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I venticinque Piccoli racconti di un’infinita giornata di primavera apparvero
sull’«Osaka Asahi Shimbun» a partire dal 1909, e vennero riuniti da Sōseki in
questa raccolta nel 1910. A prima vista, non sembra esistere un filo conduttore
che li leghi, tanto sono diversi sia nel contenuto sia nello stile – soprattutto
nelle pagine in cui vengono utilizzate tecniche sperimentali di scrittura.
Ma è proprio il titolo così fortemente evocativo (Eijitsu Shōhin) a contenere
l’elemento unificante. «Eijitsu», la «giornata lunga», non indica soltanto un
giorno in cui il tempo sembra dilatarsi all’infinito, ma evoca anche ciò che
accomuna i protagonisti dei diversi racconti: il desiderio di conservare quella
sensazione di intensa felicità legata a un momento, a un’occasione, a una
stagione, nella speranza che possa non finire mai.
Natsume Sōseki (1867-1916) è uno dei maggiori scrittori giapponesi tra Otto
e Novecento. Nel suo Paese è considerato il «sommo scrittore», colui che ha
posto le basi della lingua giapponese moderna e ha influenzato in modo
significativo la letteratura e il pensiero delle generazioni successive. Tra i
suoi romanzi più conosciuti si ricordano Io sono un gatto, Il signorino e
Guanciale d’erba.
Senza frontiere
In copertina: Il giardino dei prugni di Kameido, 1857, di Utagawa Hiroshige (1797-1858)
Traduzione dal giapponese di Tamayo Muto
Titolo originale: Eijitsu Shōhin
© 2017 Lindau s.r.l.
corso Re Umberto 37 – 10128 Torino
www.lindau.it | lindau@lindau.it
www.facebook.com/Edizioni.Lindau - www.twitter.com/edizionilindau
Prima edizione: aprile 2017
ISBN 978-88-6708-741-9
http://www.lindau.it
mailto:lindau@lindau.it
http://www.facebook.com/Edizioni.Lindau
http://www.twitter.com/edizionilindau
Natsume Sōseki
PICCOLI RACCONTI
DI UN’INFINITA
GIORNATA DI PRIMAVERA
Traduzione di Tamayo Muto
Introduzione
di Tamayo Muto
Nel 2016 è stato celebrato in Giappone il centenario della morte di
Natsume Sōseki, mentre nel 2017 cade il centocinquantesimo anniversario
della sua nascita. Per l’occasione, dall’inizio dell’anno scorso, in Giappone
sono stati trasmessi numerosi programmi televisivi, organizzate svariate
mostre, pubblicati libri a lui dedicati… Sōseki viene considerato in Giappone
un «sommo scrittore», un simbolo per il nostro Paese: è colui che ha gettato le
fondamenta della lingua giapponese moderna e che ha influenzato
significativamente la letteratura e il pensiero delle generazioni successive,
nonostante la sua carriera di scrittore si collochi in una finestra temporale di
soli nove anni. Le sue opere, caratterizzate da minuziose descrizioni
psicologiche e a volte colorite da una vivace vena umoristica, continuano a
essere molto popolari a più di cento anni dalla loro creazione.
Natsume Sōseki nacque in un’importante famiglia il 9 febbraio 1867 a
Edo, l’attuale Tokyo, con il nome di Natsume Kinnosuke. Ultimo di otto figli
(cinque maschi e tre femmine) ebbe un’infanzia molto infelice: a causa sia
dell’età già avanzata dei genitori, sia della progressiva decadenza economica
della famiglia dopo i cambiamenti apportati dalla restaurazione Meiji, a soli
quattro mesi venne affidato a una coppia di antiquari. La sorella maggiore
però, trovandolo per caso dentro un piccolo cesto, insieme alla merce, su una
bancarella di un mercato serale, colta da pietà lo riportò a casa, ma il padre
non lo accolse a braccia aperte e all’età di un anno lo diede in adozione a
Shiobara Shōnosuke e consorte. Sōseki fece di nuovo ritorno alla sua casa
natale dopo otto anni, quando i due genitori adottivi divorziarono; il suo vero
padre lo trattava con indifferenza e Sōseki, estraneo nella sua vera famiglia,
pensava che i genitori fossero in realtà i suoi nonni. Successivamente, anche
quando scoprì la verità, non aprì mai completamente il suo cuore a loro. La
madre morì quando lui aveva quattordici anni. Quest’infanzia infelice
impresse un segno profondo sulla formazione della sua personalità,
rendendolo scorbutico, diffidente verso gli sconosciuti, eccessivamente
scrupoloso e caparbio. Durante la sua vita ebbe diversi esaurimenti nervosi ed
è quasi sicuro che ciò fosse legato ai ricordi dolorosi dell’infanzia.
Nonostante ciò, comunque, fu un gentiluomo capace di grande affetto e pieno
di umanità.
Nel 1884 entrò nella scuola di preparazione per l’università, realizzando
così un suo desiderio; lì incontrò il poeta di haiku Masaoka Shiki, che lo
influenzò significativamente sia da un punto di vista umano che letterario. Fu in
quel periodo che usò per la prima volta il nome d’arte, Sōseki, che trasse da
un aneddoto cinese della dinastia Tang, e che aveva il significato di «una
persona che non sa ammettere i propri errori». Durante questo periodo,
nonostante leggesse molti libri in cinese classico, non si impegnava
particolarmente negli studi e risultava particolarmente debole in inglese: nel
1886 non riuscì a superare l’esame di fine anno, per l’appendicite, e venne
bocciato insieme a Nakamura Yoshikoto. Si rese allora conto dell’importanza
dello studio e cominciò ad applicarsi con diligenza, mantenendosi agli studi
grazie a un lavoro di insegnante in una scuola privata insieme a Nakamura
(quest’episodio è alla base del racconto «Il cambiamento»). Da quel momento
divenne il primo della classe in quasi tutte le materie e l’odiata lingua inglese
divenne il suo punto di forza. Nel 1890, all’età di ventitré anni, entrò
nell’Università Imperiale di Tokyo (l’attuale Università di Tokyo) e si
specializzò in letteratura inglese diventando il migliore studente della facoltà.
In quel periodo, in seguito alla morte ravvicinata di diversi familiari, cadde
vittima di un primo esaurimento nervoso e cominciò a prevalere in lui un
atteggiamento pessimistico.
Nel 1893, dopo essersi laureato, divenne docente di inglese in una scuola
di formazione per insegnanti, ma dopo soli due anni si licenziò a causa di una
sua idea sull’incompatibilità dei giapponesi per lo studio della letteratura
inglese. A questo si aggiunse la tubercolosi, che ebbe l’effetto di farlo
ripiombare in una crisi ancora più grave di esaurimento nervoso; provò a
superarla praticando la meditazione zen presso l’Engakuji, un tempio
buddhista a Kamakura, senza però ottenere grandi risultati.
Con l’intenzione forse di fuggire dal caos di Tokyo, si trasferì a
Matsuyama, nella prefettura di Ehime, e venne assunto come insegnante presso
la Jinjō Chūgakkō (attuale scuola superiore Matsuyama Higashi), che divenne
l’ambientazione del suo romanzo Bocchan (Il signorino). Lì ritrovò Masaoka
Shiki, trasferitosi temporaneamente nella sua città natale, e insieme a lui si
dedicò alla composizione di haiku, lasciando numerosi lavori di pregio.
Nel 1896, dopo essersi trasferito di nuovo e aver iniziato a insegnare nella
Daigo Kōtōgakkō della prefettura di Kumamoto (diventata successivamente
l’Università di Kumamoto), si sposò con la diciottenne Nakane Kyōko, figlia
del primo segretario della Camera dei Pari. Allevata nel lusso, era una ragazza
che usciva dagli stereotipi dell’epoca: aveva un carattere deciso e ostinato, ma
allo stesso tempo aperto e liberale. La loro vita coniugale fin dall’inizio non fu
affatto serena, sia per le crisi depressive del marito, sia per la forte
personalità della moglie, tormentata da attacchi isterici, di cui cominciò a
soffrire a causa del contrasto tra la presente vita matrimoniale e l’infanzia
molto agiata del passato. Durante il terzo anno di matrimonio, depressa a
causa del diverso ambiente nel quale si trovava a vivere e per un recente
aborto, Kyōko tentò il suicidio gettandosi in un fiume. Anche questo episodio
contribuì a minare la stabilità mentale dello scrittore.
Nel 1900, all’età di trentatré anni, il Ministero dell’Educazione gli ordinò
di recarsi in Inghilterra per compiere ricerche sulla lingua inglese; dunque
partì lasciando la moglie incinta e una figlia di un anno. Sōseki si stabilì a
Londra dove, non trovando soddisfacenti le lezioni universitarie, cominciò a
prenderne di private da William James Craig,studioso di Shakespeare.
Continuò poi le sue ricerche da autodidatta, utilizzando i fondi rimanenti per
l’acquisto di libri. Trascorse l’ultimo anno di permanenza in Inghilterra chiuso
nella sua stanza, a leggere avidamente i libri che continuava ad ammassare
nella foga dei suoi studi; tuttavia non riuscì a comprendere l’essenza della
«letteratura straniera» e, perso il senso della sua attività di ricerca, inviò in
bianco una relazione richiesta dal Ministero dell’Educazione,
accompagnandola con un breve messaggio: «Non c’è nulla che io possa
scrivere». In conseguenza dello stress causato dalle differenti abitudini di vita
e dalla solitudine, il malessere che si era già manifestato crebbe
progressivamente, aggravandone lo stato mentale al punto da preoccupare la
padrona della pensione presso cui alloggiava, oltre al Governo giapponese
che era ormai a conoscenza della sua situazione. Gli venne perciò ordinato di
tornare immediatamente in patria.
Cinque anni più tardi, a proposito di quel periodo, nella prefazione del
Bungakuron [Critica sulla Letteratura] scrisse: «I due anni che passai a
Londra furono tra i più sgradevoli della mia vita. Tra i gentlemen inglesi io
vivevo in miseria, come un cane qualunque messo controvoglia a far parte di
un branco di lupi».
Tornato dall’Inghilterra, cominciò a lavorare come professore presso
l’Università Imperiale di Tokyo, ma non veniva apprezzato dagli studenti a
causa dell’eccessiva rigidità nel condurre le lezioni. Oltre a ciò, il suicidio di
un suo alunno causò una nuova ricaduta nella malattia mentale. Gli capitava
anche di diventare violento all’interno delle mura domestiche, ma la moglie
Kyōko, avvertita dal medico che tali eccessi erano causati dalla malattia,
continuò a prendersene cura: sapeva che in realtà lui era una persona dal cuore
tenero e lo amava profondamente. Sōseki da parte sua non smise mai di amare
il carattere spontaneo e spensierato della moglie, riuscendo anche a guardare
con occhio benevolo i suoi vizi e difetti.
Colui che lo aiutò a risollevarsi dalla sua condizione fu Takahama Kyoshi
(che compare nel racconto «Capodanno»), il quale gli consigliò di dedicarsi
alla scrittura per alleviare le sue angosce. Fu così che nacque la sua prima
opera, Wagahai wa Neko dearu (Io sono un gatto): pubblicata nel 1905 sulla
rivista «Hototogisu», diretta da Kyoshi stesso, ottenne un grande successo. A
trentotto anni per Sōseki si avviava così l’attività di scrittore:
contemporaneamente all’insegnamento, si dedicò alla scrittura regalando al
mondo, uno dopo l’altro, capolavori come Bocchan e Kusamakura.
Nel 1907 si dimise da tutti gli incarichi di insegnante e si dedicò
esclusivamente alla scrittura per il quotidiano «Asahi Shimbun». Continuò a
ricevere le visite dei suoi ex allievi o di giovani letterati a lui affezionati; per
riuscire a districarsi tra tutti i suoi impegni, limitò al solo giovedì tali incontri,
occasione nella quale venivano presentate nuove creazioni e opere, o si
discuteva di letteratura. Sōseki non smise di prendersi cura dei suoi allievi: li
aiutava sia a trovare lavoro, sia economicamente, pur non trovandosi egli
stesso in una situazione particolarmente agiata.
Nel 1910, mentre stava scrivendo Mon (La porta), fu colpito da un’ulcera
gastrica: si ritirò a Izu, presso le terme del tempio Shuzen, per curarsi, ma le
sue condizioni peggiorarono rapidamente fino a portarlo in fin di vita. Riuscì
però a sopravvivere e quest’esperienza contribuì sia a influenzare
profondamente la sua produzione letteraria, sia a rinsaldare il rapporto con la
moglie. Continuò a scrivere, pubblicando diversi testi, fino al 1916 quando,
mentre stava lavorando a Meian (Chiaroscuro), fu stroncato dall’ulcera e morì
a soli quarantanove anni.
Eijitsu Shōhin è una raccolta che contiene venticinque piccole opere. Il 1°
gennaio 1909, a circa sei anni dal ritorno dall’Inghilterra, il primo racconto
(«Capodanno») fu pubblicato sui quotidiani «Osaka Asahi Shimbun» e «Tokyo
Asahi Shimbun», ma la raccolta non aveva ricevuto un titolo unitario. I ventitré
successivi furono pubblicati nel corso dei tre mesi seguenti, a intervalli
variabili, mentre l’ultimo apparve, in tre puntate, sul solo «Osaka Asahi
Shimbun». A maggio del 1910 tutti i venticinque racconti furono riuniti sotto il
titolo Eijitsu Shōhin, e pubblicati dalla casa editrice Shun’yōdō insieme ad
altre opere di Sōseki, come Bunchō o Yumejūya.
Commissionatigli dall’«Osaka Asahi Shimbun» stesso, dopo il successo di
Yumejūya, con la richiesta specifica di scrivere brevi novelle dello stesso
genere, da intervallare a opere maggiori, questi racconti non risultarono però
essere né la ripetizione, né la continuazione di Yumejūya: sono diversi fra loro
sia nel contenuto, sia nello stile. Si potrebbe dire che siano alternati in vario
modo: racconti di tipo saggistico che descrivono la vita quotidiana di Sōseki;
altri che rievocano le esperienze vissute durante il periodo di studio in
Inghilterra o in gioventù, e infine quelli che si dovrebbero chiamare «novelle»,
nei quali vengono utilizzate molte tecniche sperimentali di scrittura. Il
professor Haga Tōru, docente di letteratura comparata presso il Kokusai
Nihon Bunka Kenkyū Sentā (Centro di ricerca internazionale sulla cultura
giapponese), definisce Eijitsu Shōhin come il «laboratorio di sperimentazione
di Sōseki», poiché in esso, rispetto alle opere precedenti, egli tenta
un’ulteriore varia e vasta espansione della sua immaginazione poetica. Inoltre
«attraverso questi numerosi piccoli racconti, sogno e realtà, passato e presente
si compenetrano reciprocamente senza delineare una divisione; al loro interno
viene creata ingegnosamente un’atmosfera surreale e intensa»1.
Come mai allora queste venticinque piccole opere sono state raggruppate
sotto il titolo di Eijitsu Shōhin? Il professor Sasaki Mitsuru, docente
dell’Università di Chiba, nella sua relazione Sōseki no Eijitsu Kankaku
analizza il termine Eijitsu nella letteratura classica cinese e negli haiku2.
Shōhin significa «piccole opere», mentre originariamente Eijitsu è un termine
cinese antico: significa «giornata lunga» e racchiude il concetto di una giornata
di primavera sulla quale non tramonta il sole. Indica una giornata che, di per
sé, rallenta nello scorrere del tempo. Pare che però vi sia anche un’altra
nuance: la volontà o il desiderio da parte dell’essere umano che il tempo
rallenti in modo che una giornata meravigliosa non finisca mai. Quindi non è il
tempo ad allungarsi autonomamente, ma è anche l’uomo che intenzionalmente
lo fa rallentare. Infatti, nella poesia cinese classica, il termine Eijitsu si trova
anche utilizzato in connessione all’autunno: questo dimostra che
originariamente poteva essere anche un’espressione del desiderio che
racchiude il significato di «Sia eterna la gioia di oggi», indipendentemente
dalla stagione di riferimento specifico.
Il professor Sasaki analizza inoltre il significato del termine Eijitsu in
Giappone. Negli haiku esiste il «kigo», una parola che deve essere presente e
che indica una stagione. Eijitsu, nel suo significato di «giornata lunga»,
dovrebbe riferirsi (da un punto di vista scientifico) proprio al solstizio
d’estate, ovvero al 21 giugno, ma nel mondo degli haiku è riferito alla
primavera. Come mai? Secondo il poeta di Haiku e amico di Sōseki, Masaoka
Shiki, il fatto che Eijitsu appartenga alla primavera è dovuto al «sentimento»
di noi giapponesi. È un «sentimento» che ha portato il nostro cuore a riportare
Eijitsu dall’estate alla primavera, nonostante fosse più appropriato per il
solstizio; non è altro che il sentimento con cui attendiamo con impazienza
l’arrivo delle calde giornate di primavera.
Il professor Sasaki ha cercato altri esempi dell’uso del termine Eijitsu
nella poesia giapponese e pare che in Giappone non venga quasi mai utilizzato
nell’accezione di rallentare volontariamente il corso del tempo.
Sōseki aveva una grande conoscenza della poesia cinese classica e degli
haiku: pur sapendo che Eijitsu è un «termine di primavera»,lo utilizza
indipendentemente dalla stagione, infrangendo senza timore la regola del
mondo degli haiku. Il professor Sasaki suppone quindi che la sensazione di
Eijitsu, in Eijitsu Shōhin, racchiuda sia il significato di ansiosa attesa per i
caldi giorni di primavera, sia il desiderio di dilatare la durata delle giornate.
Ciò che costituisce il nesso fra i venticinque racconti è questa sensazione
di Eijitsu di Sōseki. Dice Sasaki:
Comincia senza un particolare segno di inizio e cambia uno dopo l’altro gli argomenti;
racconto dopo racconto si estendono davanti a noi panorami inaspettati; ci protendiamo
in avanti istintivamente, colti di sorpresa da argomenti imprevisti. Tutto ciò ricorda il
modo che hanno gli anziani di raccontare senza pausa le storie racchiuse nei loro cuori,
così come vengono fuori senza un ordine definito, in una lunga giornata di primavera.
Non esistendoci un particolare filo conduttore tra un racconto e il successivo, il tempo
viene allungato e trascorre lentamente.
A partire da Io sono un gatto, tutte le opere più significative di Natsume
Sōseki sono state tradotte in svariate lingue, compreso l’italiano; Eijitsu
Shōhin invece è stato pubblicato in poche altre lingue, probabilmente a causa
della sua difficoltà di traduzione. Il professor Haga Tōru ha spiegato la
difficoltà di renderlo in inglese prendendo come esempio uno dei venticinque
racconti, «Mukashi» («I tempi antichi»)3:
Può darsi che il Sōseki di quel periodo stesse scrivendo tenendo in considerazione la
costruzione delle frasi nella lingua inglese. D’altra parte però, pur essendo la
costruzione simile a quella inglese, sembra che ogni vocabolo, ogni immagine si
rifiutino di essere sostituiti in tale lingua. Tuttavia non si tratta di letteratura giapponese
pura e, nonostante accenni a diverse immagini della poesia cinese classica, non la si
può nemmeno ricondurre a quest’ultima. Il fatto che non sia nessuna di queste, pur
avendone gli elementi, è il motivo di questa misteriosità meravigliosa.
Per la traduzione di quest’opera si è cercato di analizzare dettagliatamente
il background letterario e storico, basandosi su vari documenti, per
interpretare nel modo più preciso possibile il testo originale, ponendo una
minuziosa attenzione alla scelta dei termini ed espressioni della lingua italiana
più appropriati. Senza l’ambizione di essere riusciti a ricostruire
perfettamente il raffinato testo di Sōseki, si spera che anche i lettori italiani,
attraverso questa traduzione, possano smarrirsi nel mondo surreale creato
dall’Autore e gustare almeno un po’ la «sensazione di Eijitsu».
Marzo 2017
1 Sōseki no jikken kōbō - «Eijitsu Shōhin» Ippen no yomi no kokoromi, nella rivista
«Nihon kenkyū», pubblicato da Kokusai Nihon Bunka Kenkyū Sentā, 1997.
2 Sulla rivista «Kokugo Kobubun Kenkyū», pubblicata dalla Hokkaidō Daigaku
Kokubungakukai nel marzo 1987.
3 Sulla rivista «Sōseki Kenkyū» n. 1 pubblicato dalla Kanrin Shobō, 1993.
PICCOLI RACCONTI
DI UN’INFINITA GIORNATA
DI PRIMAVERA
1
Capodanno
Dopo aver mangiato lo zōni1, mi ritirai nello studio. Poco dopo ecco
arrivare tre o quattro persone, tutti ragazzi giovani2. Tra essi uno indossa un
frac. Non so, sarà perché non è abituato ad averlo addosso, ma tende a
nascondersi dietro al melton3 del suo stesso vestito. Tutti gli altri indossano un
abito giapponese e per di più quello di tutti i giorni: non sembra proprio
Capodanno. Questa combriccola osservò «il Frac» e ciascuno di essi emise un
«Oh!», prova dello stupore di tutti. Per ultimo anch’io dissi «Oh!».
Il Frac tirò fuori un fazzoletto bianco e senza motivo si asciugò il viso,
dopo di che continuò a bere ripetutamente del toso4. Anche gli altri si
servivano abbondantemente dai piatti sul tavolo. Proprio in quel momento
arrivò Kyoshi5 con il risciò. Egli indossava un haori6 nero abbinato a un
montsuki7 sempre nero: sta assai bene con qualcosa di stile molto tradizionale.
Gli chiesi: «Ha un montsuki nero. Ne ha bisogno, immagino, perché fa teatro
Nō?». Kyoshi rispose: «Sì, è così» e cominciò a chiedermi se avessi voglia di
cantare qualcosa. Risposi: «Per me va bene».
Così cantammo insieme una canzone chiamata Tōboku8. Fui molto
impreciso qua e là dato che, da quando l’avevo imparata molto tempo fa, non
l’avevo quasi mai ripassata. Mi resi conto inoltre che avevo una voce esitante.
Quando finalmente finii di cantare, quella combriccola di giovani che
ascoltava cominciò a dire, come se si fossero messi d’accordo, che come
cantante ero scadente. Soprattutto il Frac disse: «La sua voce è esile». Questi
sono di quelli che in fondo non hanno la minima idea di cosa sia il canto.
Pensavo perciò che non avrebbero colto assolutamente la differenza di bravura
fra Kyoshi e me; quando però subii le loro critiche mi resi conto che,
nonostante fossero degli incompetenti, le loro affermazioni sono
completamente logiche. Non ebbi nemmeno il coraggio di rispondere: «Non
dite sciocchezze!».
Kyoshi allora cominciò a raccontare che in questi anni stava imparando a
suonare lo tsuzumi9. La combriccola, che non sapeva nulla di canto, gli chiese:
«Perché non suona qualcosa! Ci faccia assolutamente sentire!». Kyoshi mi
chiese: «Allora canta lei, per piacere?». Questo era scocciante per me che non
conoscevo bene l’accompagnamento musicale, ma nello stesso tempo ero
intrigato dalla novità. Così accettai dicendo: «Canterò!». Kyoshi mandò il
portantino del risciò a prendere lo tsuzumi. Quando arrivò, fece portare dalla
cucina uno shichirin10 e cominciò ad affumicare la pelle del piccolo tamburo
sopra il fuoco intenso prodotto dal carbone. Tutti guardavano sorpresi e
anch’io rimasi stupito dal modo esagerato con cui lo strumento veniva esposto
al fumo. Quando gli chiesi: «Va tutto bene?», diede un colpetto con la punta
delle dita alla pelle ben tesa – ton – mentre rispondeva «Sì, non si
preoccupi!»; il suono che ne scaturì non era male. Lo tolse da sopra lo
shichirin dicendo «Mi pare già pronto». Si mise poi a tirare la corda dello
tsuzumi. Non so perché, ma trovai elegante la scena di un uomo che,
indossando un montsuki, maneggiava quella corda rossa. Tutti questa volta lo
guardavano con ammirazione.
Subito dopo Kyoshi si tolse l’haori e imbracciò lo tsuzumi. Io però gli
chiesi di aspettare un attimo per potermi mettere d’accordo con lui, soprattutto
perché non avevo idea di quando lo avrebbe suonato. Kyoshi me lo spiegò
cortesemente dicendo: «In questo punto scandisco a gran voce il tempo alcune
volte… Qui batto lo tsuzumi in un certo modo… Forza ci provi». Non mi è
assolutamente chiaro; tuttavia se continuassi a chiedere approfondimenti fino
ad aver capito tutto, ci vorrebbero almeno due o tre ore. Non potei fare altro
che acconsentire senza aver compreso bene. Cominciai così a cantare un brano
di Hagoromo11. Mentre mi avvicinavo alla metà del verso «La nebbia di
primavera si estende…», iniziai a pentirmi di essere partito in modo non
brillante. La mia voce era assai flebile, ma pensai anche che, se ci avessi
messo più energia all’improvviso, da lì in avanti, avrei compromesso
l’equilibrio di tutta l’esecuzione. Continuai quindi spingendo un pochino di più
la voce, che restava pur sempre fioca ed esitante. Fu allora che Kyoshi,
all’improvviso, scandì il tempo con un grido fortissimo e batté energicamente
sullo tsuzumi una volta – TON.
Non mi aspettavo minimamente che entrasse in modo così violento. Il
kakegoe12, che originariamente pensavo fosse solo qualcosa di elegante e
tranquillo, fece sussultare il mio timpano come se fosse stato quello di un vero
duello di spada: il mio canto vacillò due o tre volte a causa di questo grido.
Quando finalmente il canto stava per tornare calmo, Kyoshi mi spaventò di
nuovo, da di fianco, con tutta l’energia del suo ventre. Ogni volta che viene
spaventata, la mia voce vacilla… poi diventa piccola. Poco dopo coloro che
ascoltavano cominciarono a ridere sommessamente. Anch’io cominciai a
pensare dentro di me che tutto ciò fosse ridicolo. In quell’istante il Frac
scoppiò per primo a ridere; questomi contagiò e anch’io esplosi in una risata
insieme a lui.
Una volta terminato, ricevetti pesanti critiche, e quelle di Frac furono le
più sarcastiche. Con un sorriso sulle labbra Kyoshi non poté far altro che
concludere in modo eccellente e con eleganza il brano, accompagnando il
proprio canto con lo tsuzumi. Poco dopo se ne andò sul risciò dicendo di aver
ancora delle visite da fare.
In seguito fui ancora deriso in vari modi dai giovani. Persino mia moglie,
dopo aver criticato il proprio marito, lodava Kyoshi dicendo: «Quando il
signor Takahama suonava lo tsuzumi, si vedevano ondeggiare le maniche del
suo juban13 e il loro colore era molto bello!». Il Frac condivise
immediatamente quest’affermazione.
Io non trovo per niente bello né il colore dello juban di Kyoshi, né il fatto
che esso ondeggiasse.
1 Zuppetta a base di verdure, contenente vari ingredienti, con palline fatte di pasta di riso,
cotto al vapore e pestato. Viene servita soprattutto durante le feste di Capodanno.
2 Sono allievi di Sōseki.
3 Tessuto liscio di lana inglese.
4 Sake che si beve a Capodanno.
5 Takahama Kyoshi (1874-1959), poeta di haiku e romanziere, editore della rivista letteraria
«Hototogisu». Amico di Sōseki, gli fornì un grande aiuto, quando al ritorno da Londra si
trovava in una situazione di instabilità emotiva, consigliandogli di dedicarsi alla scrittura per
distrarsi e rilassarsi e fornendogli così lo stimolo in direzione della sua fortunata carriera.
6 Sorta di giacca ampia e corta da indossare sopra il kimono.
7 Kimono con lo stemma di famiglia, indossato nelle cerimonie.
8 Canto del teatro Nō che narra di un monaco buddhista di un paese a est che si recò nella
capitale Kyō. Mentre recitava dei sutra ad alta voce, sotto il famoso prugno Nokiba no Ume,
nel tempio buddhista Tōbokuin, comparve il fantasma di Izumi Shikibu (poetessa giapponese
del Periodo Heian), che raccontò la sua storia e poi danzò.
9 Piccolo tamburo che viene suonato tenendolo con un braccio.
10 Fornelletto portatile in terracotta, alimentato a carbone.
11 Il brano principale del canto di Hagoromo (Manto di piume): storia di un angelo donna
che aveva perso il suo manto. Il pescatore che lo aveva trovato, all’inizio non voleva
restituirlo, pensando di tenerlo come un tesoro di famiglia. Poi però, commosso dalla
visione dell’angelo che lo pregava di restituirglielo, accettò di farlo in cambio di una danza
della donna-angelo.
12 Grido che viene usato per scandire il tempo nelle canzoni, nelle arti marziali o in
occasione di sforzi particolarmente intensi.
13 Indumento che si indossa sotto il kimono.
2
Il serpente
Quando uscii fuori aprendo la porta di legno, dentro le grosse impronte
degli zoccoli di un cavallo stagnava una grande quantità di pioggia.
Calpestavo la terra e il rumore del fango aggrediva il fondo dei miei piedi; mi
sembrava quasi di sentire dolore nel sollevare il tallone. A causa del secchio
appeso alla mano destra facevo fatica a tirare fuori e riaffondare i piedi nel
fango; ogni volta che piantavo i piedi per terra cercando di non cadere, mi
veniva voglia di gettare via ciò che avevo in mano per ritrovare l’equilibrio.
Alla fine, finii per appoggiare il fondo del secchio sul letto di fango. Mentre
rischiando di cadere mi aggrappai al suo manico, guardai davanti a me e vidi
lo zio a circa due metri di distanza; da dietro la sua spalla, sulla cappa di
paglia che indossava, pendeva il fondo di una rete da pesca steso a triangolo.
In quell’istante il suo copricapo si mosse lievemente e mi sembrò di sentire
provenire dal suo interno: «Che strada terribile!». L’ombra della sua cappa
venne spazzata dalla pioggia.
In piedi sul ponte di pietra, vedo venire l’acqua nera mentre acquista forza
passando tra i ciuffi di erbe. Di solito è un corso d’acqua bello a vedersi, che
non sale oltre i dieci centimetri sopra la caviglia, e sul suo fondo ondeggiano
dolcemente lunghe alghe; ma oggi è torbido. Il fango sgorga dal fondo mentre
la pioggia picchia da sopra, i vortici lo attraversano al centro, accavallandosi
l’uno sull’altro. Lo zio, che li stava osservando da un po’ di tempo, disse tra le
labbra: «Ce la faccio a catturarlo!».
Attraversammo il ponte e deviammo subito a sinistra. I vortici si
allungavano serpeggiando dentro la verde risaia. Continuammo per più di
cento metri inseguendo la corrente senza sapere fin dove si spingesse e ci
fermammo in piedi, malinconicamente noi due soltanto, in mezzo alla vasta
risaia; non si vedeva altro che pioggia. Lo zio da sotto il suo copricapo volse
lo sguardo verso il cielo: era sigillato nella sua oscurità come il coperchio di
un vaso per il tè. Da spazi indefiniti cade fitta la pioggia; stando in piedi,
sentiamo il suo rumore scrosciante: della pioggia che percuote il copricapo e
la cappa che indossiamo, di quella che colpisce la risaia in tutte le direzioni.
Sembra mescolarsi al rumore dell’acqua che cade sulla foresta di Kiō1 laggiù,
e che con essa arrivi da lontano.
Sopra la foresta, le nuvole nere si ammassano penetrando una dentro
l’altra, richiamate dalle cime delle criptomerie2. Scendono a poco a poco
ciondolando per il peso. I loro piedi si avvinghiano alla cima delle piante.
Sembra che, a momenti, stiano per cadere dentro la foresta stessa.
Tornando in me, guardo ai miei piedi e mi accorgo che i vortici arrivano
dai pressi della sorgente, forse generati dall’acqua del laghetto dietro il
tempio di Kiō, assalito da quelle nuvole. All’improvviso la forma dei vortici
sembra invigorirsi. Lo zio, osservandoli di nuovo, disse: «Ce la faccio a
catturarlo», come se avesse già preso qualcosa. Entrò poi dentro l’acqua senza
togliersi la cappa. Nonostante la sua terribile forza, l’acqua non è così
profonda e gli arriva solo fino all’anca. Lo zio si sistemò al centro del fiume,
di fronte alla foresta di Kiō, e adagiò la rete che portava sulla spalla verso
l’origine della corrente.
Immobili sotto lo scrosciare della pioggia osservavamo l’aspetto dei
vortici che si spingevano dritti verso di noi, sicuri che i pesci passassero sotto
di essi, trascinati dalle acque del laghetto di Kiō. Senza pensare ad altro
guardavamo il terribile colore di quell’acqua, pensando di riuscire a catturare
una grossa preda se fosse rimasta ben incastrata fra le maglie della rete.
L’acqua, fangosa fin dall’inizio, lascia intravedere soltanto la superficie in
movimento, ma è assolutamente impossibile capire cosa scorra realmente sotto
di essa. Aspettavo con lo sguardo fisso che si muovesse il polso dello zio,
immerso sotto la superficie dell’acqua, ma esso non voleva saperne di
muoversi. La pioggia che cade diventa sempre più nera; il colore del fiume
diventa a poco a poco pesante. Le forme create dai vortici girano
impetuosamente scendendo dalla sorgente. In quel momento, dentro un’onda
scura che stava passando con veemenza davanti ai miei occhi, apparve per un
istante un disegno di un colore diverso. Quel disegno fu illuminato per un
secondo e mi diede la sensazione di qualcosa di lungo: pensai che fosse
un’anguilla gigantesca.
Improvvisamente, il polso destro dello zio stretto intorno all’impugnatura
della rete contro corrente si mosse, come se balzasse da sotto la cappa fin
sopra la spalla: qualcosa di lungo si staccò dalla sua mano e, disegnando una
traiettoria curva come una corda pesante, sotto una pioggia buia e battente,
cadde laggiù sull’argine. Subito dopo alzò lentamente la testa di circa trenta
centimetri sopra le erbe e, senza muoversi, ci guardò con aria minacciosa.
«Ricordati che me la pagherai cara!».
La voce era indubbiamente quella dello zio. Nello stesso momento, la testa
scomparve tra le erbe. Lo zio, pallido in volto, guardava il punto in cui aveva
lanciato il serpente.
«Zio, sei stato tu a dire ora “ricordati che me la pagherai cara”?».
Egli finalmente si girò verso di me e rispose a voce bassa: «Non so bene
chi sia stato…».
Ancora oggi, ogni volta che parlo allo zio di quest’evento, risponde: «Non
so bene chi sia stato…» e assume una strana espressione.
1 L’Autore si riferisceal tempio di Inari Kiō, nell’attuale circoscrizione di Shinjuku di
Tokyo, vicino alla casa della famiglia Shiobara che aveva adottato Sōseki da bambino.
2 Pianta sempreverde della famiglia delle Cupressaceae, originaria dell’Asia, di aspetto
simile alle nostre conifere. Può raggiungere i 40 metri di altezza.
3
Il ladro
Quando uscii per andare nella camera accanto, pensando di andare a
dormire, sentii l’odore del kotatsu1. Di ritorno dal bagno raccomandai a mia
moglie di stare attenta al fuoco poiché mi sembrava troppo forte, dopo di che
mi ritirai nella mia stanza. Erano già le ventitré passate. Dentro il letto i sogni
furono sereni come al solito. Nonostante facesse freddo, non soffiava il vento
e non sentii neanche il suono della campana d’allarme2. Come se avessi perso
i sensi, caddi di colpo in un sonno talmente profondo che persi la cognizione
del tempo.
Poi, all’improvviso, mi svegliò una voce femminile gemente. Ascoltando
bene, mi resi conto che si trattava della voce della nostra domestica, di nome
Moyo, che, ogni volta che si agitava per uno spavento, assumeva una voce
gemente. L’altro giorno, mentre faceva fare il bagnetto al nostro bimbo, le uscì
quella voce gemente per circa cinque minuti, mentre riferiva che il vapore
aveva fatto venire il capogiro al bambino, provocandogli un attacco di
convulsioni. Quella fu la prima volta che sentii questa sua voce insolita, che la
portava a parlare concitatamente tra i singhiozzi. È la voce di una donna che si
lamenta… che ripete con insistenza… che si profonde in scuse… che è
addolorata per la morte del proprio uomo…, insomma, non è proprio il tono di
un’esclamazione acuta e breve che scaturisce nel caso di uno spavento.
Come stavo dicendo, mi svegliai a causa di questa voce strana: arrivava
senza dubbio dalla stanza accanto a quella in cui dormiva mia moglie. In
quell’istante, improvvisamente, un bagliore rosso penetrò nello studio buio
attraverso il fusuma3. Non appena questa luce raggiunse le mie palpebre che si
stavano aprendo, saltai fuori dal letto, convinto che ci fosse un incendio e
spalancai di colpo il fusuma che separava le stanze, facendo un gran fracasso.
In quel momento immaginai il kotatsu rovesciato, il futon4 carbonizzato, la
stanza piena di fumo, il tatami che bruciava. Tuttavia, quando aprii la porta, il
lume era acceso come al solito; come al solito mia moglie e i bambini
dormivano; il kotatsu era in ordine come la sera prima. Tutto era come lo
avevo lasciato prima di andare a dormire, tranquillo e caloroso; solo la
domestica piangeva.
Raccontava concitata qualcosa mentre sembrava premere con le mani il
bordo del futon di mia moglie; questa si svegliò, ma non faceva altro che
sbattere le palpebre senza dare segno di volersi alzare. Non riuscendo a capire
quasi nulla dell’accaduto, osservai la stanza con uno sguardo assente, restando
impalato accanto alla soglia. Tutt’un tratto, tra i gemiti della domestica,
emerse una parola: «ladro». Non appena la sentii, come se tutto si fosse
chiarito nella mia mente, attraversai subito la stanza a grandi passi e,
irrompendo all’improvviso in quella accanto, urlai: «Chi è là?». Tuttavia la
stanza in cui sbucai era completamente buia; un’imposta scorrevole della
cucina adiacente a essa era staccata e la splendida luce della luna penetrava
fino all’ingresso della camera. Ebbi un involontario brivido di freddo
guardando il chiarore della luna che, nel cuore della notte, entrava con la sua
luce nella parte più profonda della casa dell’uomo. Andai a guardare fino
all’acquaio della cucina, uscendo a piedi nudi sul pavimento di legno, ma
intorno a me tutto era immerso in un silenzio assoluto. Sbirciai fuori dalla
facciata, ma non c’era altro che la luna. Non mi venne di fare neanche un passo
fuori della porta.
Tornai quindi indietro, andando da mia moglie e le dissi: «Il ladro è
scappato: stai tranquilla. Non è stato rubato nulla». Mia moglie si era
finalmente alzata. Senza dire nulla, andò fino alla stanza buia con un lume in
mano e lo mise davanti all’armadio: le due ante erano staccate, i cassetti erano
rimasti aperti. Mia moglie mi guardò in faccia e disse: «Come immaginavo,
siamo stati derubati!». Anch’io mi resi conto finalmente che il ladro era
fuggito dopo aver rubato. Non so perché, ma improvvisamente cominciai a
pensare che tutto fosse assurdo. Guardai da una parte e vidi per terra il futon
della domestica che era venuta a svegliare mia moglie piangendo. Di fianco al
guanciale c’era un altro armadio, e sopra di esso si trovava ancora una
cassettiera. Mi disse che al suo interno, visto che era la fine dell’anno, c’erano
i soldi per saldare la parcella del medico e altre cose. Feci controllare da mia
moglie che assicurò che lì non era stato toccato nulla. Può anche darsi che il
ladro fosse stato costretto a scappare a metà dell’opera, perché la domestica
era spuntata fuori della veranda piangendo.
Di lì a poco anche tutti coloro che dormivano nelle altre stanze si alzarono
e arrivarono; i commenti erano i più vari: «E pensare che mi sono alzato per
fare la pipì un attimo prima», «Questa sera non avevo sonno e non sono
riuscito ad addormentarmi fino alle due di notte circa»… Avevano tutti un’aria
dispiaciuta. Tra loro la mia figlia maggiore, di dieci anni, disse di essersi
perfettamente accorta che un ladro era entrato dalla cucina e che, camminando
per la veranda, faceva scricchiolare il pavimento. «Oh mio Dio!», disse
spaventata la signorina Ofusa: ha diciotto anni, è una parente e dorme nella
stessa stanza di mia figlia.
Io tornai a letto e mi riaddormentai.
A causa di tutto questo trambusto, il giorno dopo mi alzai un po’ più tardi
del solito. Mentre facevo colazione, dopo essermi lavato la faccia, in cucina la
domestica tutta agitata diceva di aver trovato delle impronte che sarebbero
potute appartenere al ladro. Ciò era seccante e mi ritirai nello studio. Erano
passati forse dieci minuti, quando sentii una voce chiedere: «Permesso?». Era
una voce forte e decisa. Poiché mi sembrava che nessuno gli rispondesse dalla
cucina, uscii io stesso e trovai un poliziotto davanti all’ingresso.
Disse sorridendo: «Ho sentito che è entrato un ladro».
Poiché mi chiese: «Avevate chiuso bene tutto a chiave?», io risposi: «No,
probabilmente non avevamo chiuso tutto bene».
«Allora c’è poco da fare. Se è chiuso male, possono entrare da qualunque
punto della casa. Dovrebbe inchiodare tutte le imposte scorrevoli che non si
possono chiudere bene», mi consigliò. Non potei che rispondere: «Sì, certo».
Da quando avevo incontrato questo poliziotto, ebbi la sensazione che il
vero responsabile del furto non fosse il ladro, ma il padrone della casa che era
stato imprudente.
Il poliziotto passò dalla cucina e lì fermò mia moglie per prendere nota
degli oggetti scomparsi su un taccuino: «Un maruobi5 di satin, giusto?… Che
cos’è il maruobi? Si capisce se scrivo maruobi, vero? Ah sì, allora, un
maruobi di satin e poi…».
Sul viso della domestica compare un sorriso ironico. Questo poliziotto non
sapeva assolutamente cosa siano né un maruobi né un haraawase6. È un vero
sempliciotto e fa ridere. In breve tempo finì di scrivere la lista contenente
circa dieci oggetti scomparsi, per ognuno dei quali indicò il valore; poi se ne
andò, chiedendo per conferma: «Allora, in totale sono centocinquanta yen,
giusto?».
Solo in quel momento seppi chiaramente che cosa ci era stato rubato. Gli
oggetti scomparsi erano dieci, solamente cinture: quello che era entrato ieri
sera era il ladro delle cinture. Nell’imminenza di Capodanno, mia moglie ha
una faccia strana: dice che le bambine non potranno indossare il kimono bello
neanche nei primi tre giorni del nuovo anno. Pazienza, non ci si può far
niente…
Nel primo pomeriggio arrivò un agente: entrò nella stanza con il tatami e
guardò diverse cose. Controllò persino un piccolo secchio che era in cucina,
dicendo che il ladro potrebbe aver fatto il suo lavoro mettendo al suo interno,
per esempio, una candela. Dicendogli «Venga a bere un tè», lo feci
accomodare nelsoggiorno dove penetrava un piacevole sole e parlammo.
Mi raccontò che i ladri vengono normalmente dalle zone intorno a Shitaya
e Asakusa7 con il treno e che, la mattina del giorno seguente, ritornano di
nuovo con il treno. Di solito non vengono catturati. Dice infatti che, se li
arrestassero, il poliziotto ne avrebbe una perdita poiché, accompagnandoli sul
treno, si dovrebbe far carico del biglietto. Se fossero portati in tribunale, ci
rimetterebbe i soldi del pasto. Pare che la Questura di Tokyo si prenda metà
dei fondi segreti e assegni il resto a ogni commissariato. Pare ci siano soltanto
tre o quattro agenti a Ushigome8… Io, che credevo che la polizia riuscisse a
fare quasi tutto con la sua autorità, mi sentii molto insicuro. Anche l’agente che
me lo raccontava aveva un’espressione scoraggiata.
Pensavo di far controllare le serrature di casa, ma sfortunatamente la
persona che lo fa di solito non poté venire, a causa dei molti impegni del
periodo di fine anno. Intanto arrivò la sera; non mi rimase che andare a
dormire lasciandole così com’erano. Sembrava che tutti avessero una
sensazione sinistra. Anch’io non mi sentivo affatto sereno perché era come se
la polizia avesse dichiarato con me che ognuno deve gestire il problema dei
ladri per conto proprio. Ciononostante andai a dormire con il cuore tranquillo,
pensando che, visto che era accaduto solo il giorno prima, saremmo stati
probabilmente al sicuro. Invece fui di nuovo svegliato da mia moglie in piena
notte: «È da un po’ che si sente un rumore come di qualcosa che si muove dalla
parte della cucina. Per favore, alzati e vai a guardare perché mi fa venire i
brividi», disse. In effetti si sente qualcosa di simile. Mia moglie ha già la
faccia di chi si aspetta che sia un ladro.
Uscii dal letto senza far rumore. Quando arrivai vicino al fusuma che
separa le due camere, attraversando quella di mia moglie con passo felpato,
sentii la domestica che stava russando nella stanza accanto. Aprii facendo
meno rumore possibile e stetti in piedi nella camera completamente buia. Si
sentì un tonfo sordo che proveniva senza dubbio dall’ingresso della cucina. Mi
avvicinai, come un’ombra che si muove nel buio, facendo circa tre passi verso
l’origine del rumore e mi trovai già all’uscita della camera. C’è uno shōji9. Al
di là inizia subito il pavimento di legno. Mi accostai allo shōji e tesi
l’orecchio nel buio: si udì un altro tonfo sordo. Poco dopo un altro. Sentii
questo rumore sospetto circa quattro o cinque volte. Dopo aver verificato che
proveniva senza dubbio dal fondo della credenza che si trovava sulla parte
sinistra del pavimento di legno, ritornai subito nella stanza di mia moglie con
passi e un’andatura normali. Quando dissi: «È solo un topo che sta
rosicchiando qualcosa. Sta’ tranquilla!», mia moglie mi rispose sollevata:
«Oh, davvero?», dopo di che tutti e due ci addormentammo serenamente.
Si fece giorno e, quando arrivai nel soggiorno dopo essermi lavato la
faccia, mia moglie, portando davanti al tavolo un katsuobushi10 rosicchiato da
un topo, mi spiegò: «Ecco cos’era ieri sera». Dissi: «Ah, ecco!», mentre
osservavo il katsuobushi orribilmente aggredito per tutta la notte. Allora mia
moglie con un certo malcontento disse: «Già che eri lì, potevi dare la caccia al
topo e mettere al sicuro il tonno secco». Solo in quel momento anch’io mi resi
conto che avrei dovuto fare così.
1 Telaio in legno di un basso tavolino, al quale viene agganciata una pesante coperta o futon
che va a ricoprire le gambe di chi si siede attorno al tavolo. Viene utilizzata in inverno per
riscaldarsi, posizionando una fonte di calore (originariamente un contenitore con braci,
attualmente una resistenza elettrica) sotto il tavolo stesso.
2 L’Autore fa riferimento alla campana di allarme antincendio che spesso, nelle giornate
invernali, viene mossa dal vento.
3 Porte scorrevoli costituite da un’intelaiatura di legno ricoperta da carta o stoffa incollata,
poggiate su binari in legno, fra stanza e stanza o per chiudere armadi a muro.
4 Materasso e trapunta tradizionali giapponesi che vengono distesi per terra per andare a
dormire.
5 Tipo di lussuosa cintura larga da donna, fatta piegando e cucendo per lungo un telo di
stoffa.
6 Cintura da donna utilizzata, chiamata anche «cintura da giorno e notte», fatta cucendo due
tipi di stoffe diverse per formare la parte frontale e il retro.
7 Quartieri popolari di Tokyo.
8 Circoscrizione dove abitava l’Autore; attualmente è la zona nord-est di Shinjuku.
9 Porta scorrevole costituita da un’intelaiatura di legno rivestita da un lato solo da carta
bianca traslucida.
10 Tonno essiccato che viene di solito usato tagliandolo a scaglie sottilissime.
4
Il caco
C’è un bambino che si chiama Kii-chan1. Ha la pelle liscia e gli occhi
brillanti, ma il colore delle sue guance non è vivace come quello dei bambini
normali, che crescono in salute. Se lo si guarda un attimo, si ha l’impressione
che tutto il viso sia leggermente giallino. Accadde che la nostra abituale
pettinatrice, una volta, commentò la cosa, dicendo che era colpa della madre,
poiché era troppo protettiva e non lo faceva mai uscire fuori a giocare. La
mamma è una donna che, in un’epoca come questa nella quale vanno di moda i
capelli all’occidentale, si rifà l’acconciatura rigorosamente ogni quattro giorni
portando i capelli raccolti alla maniera tradizionale giapponese e chiama in
qualunque momento il proprio figlio con chan: «Kii-chan, Kii-chan». Oltre a
lei, c’è anche una nonna che porta il kirisage2 e anche essa lo chiama «Kii-
chan, Kii-chan». Dice: «Kii-chan, è ora di andare alla lezione di koto3… Kii-
chan, non devi uscire fuori avventatamente a giocare con i bambini del
vicinato» o cose del genere.
Per questo motivo, Kii-chan raramente usciva di casa per giocare. Bisogna
ammettere però che il vicinato non è di alto livello: davanti c’è un negozio di
shio sembei4; subito accanto c’è un artigiano delle tegole. Un po’ più avanti ce
n’è uno che mette i rigoletti ai geta5 e uno stagnino che ripara utensili di
metallo e serrature. Il padre di Kii-chan invece è un funzionario di banca.
All’interno della recinzione della casa sono piantati dei pini; quando arriva
l’inverno, viene un giardiniere e se ne va dopo aver ricoperto tutto il piccolo
giardino di aghi secchi di pino.
A Kii-chan, quando si annoia dopo la scuola, non rimane che uscire sul
retro della casa per giocare. È il posto dove la mamma o la nonna fanno
harimono6, dove Yoshi7 fa il bucato, dove a fine anno un uomo con un
hachimaki8 annodato davanti arriva portando sulle spalle un mortaio con cui
pesta i mochi9; è anche dove si cospargono di sale le verdure per metterle via
nei barili.
Kii-chan viene qui e gioca con la mamma, con la nonna, con Yoshi…
Qualche volta capita anche che esca fuori da solo nonostante non ci sia
nessuno con cui giocare. In quelle occasioni, spesso sbircia curioso, attraverso
il varco tra le sottili siepi, la fila di case sotto un unico tetto che si trova sul
retro.
Ce ne sono cinque o sei. Visto che tra i due lati della siepe c’è un
dislivello di circa un metro, tutto è disposto in modo ideale per permettere a
Kii-chan di vederle dall’alto al basso, quando si mette a sbirciarle. Pur
essendo un bambino, trova divertente guardare in questo modo, dall’alto, la
fila di case dietro la sua. Se il signor Tatsu, in partenza per andare a fabbricare
delle armi, sta bevendo il sake a torso nudo, egli lo racconta alla mamma
dicendo: «Lo sai che sta bevendo il sake?». Se Gen-bō10, il carpentiere, sta
affilando l’ascia, lo riferisce alla nonna dicendo: «Lo sai che sta affilando
qualcosa?». Oltre a ciò, riporta esattamente tutto quello che vede: «Guarda che
stanno litigando… Lo sai che stanno mangiando le patate dolci arrostite?»…
Allora Yoshi ride ad alta voce; anche la mamma e la nonna ridono con aria
divertita. Farle ridere in questa maniera è ciò che gli riesce meglio.
Mentre Kii-chan sbircia sul retro, alle volte gli capita di trovarsi faccia a
faccia con il figlio di Gen-bō, Yokichi e, quandosi vedono, si parlano non più
di una volta su tre. Tuttavia, per come sono loro, è impossibile che vadano
d’accordo: ogni volta finiscono per bisticciare. Se Yokichi gli dice da sotto:
«Cosa dici, faccia pallida e gonfia?!», Kii-chan gli risponde dall’alto, tirando
in fuori quel suo mento rotondo come se lo trattasse con disprezzo: «Ehi,
bamboccio con il naso che cola, sei un pezzente!». Una volta, poiché Yokichi,
arrabbiandosi, trapassò da parte a parte la siepe con una canna per stendere i
panni, Kii-chan si spaventò e scappò dentro casa. La volta successiva, Yokichi
raccolse una palla ricoperta con un filo di lana intrecciato in modo sopraffino
che Kii-chan aveva fatto cadere giù dal terrapieno e non gliela riconsegnò
subito. Egli protestò energicamente dicendo: «Restituiscimela! Lanciamela,
dai!», ma Yokichi, tenendo la palla in mano, rimaneva immobile guardando in
su con aria altezzosa: «Chiedimi scusa! Se mi chiedi scusa, te la restituisco»,
disse.
Kii-chan, dopo aver detto «Figurati se ti chiedo scusa! Ladro!», andò dalla
mamma che stava lavorando e scoppiò a piangere. Quando questa, perdendo la
calma ma volendo salvare le apparenze, mandò Yoshi a prenderla, la mamma
di Yokichi disse soltanto «Mi dispiace molto» ma alla fine la palla non ritornò
più nelle mani di Kii-chan.
Passarono tre giorni e Kii-chan uscì di nuovo fuori tenendo in mano un
grosso caco rosso. Allora Yokichi si avvicinò come al solito sotto il muretto.
Kii-chan sporse attraverso la siepe questo caco rosso e disse: «Lo vuoi in
regalo?». Yokichi, guardando fisso il caco da sotto, rimase immobile e disse:
«Cosa vuoi che me ne freghi? Non voglio robaccia simile!». Kii-chan ritirò la
mano attraverso la siepe dicendo: «Non lo vuoi? Se non lo vuoi, allora
lasciamo stare!»; a quel punto Yokichi si fece ancora più sotto il muretto
mentre diceva «Come immaginavo! Cosa vuoi? Cosa vuoi? Guarda che ti
picchio!». Kii-chan tirò fuori di nuovo il caco dicendo: «Allora lo vuoi?».
Yokichi stava guardando in alto con gli occhi spalancati: «Figurati se voglio
una robaccia simile!».
Dopo che questo scambio di parole si ripeté quattro o cinque volte, Kii-
chan fece cadere con un tonfo il caco che aveva in mano giù dal muretto,
dicendo: «Allora te lo do!». Yokichi lo raccolse di corsa con tutto il fango che
si era attaccato e, non appena lo ebbe in mano, gli diede un morso da una
parte.
In quell’istante, le sue narici fremettero, le labbra spesse si torsero verso
destra e poi sputò il boccone di caco che non aveva finito di mangiare: «Puh!».
Poi, concentrando negli occhi tutto l’odio di cui era capace, lanciò con
violenza il caco che aveva in mano contro Kii-chan gridando: «Che aspra,
questa robaccia!». Il caco oltrepassò la testa di Kii-chan e colpì il deposito
dietro la casa. Kii-chan cominciò a correre ed entrò in casa dicendo: «Eh, che
ingordo!». Dopo un attimo, nella casa di Kii-chan si sentirono delle grandi
risate.
1 Chan: utilizzato come vezzeggiativo, equivalente, nelle lingue occidentali, all’appellativo
«piccolo/a» o a un diminutivo.
2 Acconciatura portata normalmente dalle vedove, consiste nel legare in alto i capelli,
tagliati uniformemente all’altezza della nuca, in modo che ricadano indietro.
3 Strumento musicale di origine cinese simile a una cetra, introdotto in Giappone durante il
Periodo Nara. È costituito da una cassa armonica di circa due metri, che viene poggiata a
terra, sulla quale sono tese tredici corde e viene suonato con un plettro simile a un’unghia.
4 Cracker giapponese di riso salato.
5 Zoccoli con infradito fatti di legno, la cui suola è sollevata da terra da due rigoletti messi
di traverso.
6 Procedimento con cui veniva inamidata una stoffa, per poi distenderla su un asse di legno
per asciugarla.
7 Nome della domestica.
8 Fascia di stoffa che si avvolge attorno alla testa.
9 Pasta fatta di riso cotto al vapore e pestato.
10 Suffisso che viene attaccato a un nome di persona per esprimere simpatia o per
schernirlo leggermente.
5
Il braciere
Quando mi svegliai, lo scaldino portatile, che mentre dormivo tenevo fra
le braccia, giaceva ormai freddo sulla mia pancia. Guardai oltre la tettoia
attraverso il vetro e quello scorcio di cielo di circa un metro, pesante, aveva
un aspetto plumbeo. Mi sembrò che il dolore allo stomaco fosse abbastanza
passato; provai così a decidermi a mettermi seduto sul futon, ma sentii più
freddo di quanto mi aspettassi. Sotto la finestra la neve caduta ieri era rimasta
tale e quale.
Il bagno è così ghiacciato che luccica. Il rubinetto non funziona perché
anche le tubazioni sono completamente ghiacciate. Mentre nel soggiorno
versavo il tè nella tazza, dopo aver finalmente finito con qualche difficoltà di
strofinarmi con un asciugamano riscaldato nell’acqua calda e ben strizzato, il
bimbo di due anni scoppiò a piangere come al solito. Questo bimbo aveva
pianto per tutto il giorno anche l’altro ieri. Aveva continuato a piangere anche
ieri. Quando chiesi a mia moglie cosa fosse successo, mi rispose: «E cosa
vuoi che sia successo!? È perché fa freddo». Non c’è niente da fare. In effetti,
piange come se brontolasse e sembra che non abbia né dolore né fastidio
alcuno; visto che piange, però, ci sarà qualcosa che lo fa sentire insicuro. Se
rimango qui ad ascoltare, alla fine finisco per cominciare ad angosciarmi pure
io: in certi casi lo trovo un po’ odioso. Capita che mi venga voglia di sgridarlo
a voce alta ma poi, pensando di non poterlo comunque fare perché è troppo
piccolo, mi trattengo a stento. È stata la stessa cosa sia l’altro ieri sia ieri, ma
se penso che sarà così per tutto il giorno pure oggi, non mi sento bene fin
d’ora. Visto che ultimamente avevo deciso di non fare colazione a causa dei
miei disturbi allo stomaco, mi ritirai nello studio tenendo in mano la tazza con
il tè.
Mentre mi scaldo un po’ allungando le mani sopra al braciere, il bambino
sta ancora piangendo. In breve tempo, solo il palmo delle mani è diventato
così bollente da far quasi uscire del fumo, ma sento un freddo incredibile
lungo tutta la schiena fino alle spalle. Soprattutto le punte dei piedi sono
diventate talmente ghiacciate da farmi male. Sono quindi costretto a rimanere
immobile; se muovessi anche solo un poco le mani, toccherebbero qualcosa di
freddo: sarebbe doloroso per i nervi come se toccassi per esempio una spina.
Persino quando ruoto il collo, il solo scivolare contro il colletto del kimono,
mi provoca un brivido di freddo, e mi dà una sensazione intollerabile.
Oppresso dal freddo che mi assedia, me ne stavo come paralizzato al centro
del mio studio di dieci tatami1. Il pavimento è di legno: bisognerebbe usare in
realtà una sedia ma, mettendo un tappeto, sto seduto per terra immaginando che
ci sia un normale tatami; tuttavia, poiché il tappeto è piccolo, il pavimento
lucido, scoperto per circa sessanta centimetri, luccica tutt’attorno. Mentre
guardavo il pavimento senza muovere un solo muscolo, il bambino piangeva di
nuovo. Non riuscivo proprio a trovare il coraggio di mettermi a lavorare.
In quel momento, entrò mia moglie chiedendomi di prestarle un attimo
l’orologio e disse: «Nevica di nuovo». Guardai fuori e scoprii che era
cominciata a cadere una neve fine: scendeva lentamente da un punto indefinito
di un cielo cupo, senza un filo di vento, silenziosa e crudele.
«Ehi, quanto ci è costato il carbone, quando l’anno scorso abbiamo acceso
la stufa a causa della malattia dei bambini?».
«Allora ho pagato ventotto yen a fine mese».
Sentendo la risposta di mia moglie, rinunciai all’idea di usare per il
salotto la stufa buttata in un piccolo deposito dietro casa. «Ehi, non riusciresti
a far stare un po’ in silenzio il bambino?». Mia moglie fece una faccia come
per dire «Non ci si può far nulla», poi domandò: «Visto che la signora Omasa
sta soffrendo abbastanza per il mal di pancia, chiediamo al signor Hayashi o a
qualcun altro di visitarla?». Sapevo che la signora Omasa era a letto da due o
tre giorni, ma non pensavo che stesse così male. Esortai mia moglie a
chiamare subito il medico;mia moglie rispose «Farò così» e uscì dalla stanza
con l’orologio in mano. Mentre chiudeva il fusuma, disse: «Che freddo in
questa camera!».
Ho ancora il corpo intirizzito dal freddo e non mi viene voglia di lavorare.
A dire il vero, avrei un sacco di lavoro: devo scrivere la bozza per una
puntata2; devo leggere due o tre racconti come mi aveva chiesto un certo
giovane che non conosco; ho promesso a un’altra persona di scrivere una
lettera di presentazione di una sua opera per una rivista. Di fianco alla
scrivania ci sono pile di libri che avrei dovuto leggere in questi due o tre
mesi, ma non sono riuscito a farlo. Da circa una settimana, ogni volta che mi
siedo alla scrivania pensando di lavorare, arriva gente e tutti iniziano a
chiedermi consigli su qualcosa. Inoltre sento un dolore allo stomaco: su questo
punto oggi va meglio, però, qualunque considerazione si possa fare, non riesco
a staccare le mani dal braciere perché fa freddo e mi sento tutto indolenzito.
In quel momento qualcuno fermò il risciò davanti all’ingresso. Venne la
domestica per dire «È arrivato il signor Nagasawa». Paralizzato vicino al
braciere e guardando dal basso Nagasawa che stava entrando, gli dissi: «Lo
sai che non riesco a muovermi per il freddo?». Nagasawa tirò fuori una lettera
da sotto la giacca e lesse: «Poiché il 15 di questo mese è Capodanno secondo
il vecchio calendario lunare, La prego di prestarmi dei soldi…». È come al
solito una richiesta di soldi. Nagasawa se ne andò a mezzogiorno passato, e io
morivo ancora dal freddo. Pensai piuttosto di trarre conforto andando in un
bagno pubblico: mentre stavo per uscire nell’ingresso, portando un
asciugamano, mi imbattei in Yoshida che chiese «Posso entrare?». Lo feci
accomodare nel salotto con i tatami e, mentre ascoltavo i suoi vari racconti sul
passato, scoppiò a piangere dirottamente. Nel frattempo, dall’altra parte della
casa regnava una certa confusione perché era arrivato il medico. Quando
finalmente Yoshida se ne andò, il bambino ricominciò a piangere. Alla fine
andai ai bagni pubblici.
Soltanto dopo aver finito il bagno, sentii caldo. Tornai a casa sollevato ed
entrai nello studio, dove il lume era acceso e le tende abbassate. Nel braciere
vi era della carbonella nuova. Mi lasciai cadere su un cuscino. Allora mia
moglie dalla stanza in fondo si premurò di portarmi del sobayu3, dicendo:
«Avrai freddo». Le chiesi come stava la signora Omasa e mi rispose: «Pare
che non sia escluso che potrebbe venirle un’appendicite, sai?». Ricevendo in
mano il sobayu risposi: «Forse sarebbe meglio farla ricoverare, se sta male».
Mia moglie si ritirò nel soggiorno dicendo: «Sarebbe meglio così».
Dopo che mia moglie fu uscita, d’un tratto calò un silenzio assoluto. Era
veramente una sera nevosa; sembrava che il bambino, che stava piangendo,
fortunatamente si fosse addormentato. Mentre sotto una luce brillante sorseggio
il sobayu caldo e ascolto il crepitare della carbonella appena aggiunta nel
braciere, la fiamma rossa tremola fioca, in mezzo alla cenere; ogni tanto una
lingua di fuoco bluastra guizza fra i pezzi di carbone. Guardando il colore di
questa fiamma, per la prima volta sentii il tepore della giornata, così continuai
a osservare per un po’ di tempo la superficie della cenere che poco a poco
diventava bianca.
1 L’autore non fa riferimento alla reale presenza dei tatami, ma alle dimensioni dello studio.
Nelle case giapponesi tradizionali, la dimensione delle stanze veniva spesso indicata in
tatami. Un tatami misura circa 1,65 m2.
2 Sōseki era stato ingaggiato dall’«Asahi Shimbun», uno dei principali giornali giapponesi,
per scrivere romanzi a puntate.
3 Acqua calda in cui viene sciolta della polvere di soba (pasta di grano saraceno), oppure
l’acqua stessa in cui viene fatta bollire la soba.
6
La pensione familiare
Fu su una collina del nord che alloggiai per la prima volta presso una
famiglia. Visto che mi piaceva quell’edificio di mattoni rossi a due piani,
piccolo e accogliente, affittai una stanza nella parte posteriore, pagando la
cifra relativamente alta di due sterline alla settimana. La spiegazione della
padrona di casa era che il signor K., che allora occupava le stanze sulla
facciata principale, attualmente stava facendo il giro della Scozia e non
sarebbe tornato per un po’ di tempo.
La padrona è una donna con un viso aspro, con gli occhi infossati, il naso
schiacciato al centro e la punta all’insù, il mento e le gote appuntiti: al primo
sguardo trascende talmente qualunque idea di femminilità da non consentire di
darle un’età. Pensai che difetti come nervosismo, permalosità, ostinazione,
testardaggine e diffidenza si fossero divertiti così tanto a giocare con i suoi
occhi e il suo naso, un tempo sereni, da distorcerne a tal punto l’aspetto.
Aveva capelli e occhi neri che mal si addicono a un paese del Nord;
tuttavia il suo linguaggio non era affatto diverso da quello di un inglese
normale. Proprio il giorno in cui mi trasferii, fui invitato al piano inferiore a
prendere il tè: quando scesi giù, non c’era nessuno della famiglia. Io e la
padrona, da soli, ci sedemmo uno di fronte all’altro, nella piccola sala da
pranzo rivolta a nord. Provai a guardarmi attorno in quella stanza poco
illuminata sulla quale non sembrava aver mai battuto il sole: sopra il camino
c’erano dei malinconici narcisi. La padrona, offrendomi un tè e un toast,
parlava di vari argomenti. In quell’occasione, per caso, mi confidò che il suo
paese natale non era l’Inghilterra, ma la Francia. Poi, voltandosi e muovendo
quegli occhi neri per guardare dietro a lei i narcisi dentro a un vaso di vetro,
disse: «L’Inghilterra proprio non va, perché è sempre nuvoloso e fa freddo».
Probabilmente pensava di avermi insegnato che pure i fiori non sono belli
esattamente come si capisce guardandoli.
Paragonando dentro di me l’aspetto scialbo dei narcisi allo scorrere del
sangue slavato sotto le sue guance rinsecchite, immaginai i dolci sogni che
sarebbe riuscita a fare nella sua Francia lontana. Dietro i capelli e gli occhi
neri della padrona ci sarà stata una storia ormai finita, con un profumo di
primavera scomparso da molti anni. Mi chiese: «Parla francese?» e
interrompendo bruscamente il movimento della punta della mia lingua, con la
quale stavo per risponderle di no, usò la lingua fluente del Sud, due o tre frasi
una dopo l’altra. Era un accento così bello da farmi domandare come fosse
possibile che un suono simile uscisse da una gola tanto ossuta.
La sera, durante la cena, un vecchio pelato con la barba bianca si sedette a
tavola. Mi accorsi solo allora che quel vecchio era il padrone, poiché mi
venne presentato da lei dicendo: «Questo è mio padre». Costui ha uno strano
modo di parlare: basta ascoltarlo anche poco per capire che non è
assolutamente inglese. Ciò mi convinse che sia il padre sia la figlia si erano
stabiliti a Londra da oltre Manica. Il vecchio, senza che io glielo avessi
chiesto, si presentò quindi di propria iniziativa dicendo di essere tedesco.
Poiché avevo sbagliato di poco le mie supposizioni, risposi soltanto: «Ah,
davvero?».
Tornai nella mia stanza. Non so perché ma, mentre leggevo, non riuscivo in
nessun modo a togliermi dalla mente il padre e la figlia di sotto; quel
vecchietto non somiglia per nulla all’ossuta figlia: al centro di una faccia
gonfia, come tumefatta, è adagiato un naso tozzo e carnoso e sono inseriti due
occhi sottili. C’era un presidente della Repubblica Sudafricana, di nome
Kruger, che assomigliava molto a costui. Il suo viso non è un’immagine
gradevole per gli occhi, inoltre il modo in cui si rivolge alla figlia è tutto meno
che sereno: non so perché, ma nonostante biascichi a causa dell’infelice
dentatura, si avverte un tono rude. Anche la figlia, quando risponde al padre,
mi dà l’impressione che assuma un’espressione ancora più burbera. Sono
tutt’altro che un padre e una figlia normali: andai a dormire con questi
pensieri.
Il giorno successivo, quando scesi giù per fare colazione, oltre al padre e
alla figlia della sera prima si era aggiuntaalla famiglia un’altra persona. Quel
nuovo membro che si era accomodato a tavola era un uomo sulla quarantina,
con una bella carnagione e sorridente. Quando vidi il suo viso all’ingresso
della sala da pranzo, ebbi per la prima volta la sensazione di trovarmi tra
esseri umani viventi. La padrona me lo presentò dicendo: «My brother». Come
pensavo, non era suo marito. Tuttavia i lineamenti del viso erano talmente
diversi da non riuscire proprio a convincermi che fossero fratelli.
Quel giorno pranzai fuori e ritornai alle tre passate; subito dopo essere
rientrato nella mia stanza, ella venne a chiamarmi dicendo di andare a bere un
tè. Anche quel giorno era nuvoloso. Aprii la porta della poco illuminata sala
da pranzo: la padrona era seduta da sola di fianco alla stufa e aveva tutto
pronto per servire il tè. Visto che si era premurata di accendere la stufa a
carbone, l’atmosfera sembrava un tantino più allegra. Quando guardai la sua
faccia, illuminata dalla fiamma appena accesa, scoprii che si era passata un
velo di cipria sul lieve rossore della pelle. Appena entrato nella stanza mi resi
conto di come un trucco potesse dare un tono malinconico; dallo sguardo che
assunse, mi parve che la padrona avesse colto la mia impressione. Fu in
quell’occasione che venni a sapere la storia della loro famiglia.
Sua madre andò in sposa a un francese venticinque anni prima ed ebbe lei
come figlia. Dopo qualche anno di convivenza, il marito morì. La madre,
tenendola con sé, si risposò con un tedesco. Che è il vecchio della sera prima.
Avevano aperto una sartoria nel West End, a Londra, dove lui andava a
lavorare tutti i giorni. Il figlio che aveva avuto con la moglie precedente
lavorava nello stesso negozio, ma erano in pessimi rapporti: pur stando nella
stessa casa, non si parlavano mai. Il figlio la sera torna sempre tardi; si toglie
le scarpe nell’ingresso, e scalzo va dritto nella sua stanza per andare a
dormire, attraversando il corridoio senza farsi vedere dal padre. La madre di
lei era già mancata da molto tempo; al momento della morte si era
raccomandata con il marito di prendersi cura della figlia, ma tutto il
patrimonio era passato nelle mani del padre e la figlia non poteva disporre
neppure di un centesimo. Non le rimaneva altro che guadagnarsi una misera
paga gestendo in questo modo la pensione. Quanto ad Agnes…
La padrona non raccontò altro che questo. Agnes è il nome di una bambina
di tredici o quattordici anni che serve in casa. In quell’istante, ebbi
l’impressione che tra il viso del figlio che avevo visto quella mattina e Agnes
ci fosse qualche somiglianza. Proprio in quel momento Agnes uscì dalla cucina
portando in mano un piatto con alcuni toast.
«Agnes ne vuoi?».
Agnes ne prese in silenzio una fetta e ritornò verso la cucina.
Dopo un mese me ne andai da questa pensione.
7
L’odore del passato
Circa due settimane prima di lasciare questa pensione, il signor K. ritornò
dalla Scozia: in quell’occasione gli fui presentato dalla padrona. Se ci penso,
ancora adesso mi dà una strana sensazione il fatto che due giapponesi si
incontrassero per caso in una piccola casa dei quartieri alti di Londra e che,
inoltre, senza mai esserci presentati reciprocamente, ci inchinassimo dicendo
«Piacere di conoscerla», grazie a una signora straniera di cui non sapevamo né
lo status sociale, né l’origine, né i precedenti. In quell’occasione, questa
ragazza già vecchia indossava un abito nero; porgendo una mano ossuta e
rinsecchita disse: «Signor K., questo è il signor N.»; ma prima ancora di finire
la frase, allungò anche l’altra mano verso il secondo e ci presentò
reciprocamente in modo equo, dedicando a ognuno la stessa attenzione,
dicendo: «Signor N., questo è il signor K.».
Ero stupito non poco dal fatto che il suo atteggiamento fosse così dignitoso
e formale da conferire una certa solennità all’atmosfera. Il signor K. stava in
piedi davanti a me: si lasciò scappare un sorriso, corrugando i margini delle
sue belle palpebre. Io invece, più che ridere, sentii tutta la malinconia di
questa situazione contraddittoria: pensai, lì in piedi, che avrei provato la
stessa sensazione se avessimo celebrato un matrimonio organizzato da un
mediatore fantasma. Mi sembrava che là dove si allungava l’ombra nera di
questa ragazza vecchia, tutto perdesse vita e si trasformasse all’improvviso in
un cumulo di rovine. Non posso fare a meno di immaginare che, se qualcuno ne
toccasse per errore la carne, il suo sangue nel punto preciso di contatto
diventerebbe ghiacciato. Voltai appena la testa in direzione dei passi della
donna che se ne andava, scomparendo al di là della porta.
Dopo che se ne fu andata, io e il signor K. diventammo subito amici. Nella
sua stanza per terra era steso un bel tappeto e alla finestra c’erano tende di
seta bianca; era arredata con una poltrona e una sedia a dondolo splendide e
inoltre vi era una piccola camera da letto separata; ma ciò che più di tutto mi
dava un senso di felicità era il fatto che avesse sempre la stufa accesa, e la
alimentasse generosamente con pezzi di carbone sfavillante.
Decidemmo di prendere abitualmente il tè, il signor K. e io, nella sua
stanza. A pranzo spesso andavamo insieme in un ristorante vicino: pagava
sempre lui. Venni a sapere che il signor K. era venuto lì per svolgere ricerche
sulla costruzione dei porti, infatti disponeva di abbastanza denaro. Quando
stava in casa, indossava una vestaglia di raso di un color bruno rossiccio,
ricamata con fiori e uccelli, e sembrava molto allegro. Al contrario di lui, io
ero in una situazione indecente, dato che il mio vestito, che avevo da quando
ero partito dal Giappone, era notevolmente sporco. Il signor K., dicendo che
così era troppo, mi prestò il denaro per comprarne uno nuovo.
Per due settimane, lui e io parlammo di svariati argomenti. Una volta mi
disse: «Un giorno formerò un governo Keiō1». Mi raccontò che si sarebbe
chiamato così perché lo avrebbe fondato solo con persone nate nell’Epoca
Keiō, quindi mi chiese: «Allora, quando sei nato?». Risposi: «Nell’anno tre
dell’Epoca Keiō»; lui si mise a ridere: «Allora disponi dei requisiti necessari
per essere un membro del Gabinetto». Mi ricordo che probabilmente il signor
K. era nato nell’anno uno o due dell’Epoca Keiō: un solo anno di ritardo e
avrei perso il diritto a occuparmi insieme a lui degli affari di Stato.
Nelle occasioni in cui parlavamo di argomenti interessanti come questo,
capitò talvolta che la famiglia di sotto diventasse il tema dei nostri
pettegolezzi. Allora il signor K. aggrottava sempre le sopracciglia e scuoteva
la testa. Mi diceva che era la ragazzina di nome Agnes a fargli più pena. Al
mattino portava il carbone nella sua stanza; presto nel pomeriggio gli portava
tè, burro e pane. Li portava in silenzio e, dopo averli appoggiati, se ne andava
in silenzio. Ogni volta che la vedevo, aveva il viso pallido e mi salutava solo
di sfuggita con un movimento di quegli occhi grandi e umidi. Compariva come
un’ombra e se ne tornava giù come un’ombra: non avevo mai sentito il rumore
dei suoi passi.
Una volta informai il signor K. che pensavo di andarmene da quella casa,
perché la trovavo sgradevole. Egli era d’accordo con me e mi consigliò: «Per
me va bene perché corro qua e là per le mie ricerche, ma forse uno come te
dovrebbe prendere alloggio in un posto più confortevole per studiare». Quella
volta continuò a preparare la valigia, dicendo che si sarebbe recato al di là del
Mediterraneo.
Quando stavo per lasciare la pensione, la ragazza vecchia mi supplicò di
cambiare idea: mi disse persino che avrebbe abbassato l’affitto e che avrei
potuto usare la stanza del signor K. mentre lui era assente; alla fine però finii
per spostarmi più a sud. Nello stesso periodo anche il signor K. se ne andò
lontano.
Dopo due o tre mesi, ricevetti inaspettatamente una sua lettera. C’era
scritto che era tornato dal viaggio e di andare a trovarlo, visto che per il
momento non si sarebbe mosso. Avrei voluto andarci subito ma, per vari
motivi, non avevo tempo di recarmi appostafino alla periferia nord. Dopo
circa una settimana, grazie al fatto che per un impegno dovevo andare a
Islington, al ritorno provai a passare da lui.
Dalla finestra del secondo piano della facciata si vedeva il riflesso sul
vetro della tenda di seta, raccolta da una parte. Mentre pensavo già alla stufa
calda, al ricamo sul raso di colore bruno rossiccio della veste da camera, alla
poltrona e all’allegro racconto del viaggio del signor K., varcai il cancello
con entusiasmo e con il batacchio picchiai sulla porta tanti colpi veloci come
se salissi di corsa le scale. Poiché non sentivo rumore di passi all’interno,
pensavo che non avessero sentito e così stavo per prendere di nuovo il
batacchio. All’improvviso la porta sembrò aprirsi da sola: misi un piede oltre
la soglia e mi trovai faccia a faccia con Agnes che mi guardava fisso dal basso
in alto, come per chiedermi scusa. In quell’istante, in mezzo a quello stretto
corridoio, l’odore del passato che aleggiava nella pensione e che in quei tre
mesi avevo dimenticato, mi punse l’olfatto come una saetta. Dentro
quell’odore si concentrava tutto quanto: i capelli e gli occhi neri, la faccia
come quella di Kruger, il figlio che assomiglia ad Agnes e Agnes che sembra
un’ombra del figlio, insieme al segreto che era radicato in loro. Quando sentii
questo odore, capii chiaramente che i loro sentimenti, i loro gesti, le loro
parole e le espressioni dei loro volti erano celati dentro un inferno tenebroso.
Mi risultò insopportabile l’idea di salire al secondo piano e incontrare il
signor K.
1 Nome di un’epoca giapponese che va dal 1865 al 1868, prima del Periodo Meiji.
8
La tomba del gatto
Dopo che ci fummo trasferiti a Waseda1, il gatto iniziò a dimagrire poco a
poco. Non dava nessun segno di voler giocare con i bambini; dormiva nella
veranda quando vi batteva il sole. Continuava a guardare fisso la siepe del
giardino, appoggiando il mento squadrato sopra le zampe anteriori unite, senza
mai dare segno di volersi muovere. Per quanto i bambini facessero un gran
chiasso lì vicino, li ignorava. Anche i bambini smisero fin dall’inizio di
badare a lui: trattavano questo vecchio amico come un estraneo, come se
avessero escluso che potesse essere per loro un compagno di giochi. E non
solo i bambini: anche la domestica si limitava ad appoggiare i suoi tre pasti in
un angolo della cucina senza curarsi quasi per niente del resto. In più, di solito
arrivava il grosso gatto maculato dei vicini e si mangiava tutto. Il nostro gatto
non sembrava prendersela particolarmente; non lo vidi mai nemmeno
bisticciare: si limitava a restare immobile e a dormire. Tuttavia, non so
perché, ma non pareva sereno il modo in cui dormiva: era ben diverso da
sdraiarsi al sole comodamente e senza pensieri, quasi con la pretesa di avere
tutto il sole per sé. Invece, poiché non aveva la forza di muoversi… Ma questo
non è ancora sufficiente a descriverlo. Mi sembrava che stesse resistendo e
sopportando qualcosa con pazienza, come se si sentisse triste a non muoversi,
ma ancora di più a muoversi, oltre ogni grado di spossatezza. I suoi occhi
erano sempre fissi sul cespuglio del giardino, ma probabilmente non era
consapevole né delle foglie degli alberi, né della forma del loro tronco; non
faceva altro che poggiare il suo sguardo giallo bluastro in un punto. Sembrava
che, come la sua esistenza non veniva notata dai bambini di casa nostra, così
anche lui non riconoscesse chiaramente l’esistenza del mondo.
Tuttavia, sembrava che a volte avesse bisogno di qualcosa e gli capitava
perciò di uscire: in quelle occasioni veniva sempre inseguito dal gatto
maculato dei vicini; poiché aveva paura, saltava dalla veranda e, rompendo lo
shōji chiuso, si rifugiava vicino al focolare2. Solo in quel momento le persone
di casa si accorgevano della sua presenza, e anche lui, proprio solo in quel
momento, si rendeva conto con soddisfazione di essere vivo.
Man mano che eventi di questo tipo si ripetevano, i peli della sua lunga
coda iniziarono a cadere a poco a poco. All’inizio apparvero alcune lacune
qua e là come se ci fossero dei buchi, ma in seguito la parte pelata si estese,
lasciando scoperta la pelle escoriata; ciondolava in modo così fiacco da far
pietà a guardarlo. Sforzandosi di piegare quel suo corpo esausto, cominciò a
leccarsi continuamente le parti doloranti.
Quando dissi a mia moglie: «Ehi, è successo qualcosa al gatto», ella
rispose con tono del tutto freddo: «Già. Probabilmente perché è invecchiato».
Anch’io lo lasciai stare così com’era. Poco dopo, ogni tanto, cominciò a
vomitare i suoi tre pasti: provocandosi una sorta di grossa onda a livello della
gola, produceva con aria sofferente un rumore indistinto, fra uno starnuto e un
singhiozzo. Quando me ne accorgo, anche se mi sembra stia soffrendo, non
posso fare altro che mandarlo fuori, altrimenti sporcherebbe senza pietà sia il
tatami che il futon. La maggior parte degli zabuton di hattan3 che avevamo
preparato per gli ospiti finì per sporcarsi a causa sua.
«Pazienza: avrà disturbi allo stomaco e all’intestino! Fagli bere per
esempio dell’hōtan4 sciolto in acqua».
Mia moglie non rispose nulla. Dopo due o tre giorni, quando le chiesi se
gli aveva dato da bere l’hōtan, mi rispose «È inutile: non apre la bocca», e
aggiunse: «Lo sai che se gli do da mangiare le lische del pesce, vomita?»; io
allora, che stavo leggendo un libro, la ripresi sgridandola in modo un po’
sgarbato: «Se è così, non dargliele più!».
Bastava comunque che gli passasse la nausea per tornare a dormire
tranquillo come prima. Nell’ultimo periodo aveva un modo veramente minimo
di accoccolarsi come se si raggomitolasse, immobile, con l’aria di chi
considera la veranda, che gli sostiene il corpo, l’unica cosa in cui riporre la
propria fiducia. Anche lo sguardo stava cominciando a cambiare a poco a
poco: all’inizio in quella sconsolatezza c’era una vaga tranquillità, come se
cose lontane si riflettessero in uno sguardo vicino. Quest’ultimo cominciò però
a poco a poco a vagare in modo bizzarro. Poi il colore degli occhi si spense
progressivamente: mi dava la sensazione che stesse calando il sole, sostituito
da un fioco lampo di luce, ma lo lasciai stare. Neanche mia moglie sembrava
in pensiero per lui. I bambini naturalmente si erano persino dimenticati della
sua esistenza.
Una sera si era disteso sul ventre, sul bordo del materasso sopra il quale
dormono i bambini; poi levò un grugnito come quelli che spesso emetteva
quando gli veniva portato via il pasto. Fui soltanto io ad accorgermi in quel
momento di quanto fosse strano: i bambini dormivano tranquilli; mia moglie
era completamente immersa in un lavoro di cucito. Poco dopo il gatto grugnì di
nuovo. Mia moglie finalmente fermò la mano con l’ago. Io dissi: «Che è
successo? Sarebbe grave se i bambini venissero morsi, per esempio in testa, in
piena notte!». Mia moglie ricominciò a cucire di nuovo le maniche del juban,
rispondendo: «Ma figurati!». Il gatto continuò a grugnire di tanto in tanto.
L’indomani, salito sul bordo del focolare, continuò a grugnire per tutta la
giornata. Sembrava che trovasse inquietante il fatto che versassimo il tè o
prendessimo il bollitore, ma quando scese la sera, sia io che mia moglie ci
eravamo completamente dimenticati di lui. Fu proprio quella sera che il gatto
morì. Arrivò la mattina e quando la domestica andò a prendere della legna dal
deposito nel retro, era già rigido, crollato morto su un vecchio fornello.
Mia moglie andò apposta per guardare che aspetto avesse da morto. Dopo
di ciò, invece della freddezza che aveva avuto fino ad allora, cominciò
improvvisamente ad agitarsi: chiamò il solito portantino del risciò, andò a
comprare una targa rettangolare per la tomba e mi chiese di scrivere qualcosa
per lui. Sul davanti scrissi «La tomba del gatto» e dietro: «Sotto questa lapide
riposa un gatto che ebbe una vita effimera»5. Il portantino del risciò chiese:
«Possiamo seppellirlo così com’è?».
«Ma andiamo! Non possiamo mica cremarlo!», lo prese in giro la
domestica.
Anche i bambini cominciarono