che un padre e una figlia normali: andai a dormire con questi pensieri. Il giorno successivo, quando scesi giù per fare colazione, oltre al padre e alla figlia della sera prima si era aggiuntaalla famiglia un’altra persona. Quel nuovo membro che si era accomodato a tavola era un uomo sulla quarantina, con una bella carnagione e sorridente. Quando vidi il suo viso all’ingresso della sala da pranzo, ebbi per la prima volta la sensazione di trovarmi tra esseri umani viventi. La padrona me lo presentò dicendo: «My brother». Come pensavo, non era suo marito. Tuttavia i lineamenti del viso erano talmente diversi da non riuscire proprio a convincermi che fossero fratelli. Quel giorno pranzai fuori e ritornai alle tre passate; subito dopo essere rientrato nella mia stanza, ella venne a chiamarmi dicendo di andare a bere un tè. Anche quel giorno era nuvoloso. Aprii la porta della poco illuminata sala da pranzo: la padrona era seduta da sola di fianco alla stufa e aveva tutto pronto per servire il tè. Visto che si era premurata di accendere la stufa a carbone, l’atmosfera sembrava un tantino più allegra. Quando guardai la sua faccia, illuminata dalla fiamma appena accesa, scoprii che si era passata un velo di cipria sul lieve rossore della pelle. Appena entrato nella stanza mi resi conto di come un trucco potesse dare un tono malinconico; dallo sguardo che assunse, mi parve che la padrona avesse colto la mia impressione. Fu in quell’occasione che venni a sapere la storia della loro famiglia. Sua madre andò in sposa a un francese venticinque anni prima ed ebbe lei come figlia. Dopo qualche anno di convivenza, il marito morì. La madre, tenendola con sé, si risposò con un tedesco. Che è il vecchio della sera prima. Avevano aperto una sartoria nel West End, a Londra, dove lui andava a lavorare tutti i giorni. Il figlio che aveva avuto con la moglie precedente lavorava nello stesso negozio, ma erano in pessimi rapporti: pur stando nella stessa casa, non si parlavano mai. Il figlio la sera torna sempre tardi; si toglie le scarpe nell’ingresso, e scalzo va dritto nella sua stanza per andare a dormire, attraversando il corridoio senza farsi vedere dal padre. La madre di lei era già mancata da molto tempo; al momento della morte si era raccomandata con il marito di prendersi cura della figlia, ma tutto il patrimonio era passato nelle mani del padre e la figlia non poteva disporre neppure di un centesimo. Non le rimaneva altro che guadagnarsi una misera paga gestendo in questo modo la pensione. Quanto ad Agnes… La padrona non raccontò altro che questo. Agnes è il nome di una bambina di tredici o quattordici anni che serve in casa. In quell’istante, ebbi l’impressione che tra il viso del figlio che avevo visto quella mattina e Agnes ci fosse qualche somiglianza. Proprio in quel momento Agnes uscì dalla cucina portando in mano un piatto con alcuni toast. «Agnes ne vuoi?». Agnes ne prese in silenzio una fetta e ritornò verso la cucina. Dopo un mese me ne andai da questa pensione. 7 L’odore del passato Circa due settimane prima di lasciare questa pensione, il signor K. ritornò dalla Scozia: in quell’occasione gli fui presentato dalla padrona. Se ci penso, ancora adesso mi dà una strana sensazione il fatto che due giapponesi si incontrassero per caso in una piccola casa dei quartieri alti di Londra e che, inoltre, senza mai esserci presentati reciprocamente, ci inchinassimo dicendo «Piacere di conoscerla», grazie a una signora straniera di cui non sapevamo né lo status sociale, né l’origine, né i precedenti. In quell’occasione, questa ragazza già vecchia indossava un abito nero; porgendo una mano ossuta e rinsecchita disse: «Signor K., questo è il signor N.»; ma prima ancora di finire la frase, allungò anche l’altra mano verso il secondo e ci presentò reciprocamente in modo equo, dedicando a ognuno la stessa attenzione, dicendo: «Signor N., questo è il signor K.». Ero stupito non poco dal fatto che il suo atteggiamento fosse così dignitoso e formale da conferire una certa solennità all’atmosfera. Il signor K. stava in piedi davanti a me: si lasciò scappare un sorriso, corrugando i margini delle sue belle palpebre. Io invece, più che ridere, sentii tutta la malinconia di questa situazione contraddittoria: pensai, lì in piedi, che avrei provato la stessa sensazione se avessimo celebrato un matrimonio organizzato da un mediatore fantasma. Mi sembrava che là dove si allungava l’ombra nera di questa ragazza vecchia, tutto perdesse vita e si trasformasse all’improvviso in un cumulo di rovine. Non posso fare a meno di immaginare che, se qualcuno ne toccasse per errore la carne, il suo sangue nel punto preciso di contatto diventerebbe ghiacciato. Voltai appena la testa in direzione dei passi della donna che se ne andava, scomparendo al di là della porta. Dopo che se ne fu andata, io e il signor K. diventammo subito amici. Nella sua stanza per terra era steso un bel tappeto e alla finestra c’erano tende di seta bianca; era arredata con una poltrona e una sedia a dondolo splendide e inoltre vi era una piccola camera da letto separata; ma ciò che più di tutto mi dava un senso di felicità era il fatto che avesse sempre la stufa accesa, e la alimentasse generosamente con pezzi di carbone sfavillante. Decidemmo di prendere abitualmente il tè, il signor K. e io, nella sua stanza. A pranzo spesso andavamo insieme in un ristorante vicino: pagava sempre lui. Venni a sapere che il signor K. era venuto lì per svolgere ricerche sulla costruzione dei porti, infatti disponeva di abbastanza denaro. Quando stava in casa, indossava una vestaglia di raso di un color bruno rossiccio, ricamata con fiori e uccelli, e sembrava molto allegro. Al contrario di lui, io ero in una situazione indecente, dato che il mio vestito, che avevo da quando ero partito dal Giappone, era notevolmente sporco. Il signor K., dicendo che così era troppo, mi prestò il denaro per comprarne uno nuovo. Per due settimane, lui e io parlammo di svariati argomenti. Una volta mi disse: «Un giorno formerò un governo Keiō1». Mi raccontò che si sarebbe chiamato così perché lo avrebbe fondato solo con persone nate nell’Epoca Keiō, quindi mi chiese: «Allora, quando sei nato?». Risposi: «Nell’anno tre dell’Epoca Keiō»; lui si mise a ridere: «Allora disponi dei requisiti necessari per essere un membro del Gabinetto». Mi ricordo che probabilmente il signor K. era nato nell’anno uno o due dell’Epoca Keiō: un solo anno di ritardo e avrei perso il diritto a occuparmi insieme a lui degli affari di Stato. Nelle occasioni in cui parlavamo di argomenti interessanti come questo, capitò talvolta che la famiglia di sotto diventasse il tema dei nostri pettegolezzi. Allora il signor K. aggrottava sempre le sopracciglia e scuoteva la testa. Mi diceva che era la ragazzina di nome Agnes a fargli più pena. Al mattino portava il carbone nella sua stanza; presto nel pomeriggio gli portava tè, burro e pane. Li portava in silenzio e, dopo averli appoggiati, se ne andava in silenzio. Ogni volta che la vedevo, aveva il viso pallido e mi salutava solo di sfuggita con un movimento di quegli occhi grandi e umidi. Compariva come un’ombra e se ne tornava giù come un’ombra: non avevo mai sentito il rumore dei suoi passi. Una volta informai il signor K. che pensavo di andarmene da quella casa, perché la trovavo sgradevole. Egli era d’accordo con me e mi consigliò: «Per me va bene perché corro qua e là per le mie ricerche, ma forse uno come te dovrebbe prendere alloggio in un posto più confortevole per studiare». Quella volta continuò a preparare la valigia, dicendo che si sarebbe recato al di là del Mediterraneo. Quando stavo per lasciare la pensione, la ragazza vecchia mi supplicò di cambiare idea: mi disse persino che avrebbe abbassato l’affitto e che avrei potuto usare la stanza del signor K. mentre lui era assente; alla fine però finii per spostarmi più a sud. Nello stesso periodo anche il signor K. se ne andò lontano. Dopo due o tre mesi, ricevetti inaspettatamente una sua lettera. C’era scritto che era tornato dal viaggio e di andare a trovarlo, visto che per il momento non si sarebbe mosso. Avrei voluto andarci subito ma, per vari motivi, non avevo tempo di recarmi appostafino alla periferia nord. Dopo circa una settimana, grazie al fatto che per un impegno dovevo andare a Islington, al ritorno provai a passare da lui. Dalla finestra del secondo piano della facciata si vedeva il riflesso sul vetro della tenda di seta, raccolta da una parte. Mentre pensavo già alla stufa calda, al ricamo sul raso di colore bruno rossiccio della veste da camera, alla poltrona e all’allegro racconto del viaggio del signor K., varcai il cancello con entusiasmo e con il batacchio picchiai sulla porta tanti colpi veloci come se salissi di corsa le scale. Poiché non sentivo rumore di passi all’interno, pensavo che non avessero sentito e così stavo per prendere di nuovo il batacchio. All’improvviso la porta sembrò aprirsi da sola: misi un piede oltre la soglia e mi trovai faccia a faccia con Agnes che mi guardava fisso dal basso in alto, come per chiedermi scusa. In quell’istante, in mezzo a quello stretto corridoio, l’odore del passato che aleggiava nella pensione e che in quei tre mesi avevo dimenticato, mi punse l’olfatto come una saetta. Dentro quell’odore si concentrava tutto quanto: i capelli e gli occhi neri, la faccia come quella di Kruger, il figlio che assomiglia ad Agnes e Agnes che sembra un’ombra del figlio, insieme al segreto che era radicato in loro. Quando sentii questo odore, capii chiaramente che i loro sentimenti, i loro gesti, le loro parole e le espressioni dei loro volti erano celati dentro un inferno tenebroso. Mi risultò insopportabile l’idea di salire al secondo piano e incontrare il signor K. 1 Nome di un’epoca giapponese che va dal 1865 al 1868, prima del Periodo Meiji. 8 La tomba del gatto Dopo che ci fummo trasferiti a Waseda1, il gatto iniziò a dimagrire poco a poco. Non dava nessun segno di voler giocare con i bambini; dormiva nella veranda quando vi batteva il sole. Continuava a guardare fisso la siepe del giardino, appoggiando il mento squadrato sopra le zampe anteriori unite, senza mai dare segno di volersi muovere. Per quanto i bambini facessero un gran chiasso lì vicino, li ignorava. Anche i bambini smisero fin dall’inizio di badare a lui: trattavano questo vecchio amico come un estraneo, come se avessero escluso che potesse essere per loro un compagno di giochi. E non solo i bambini: anche la domestica si limitava ad appoggiare i suoi tre pasti in un angolo della cucina senza curarsi quasi per niente del resto. In più, di solito arrivava il grosso gatto maculato dei vicini e si mangiava tutto. Il nostro gatto non sembrava prendersela particolarmente; non lo vidi mai nemmeno bisticciare: si limitava a restare immobile e a dormire. Tuttavia, non so perché, ma non pareva sereno il modo in cui dormiva: era ben diverso da sdraiarsi al sole comodamente e senza pensieri, quasi con la pretesa di avere tutto il sole per sé. Invece, poiché non aveva la forza di muoversi… Ma questo non è ancora sufficiente a descriverlo. Mi sembrava che stesse resistendo e sopportando qualcosa con pazienza, come se si sentisse triste a non muoversi, ma ancora di più a muoversi, oltre ogni grado di spossatezza. I suoi occhi erano sempre fissi sul cespuglio del giardino, ma probabilmente non era consapevole né delle foglie degli alberi, né della forma del loro tronco; non faceva altro che poggiare il suo sguardo giallo bluastro in un punto. Sembrava che, come la sua esistenza non veniva notata dai bambini di casa nostra, così anche lui non riconoscesse chiaramente l’esistenza del mondo. Tuttavia, sembrava che a volte avesse bisogno di qualcosa e gli capitava perciò di uscire: in quelle occasioni veniva sempre inseguito dal gatto maculato dei vicini; poiché aveva paura, saltava dalla veranda e, rompendo lo shōji chiuso, si rifugiava vicino al focolare2. Solo in quel momento le persone di casa si accorgevano della sua presenza, e anche lui, proprio solo in quel momento, si rendeva conto con soddisfazione di essere vivo. Man mano che eventi di questo tipo si ripetevano, i peli della sua lunga coda iniziarono a cadere a poco a poco. All’inizio apparvero alcune lacune qua e là come se ci fossero dei buchi, ma in seguito la parte pelata si estese, lasciando scoperta la pelle escoriata; ciondolava in modo così fiacco da far pietà a guardarlo. Sforzandosi di piegare quel suo corpo esausto, cominciò a leccarsi continuamente le parti doloranti. Quando dissi a mia moglie: «Ehi, è successo qualcosa al gatto», ella rispose con tono del tutto freddo: «Già. Probabilmente perché è invecchiato». Anch’io lo lasciai stare così com’era. Poco dopo, ogni tanto, cominciò a vomitare i suoi tre pasti: provocandosi una sorta di grossa onda a livello della gola, produceva con aria sofferente un rumore indistinto, fra uno starnuto e un singhiozzo. Quando me ne accorgo, anche se mi sembra stia soffrendo, non posso fare altro che mandarlo fuori, altrimenti sporcherebbe senza pietà sia il tatami che il futon. La maggior parte degli zabuton di hattan3 che avevamo preparato per gli ospiti finì per sporcarsi a causa sua. «Pazienza: avrà disturbi allo stomaco e all’intestino! Fagli bere per esempio dell’hōtan4 sciolto in acqua». Mia moglie non rispose nulla. Dopo due o tre giorni, quando le chiesi se gli aveva dato da bere l’hōtan, mi rispose «È inutile: non apre la bocca», e aggiunse: «Lo sai che se gli do da mangiare le lische del pesce, vomita?»; io allora, che stavo leggendo un libro, la ripresi sgridandola in modo un po’ sgarbato: «Se è così, non dargliele più!». Bastava comunque che gli passasse la nausea per tornare a dormire tranquillo come prima. Nell’ultimo periodo aveva un modo veramente minimo di accoccolarsi come se si raggomitolasse, immobile, con l’aria di chi considera la veranda, che gli sostiene il corpo, l’unica cosa in cui riporre la propria fiducia. Anche lo sguardo stava cominciando a cambiare a poco a poco: all’inizio in quella sconsolatezza c’era una vaga tranquillità, come se cose lontane si riflettessero in uno sguardo vicino. Quest’ultimo cominciò però a poco a poco a vagare in modo bizzarro. Poi il colore degli occhi si spense progressivamente: mi dava la sensazione che stesse calando il sole, sostituito da un fioco lampo di luce, ma lo lasciai stare. Neanche mia moglie sembrava in pensiero per lui. I bambini naturalmente si erano persino dimenticati della sua esistenza. Una sera si era disteso sul ventre, sul bordo del materasso sopra il quale dormono i bambini; poi levò un grugnito come quelli che spesso emetteva quando gli veniva portato via il pasto. Fui soltanto io ad accorgermi in quel momento di quanto fosse strano: i bambini dormivano tranquilli; mia moglie era completamente immersa in un lavoro di cucito. Poco dopo il gatto grugnì di nuovo. Mia moglie finalmente fermò la mano con l’ago. Io dissi: «Che è successo? Sarebbe grave se i bambini venissero morsi, per esempio in testa, in piena notte!». Mia moglie ricominciò a cucire di nuovo le maniche del juban, rispondendo: «Ma figurati!». Il gatto continuò a grugnire di tanto in tanto. L’indomani, salito sul bordo del focolare, continuò a grugnire per tutta la giornata. Sembrava che trovasse inquietante il fatto che versassimo il tè o prendessimo il bollitore, ma quando scese la sera, sia io che mia moglie ci eravamo completamente dimenticati di lui. Fu proprio quella sera che il gatto morì. Arrivò la mattina e quando la domestica andò a prendere della legna dal deposito nel retro, era già rigido, crollato morto su un vecchio fornello. Mia moglie andò apposta per guardare che aspetto avesse da morto. Dopo di ciò, invece della freddezza che aveva avuto fino ad allora, cominciò improvvisamente ad agitarsi: chiamò il solito portantino del risciò, andò a comprare una targa rettangolare per la tomba e mi chiese di scrivere qualcosa per lui. Sul davanti scrissi «La tomba del gatto» e dietro: «Sotto questa lapide riposa un gatto che ebbe una vita effimera»5. Il portantino del risciò chiese: «Possiamo seppellirlo così com’è?». «Ma andiamo! Non possiamo mica cremarlo!», lo prese in giro la domestica. Anche i bambini cominciarono