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Dio rivelato Prof. Dariusz Kowalczyk, sj – TP1009 22/02/2011 – Lezione 1 Introduzione 1. La Trinità: il mistero per eccellenza La leggenda dell’incontro sulla riva del mare di Agostino col ragazzino che scava una buca nella sabbia, cercando di riversarvi tutto il mare (cfr. immagine sopra, Pinturicchio, Galleria Nazionale dell’Umbria). Questa leggenda esprime appropriatamente i nostri limiti umani: la piccola conchiglia del nostro pensiero, per quanto possa farsi grande, non sarà mai capace di contenere l’intero oceano. Il totalmente Altro, che è Dio, non vi può essere contenuto. Il grande mistero del Dio unitrino non può essere risolto né dalle persone normali né dalle persone più acute. Una delle versioni della leggenda sostiene che Agostino abbia replicato alla battuta del bambino (“È più facile per me versare il mare nella buca che per te comprendere il mistero della Trinità”) dicendo che il mistero divino è molto differente dal mare e che, se Dio ci avesse dato una mente apposita, l’uomo avrebbe potuto capire Dio. Agostino, in questa versione, protesta contro la scelta di Dio di non dare all’uomo i mezzi opportuni per comprenderlo, sostenendo anche che Dio non abbia voluto farsi comprendere. Il bambino allora ribatte ad Agostino trasformando la piccola conchiglia/secchiello in un secchiello mostruoso che prosciugò il mare in un baleno e cominciò a distuggere il mondo. Agostino, allora, si svegliò dal sonno e comprese che il mistero divino doveva rimanere tale per non distruggere il mondo (cfr. immagine a destra, Giovanni Lanfranco, Chiesa di S. Agostino, Roma). 2. Perché cerchiamo di esprimere il mistero della Trinità Se il mistero della Trinità è così grande, perché cerchiamo di esprimerlo? Innanzitutto perché ci è stata affidata la missione di battezzare e fare discepole tutte le nazioni nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ciò esige una spiegazione da dare a noi stessi e agli altri: cosa facciamo battezzando nel nome dei tre? È qui che cominciano la riflessione e la dottrina trinitaria. Il secondo motivo è simile al primo: una delle definizioni di “Dio” recita: “Dio è colui che provoca la preghiera”. Se ci rivolgiamo alle tre persone divine, è ovvio che è necessario comprendere cosa ciò significhi. La riflessione e la dottrina trinitaria sgorgano allora dalla preghiera, che necessita di comprendersi. In terzo luogo, “mistero” in ambito di fede non vuole dire “oscurità completa”: possiamo e dobbiamo parlare dei misteri della fede ma con l’umiltà dovuta; senza cioè pensare di poterli comprendere pienamente né tantomeno esaurirli. 3. I punti di partenza e le prospettive della dottrina trinitaria La risposta alla domanda del titolo non è solo una questione di metodo ma ci permette di intuire qualcosa di più importante: lo spazio e le coordinate del nostro pensare il Dio rivelato, cioè il Dio unitrino. Si potrebbe dire che ol punto di partenza della dottrina trinitaria è 1Gv 4, 8.16: Dio è amore. Dio si è rivelato come Dio per noi, cioè come colui che ama l’uomo. Dio è amore per l’uomo. Però la formula giovannea non va compresa soltanto nella prospettiva della relazione tra Dio e l’uomo: l’espressione non significa soltanto che Dio ama l’uomo ma che, da sempre, anche prima della creazione dell’universo, Dio è amore in sé stesso. Ciò per il fatto che Dio non è un assoluto perfetto ma solitario, che aveva bisogno di creare qualcuno per poter amare qualcuno. L’assolutezza di Dio consiste nella comunità/comunione dinamica dell’amore. La dottrina trinitaria cerca allora di spiegare come Dio è amore dall’eternità. La concezione monolitica del Dio assolutamente solitario, così come lo comprendono altre religioni monoteiste, è ancora più difficile da capire che la dottrina trinitaria cristiana: l’idea di un Dio che, dall’eternità, ripete incessantemente “Io, io, io…” è triste. Dio non aveva bisogno di creare l’uomo per dire “tu”. Un Dio solitario non è un dio perfetto. Crediamo allora in un Dio in cui, da sempre, c’è reciprocità e alterità: il Dio unitrino. La finalità della dottrina trinitaria è la dossologia: gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo! La questione della trinitaria non è quella astratta e speculativa di capire come uno è tre e tre sono uno ma la domanda viene dall’incontro con Gesù (cfr. anche Rm 1, 20). Senza Gesù Cristo possiamo dire delle cose su Dio ma non possiamo dire che Dio è uno e trino. Secondo von Balthasar, non vi è altro accesso alla Trinità se non Gesù Cristo. Ogni riflessione sulla Trinità immanente non può allontanarsi dal NT senza cadere nel vuoto di significato storico-salvifico. Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, la dottrina trinitaria non è nata da una speculazione filosofica su Dio ma è scaturita dallo sforzo di rielaborare per comprendere meglio delle esperienze storiche. Nella storia dell’AT, Dio si è fatto incontrare come Signore e Creatore del mondo, Padre di Israele. Nel NT abbiamo a che fare con una questione inattesa: si incontra Dio come Padre di Gesù di Nazaret. Gli apostoli sperimentano un paradosso: da un lato, Gesù chiama Dio “Padre mio”, rivolgendovisi con “tu”, come ad uno che gli sta di fronte. Affinché ciò non si risolva in una semplice finzione scenica, il Figlio Gesù deve essere essere altro dal Padre, e viceversa. Se la preghiera di Gesù è qualcosa di autentico, i due devono essere diversi. D’altro lato, Gesù stesso è la reale prossimità, la reale presenza di Dio che noi incontriamo. Allora, gli apostoli hanno sperimentato che, nella storia, Dio si manifesta come “io” e come “tu”. Nella preghiera di Gesù possiamo vedere Dio stesso come è al suo interno. Nella preghiera di Gesù risplende il Padre e Gesù si fa conoscere come Figlio. A partire da qui, essere/diventare cristiani significa partecipare alla preghiera di Gesù. Essere cristiani significa entrare nel modello di vita di Gesù, ossia nel suo modello di preghiera. Farsi cristiani, significa rivolgersi a Dio come “Padre” e diventare figli di Dio. Anche la nostra preghiera è un luogo in cui incontriamo la Trinità e da cui dovrebbe scaturire una riflessione sulla Trinità. S.Ignazio, nella sua autobiografia (scritta in terza persona), Il racconto del Pellegrino, racconta di una sua esperienza trinitaria. Ignazio rivolgeva preghiere a ciascuna delle persone della Trinità separatamente e poi alla Trinità tutte insieme (4 preghiere). La preghiera di Ignazio si presenta come un punto di partenza per una domanda trinitaria. Il dogma trinitario ci dice: una natura, tre persone. A chi ci rivolgiamo quando preghiamo e diciamo: “Dio aiutami”? Rosato, Perché studiare teologia a Roma?, in questo articolo Rosato parte dalla definizione fides quaerens intellectum, fede che cerca una comprensione, e si chiede “ma quale comprensione?”. Rosato parla di quattro tipi di comprensione: ontologica => sottolinea il carattere di verità del dogma e delle formule dogmatiche. La verità, in quest’ottica ontologica, viene compresa come qualcosa che si da ad esprimere in concetti e proposizione giuste (esatte, vere). Nella prospettiva ontologica si considera la fede come fides quae, in cosa crediamo, cosa confessiamo. Questo metodo tende a definire con precisione chi sono Dio e l’uomo e possiamo dire che trascura un po’ la descrizione in chiave storico-salvifica (il dramma divino-umano e ciò che questo dramma significa per il singolo e la collettività). In questa prospettiva, al centro dell’indagine teologica, sta il comprendere individuale del mistero di Dio. Lo svantaggio è che questa prospettiva sacrifica l’esperienza personale di fede e la sensibilità pastorale (per la cultura e i linguaggi contemporanei). Il maestro di questa prospettiva resta ovviamente S. Tommaso, riconfermato come tale dal Concilio Vaticano II (cfr. decreto Ad gentes, 7). L’agire salvifico di Dio sgorga dall’essere di Dio (la domanda “cosa fa Dio per noi?” suscita inevitabilmente la domanda “cosa è Dio in sé?”). Senza l’approccio ontologico la teologia potrebbe ridursi adantropologia o sociologia. esistenziale => parte dalla domanda: “che significato ha il dogma trinitario per la mia vita?”. Il metodo esistenziale inizia con un’analisi dell’esperienza umana e fa uso del ragionamento induttivo per arrivare a cogliere la natura e il destino trascendentale dell’uomo e spiega la rivelazione come il compimento dei desideri umani. Partiamo dall’uomo e dai suoi desideri per far vedere come la dottrina di fede, la dottrina trinitaria, risponde a questi desideri. Qui si considera la fede piuttosto come fides qua e i suoi rischi sono il soggettivismo (cioè che la fede diventi una cosa privata) e un certo tipo di relativismo. Nel CVII troviamo alcuni passi formulati in prospettiva esistenziale (cfr. Gaudium et Spes, 22: Cristo svela l’uomo all’uomo). La prospettiva esistenziale è un complemento necessario della prospettiva ontologica. Dal conoscere la verità si deve passare alla verità che ci rende liberi. pratico-sociale => (cfr. Ger 22, 15-16). Conoscere il Dio rivelato significa agire in maniera giusta (non bastano né i concetti giusti né un’esperienza personale senza schierarsi con i bisognosi). I limiti di questo metodo consistono nei suoi toni anti-tradizionali e nell’annessione, spesso ingenua, di teorie sociali all’interno del sistema cristiano. È ovvio però che la teologia non può però esimersi dal riflettere in maniera critico/profetica sulle situazioni di ingiustizia (cfr. Gaudium et Spes, 76: la Chiesa ha il diritto/dovere di insegnare la sua dottrina sociale per il bene delle anime, utilizzando tutti e soli quei mezzi che sono conformi al vangelo). Per quanto rigurda il nostro corso sulla Trinità, la domanda in quest’ambito è “cosa significa per le relazioni sociali che Dio è uno e trino?”. Alcuni sviluppano teologie politiche o, addirittura, dottrine trinitario-politiche. escatologica => Lumen Gentium, 5: lo scopo è il regno perfetto ma qui sulla terra non esiste né il regno perfetto né una teologia perfetta (1Cor 13: la carità non avrà mai fine). Non possiamo fuggire, nella teologia, la tensione tra il già e il non ancora. Il non ancora è più ampio del già e dobbiamo, perciò, vigilare e aspettare umilmente quanto ancora non si è realizzato (non è visibile) del mistero divino. 4. Tramonto e rinascita della dottrina trinitaria Per alcuni cristiani, la dottrina del Dio uno e trino sembra essere difficile e addirittura superflua: basterebbe la fede in un buon Dio, perché mai dobbiamo parlare di tre in uno? Per molti cristiani, la Trinità rimane un cruciverba senza alcun rapporto con la vita. La fede nel Dio dell’AT o in quello del Corano è più facile di quella nel Dio unitrino. Anche nell’insegnamento della teologia trinitaria preconciliare, il trattato sulla Trinità era di fatto isolato e non collegato pienamente con gli altri trattati. K. Rahner: «I cristiani, nonostante la loro esatta professione della Trinità, sono poi monoteisti nella pratica della loro vita religiosa. Si può quindi rischiare l’affermazione che se si dovesse sopprimere come falsa la dottrina trinitaria, pur dopo un tale intervento, la letteratura religiosa rimarrebbe inalterata.». Nell’Ottocento, la teologia trinitaria si è dedicata ad una sistematizzazione dell’eredità di Agostino e Tommaso, mentre la dimensione trinitaria non sembra aver molto influenzato la mistica. Con il CVII tutto è cambiato: Piero Coda fa notare che i tre più grandi teologi del Novecento, ognuno per le tre tradizioni cattolica (von Balthasar), protestante (Barth) e orotodossa (Bulgakov), sono trinitari da cima a fondo nel loro teologare. Oggi, dunque, possiamo dire che la dottrina trinitaria è stata ripristinata in molti ambiti: liturgico, catechetico, spirituale. S. Piwowarski: sociologo polacco degli anni ’60; fa una ricerca sulla religiosità popolare da cui risulta che, a quel tempo, l’80% dei polacchi sapeva indicare correttamente le tre Persone della Trinità, il 5% sapeva nominare una o due Persone trinitarie e il restante 15% indicava invece trinità diverse (Gesù Bambino, Maria e S. Giuseppe, i tre Re Magi, ecc.). La denominazione tradizionale del trattato De Deo uno et trino mette l’accento su come l’unità e la trinità si spieghino reciprocamente. Parliamo de Deo uno nella prospettiva naturale filosofica come della condizione di possibilità di essere aperti alla rivelazione (de Deo trino). Parte I Perché parliamo di Dio? La conoscenza naturale di Dio. Il linguaggio dell’analogia. D. Kowalczyk, La personalità in Dio, Roma 1999, pp. 5-14; 239-249. L. Ladaria, Il Dio vivo e vero, Casale Monferrato 1999, pp. 443-473. 1. Da dove viene l’idea di Dio? Perché parliamo di Dio? Per non tacere – dicevano i Padri. E perché non possiamo tacere? Perché la questione ci si impone. In qualche modo, l’uomo si sente interpellato da questa realtà che noi chiamiamo “Dio”. L’uomo, dunque, non può scappare dalla domanda su Dio. Ma in che modo si impone la questione di Dio? Ciascuno di noi può indicare una qualche esperienza che gli ha messo la domanda sotto gli occhi: la bellezza del creato, l’esperienza della responsabilità, la domanda sulle realtà ultime, le esperienze di vita e di morte, e così via. Risposte non cristiane riguardo l’origine della domanda su Dio: Per Karl Marx, tutto questo è irrilevante perché l’idea di Dio si impone perché l’uomo è oppresso dall’ingiustizia del sistema sociale: Dio è l’illusione che seda le masse oppresse. La religione è l’oppio del popolo. [Lenin preciserà che la religione è la vodka per il popolo.] Per Freud, la religione è l’incarnazione dei più antichi e profondi desideri del genere umano. L’idea di Dio è un prodotto dell’inconscio e deve essere interpretata psicologicamente. Il Dio personale non è altro che una figura paterna ingrandita. Freud è convinto che l’umanità supererà ad un certo punto la fase nevrotica che si esprime in questa megaproiezione divina così come un bimbo guarisce dalle sue fasi nevrotiche crescendo. L’umanità, dunque, va verso un ateismo universale. Nietzsche, Ecce homo: Dio è una risposta grossolana, un’indelicatezza per i pensatori; è un grossolano divieto contro gli uomini che dice “non dovete pensare”. Dio è morto: Dio non dovrebbe più costituire una fonte di speranza per l’uomo. Il cristianesimo è la religione dei deboli basata sul meccanismo del risentimento. Dio e l’uomo non vanno insieme; egli è un ostacolo per la piena realizzazione dell’uomo. Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC, 27-28): «il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo; l’uomo è un essere religioso. Le teorie dei profeti esterni, come Freud, Marx e Nietzsche, vanno tenute in considerazione nella misura in cui non vengano considerate spiegazioni esaurienti e onnicomprensive del fenomeno religioso ma come elementi presenti nella vita individuale di tanti credenti. I meccanismi individuati non vanno pertanto considerati come “origini” del sentimento religioso ma come suoi “offuscamenti” da cui la fede ha bisogno di purificarsi. In altri termini, questi teorici, pensando di spiegare la religione, ne descrivono invece gli snaturamenti» (cfr. anche CCC 29). 2. La contraddittorietà del parlare di Dio G. Ebeling (1912); ci sono tre ambiti di contraddizione nel parlare di e su Dio che possono essere espresse mediante il ricorso a tre relazioni problematiche: la relazione tra Dio e il linguaggio, a sua volta affrontabile con tre atteggiamenti diversi: possiamo sostenere, insieme con altri, che si è parlato e si parla ancora troppo di e su Dio e che ora servirebbe piuttosto agire secondo Dio; possiamo affrontare le difficoltà del linguaggio su Dio alla maniera scolastica, cercando di risolvere intellettualmente e logicamente le difficoltà; il terzo atteggiamento potrebbe essere quello di vedere le difficoltà del linguaggio su Dio come qualcosa di difficile, sconvolgente, ma positivo. Come un’occasione da sfruttare per approfondire la nostra riflessione. Per quanto riguarda i problemi relativi ai limiti del linguaggio, si deve dire che il linguaggioha una struttura categoriale (è strutturato su distinzioni dicotomiche), perciò la dottrina classica nega che le distinzioni delle categorie ontologiche fondamentali si possano applicare a Dio (es. essenza e accidente, essere ed esistenza, potenza e atto). Nonostante ciò, la possibilità di fare affermazioni su Dio è stata ancorata al concetto dell’essere. [Oggi ci sono tentativi interessanti che, non rifiutando l’ancoramento all’essere, cercano però di parlare di Dio da un punto di vista etico.] Il parlare classico su Dio procede allora per viam negationis o per viam eminentiae. Per quanto riguarda la comprensibilità del discorso su Dio, dobbiamo dire che, se il discorso su Dio è necessario alla salvezza, esso dovrebbe essere chiaro e limpido. D’altra parte, il parlare di Dio è il parlare di un mistero. Ne conseguono diverse aporie linguistiche. Si pensa allora di risolvere queste aporie tornando ad un linguaggio biblico. Tuttavia, la prospettiva biblica non sembra poter dispensare dalla sforzo di pensare il rappporto tra Dio e riflessione filosofica e tra Dio e linguaggio. Infatti, limitata al linguaggio biblico, il cristianesimo non potrebbe entrare in contatto con altre culture e sistemi di pensiero e rimarrebbe relegato alla dimensione provinciale di una setta ebraica (cfr. Fides et Ratio, 66: senza l’apporto della filosofia non si possono illustrare contenuti teologici fondamentali). Chi dice di non usare alcuna filosofia ne è, invece, un utilizzatore inconsapevole e acritico (dunque molto pericoloso). 01/03/2011 – Lezione 3 tra Dio e la realtà => il problema di Dio e del mistero della sofferenza, con tutte le sue complicazioni. tra Dio e Dio => la dottrina di Dio deve accogliere il mistero di una opposizione che non si può sciogliere a livello di linguaggio (ad es. il mistero della Trinità). La speculazione ci fa giungere a molte contraddizioni linguistiche (natura e grazia, giustizia e misericordia, ecc.). Tutto ciò trova la sua sintesi nella contrapposizione tra Deus absconditus e Deus revelatus. Le contraddizioni del parlare su Dio ci indica il fatto che la dottrina su Dio non può prescindere dal discorso su Dio (contesto).Ma quali sono i motivi che ci spingono a parlare di Dio in mezzo a tutte queste contraddizioni? 3. Quali sono i motivi che ci spingono a parlare di Dio? (1) Innanzitutto, parliamo di Dio perché lui ci è stato predicato (il primo motivo è dunque la tradizione). Non ci sono posti completamente immuni dal parlare di Dio. Se esistessero dei posti completamente immuni dal parlare di Dio, l’uomo e il mondo sarebbero in pericolo. Secondo Benedetto XVI, questo dovrebbe essere un periodo di conversione (cfr. Luce del mondo), la quale dovrebbe consistere nel rimettere Dio al primo posto. Ogni entrare in una tradizione del parlare di Dio esige una responsabilità e un’esperienza personale. Uno studente di teologia entra profondamente in una tradizione e, nello stesso tempo, diventa più responsabile nei confronti di questa tradizione. Inoltre, entrare in una tradizione non vuol dire diventare meri ripetitori di formule confezionate, ma significa anche apportarvi la nostra esperienza particolare della conoscenza personale di Dio (questa esperienza è proprio la fonte della nostra responsabilità personale). DV 8 afferma che la Tradizione progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo e questo approfondimento avviene anche attraverso l’esperienza personale. La Bibbia non parla tanto di inconoscibilità di Dio ma piuttosto di inafferrabilità. Nella Bibbia non c’è il problema dell’ateismo ma quello dell’empietà: un empio è un uomo che non nega l’esistenza di Dio ma vive come se Dio non esistesse. (2) Il carattere essenziale della conoscenza di Dio consiste nel fatto che Dio si dà a conoscere all’uomo in modo che quest’ultimo si conosca come colui che è già conosciuto da noi. Come essere passivo, io, con la mia realtà, appartengo necessariamente al fatto della rivelazione. Da ciò consegue che la conoscenza di Dio e la conoscenza di sé diventano un unico e medesimo fenomeno. Nella teologia di Ebeling questo nesso tra la conoscenza di Dio e la conoscenza di sé ha un carattere soprattutto linguistico, si verifica nel linguaggio. Noi conosciamo Dio e noi stessi attraverso il linguaggio. La conoscenza di Dio basata sul linguaggio e sulla parola implica la conoscenza di Dio come persona. Si può parlare infatti solo con qualcuno che sa parlare e può rispondere. Arriviamo così al fenomeno della preghiera come l’espressione più immediata della conoscenza di Dio. (3) Parlo di Dio perché parlo con Dio. Parlo di Dio perché mi è già capitato di parlare con Dio. L’atteggiamento dell’orante, secondo Ebeling, con tutta la sua gestualità rimanda ad una dipendenza assoluta dell’uomo da Dio. La preghiera mette in evidenza i limiti dell’uomo, glieli pone davanti. Parlare a Dio non sarebbe possibile senza il previo parlare di Dio all’uomo: Dio parla a noi; noi parliamo a Dio (parliamo a Dio e scopriamo che questo è possibile perché Dio per primo si è rivolto a noi); noi parliamo di Dio, lo predichiamo (perché prima di questa fase abbiamo già avuto un dialogo con lui). Dio non si fa sperimentare come un essere in sé e per sé (cioè come un oggetto) ma come un Dio con noi, un soggetto del dialogo. La prospettiva del dialogo è utile perché ci ricorda che nell’essere insieme di Dio e dell’uomo, il primato assoluto appartiene a Dio. L’essere insieme con Dio è un essere di fronte a Dio (ognuno al suo livello, ma di fronte). La teologia consiste nel movimento riflessivo sulla predicazione. 4. Il problema con la parola “Dio”. Alcune formule cristiane dell'intenzionalità del termine “Dio” «[Dio] è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano. Nessun’altra è stata tanto insudiciata e lacerata. Proprio per questo non devo rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome con la loro divisione in partiti religiosi; hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue. Dove potrei trovare una parola che gli assomigliasse per indicare l'Altissimo? Se prendessi il concetto più puro e più splendido dalla tesoreria più riposta dei filosofi, vi potrei trovare soltanto una pallida idea ma non la presenza di colui che intendo, di colui che generazioni di uomini con le loro innumerevoli vite e morti hanno onorato e denigrato. Intendo parlare di quell’Essere a cui si rivolge l’umanità straziata ed esultante. Certamente essi designano caricature e scrivono sotto “Dio”; si uccidono a vicenda e lo fanno “in nome di Dio”. Ma quando scompare ogni illusione e ogni inganno, quando gli stanno di fronte nell’oscurità più profonda e non dicono più “Egli, Egli”, ma sospirano “Tu, Tu” e implorano “Tu”, intendono lo stesso essere; e quando vi aggiungono “Dio”, non invocano forse il vero Dio, l’unico vivente, il Dio delle creature umane?» (M. Buber, L’eclissi di Dio). La parola “Dio”, per rimanere autentica, ha bisogno della preghiera, altrimenti si rischia di diventare violenti “nel nome di Dio”. Le guerre religiose nel nome di Dio sono una vergogna. Senza alcun dubbio. Il significato della parola “Dio” non è, all’inizio, ben determinato ma ci fa pensare alla problematicità radicale della nostra vita nel mondo. In rapporto con la realtà Dio si presenta come problematicità di questa realtà. Ciò significa che la parola Dio può essere sostituita, in un certo senso, con un punto di domanda. Nessuno può prescindere, pena il pericolo di minacciare la propria dimensione umana (senza cioè negare domande importanti per la nostra vita), dalla parola “Dio” o dal discorso su Dio. Uno che volesse negare la parola “Dio” negherebbe, in altri termini, la problematicità della propria vita. Si potrebbe dire che le cinque vie di Tommaso ci mostrano cosa si pensa quando si pronuncia la parola “Dio”, cioè come si comprende la problematicità della realtà. Si pensi alla famosa domanda di Heidegger: perché esiste l’ente e non piuttostoil nulla? (cfr. 3 – via ex contingentia mundi). 4 – Via ex gradu: il grado massimo di perfezione rende possibile gli stadi intermedi. 5 – Via ex fine: tutte le cose dell’universo sono ordinate secondo uno scopo, quindi ci deve essere un’intelligenza che le ordina così: qui tocchiamo pienamente la problematicità del senso della vita e arriviamo alla parola “Dio”. Un principio della dottrina classica è che Dio non si può definire. Questo principio presuppone un concetto monoteistico di Dio perché si parte dal presupposto che si definiscono le cose sempre con qualche riferimento ad un contesto più vasto, a qualcosa d’altro. Ma non esiste altro riferimento più vasto di Dio per definirlo. Da ciò risulta che è possibile indicare un significato della parola Dio solo attraverso un definizione descrittiva, che necessita di un contesto adeguato, creato da Dio (ma che non è più grande di Dio). Non abbiamo altra scelta che usare questo contesto per descrivere la parola “Dio”. Rassegna di definizioni e formule: metafisica classica: Dio è causa sui; con questa formula si evidenzia l’indipendenza e l’autonomia assoluta di Dio; formula anselmiana: id quo maius cogitari nequit; con questa formula si indica la realtà che non può essere superata neanche nel pensiero; qualsiasi realtà possa immaginare, Dio è e resta ancora più grande; salvifica (Lutero): un Dio è colui cui ci si deve rivolgere per procurarsi ogni bene e rifugiarsi in tutte le necessità; il contesto di questa formula è la nostra vita e il nostro lavoro; vi si sottolinea la dimensione ultima; per Schleiermacher, il termine Dio significa la causalità assoluta e il sentimento di dipendenza da parte dell’uomo: mi trovo nella mani di Dio; Tillich: “Dio” è il nome che dice ciò che concerne l’uomo come istanza ultima; Bultmann: espone una duplice formula: (a) Dio è la realtà che tutto determina (b) Dio è tutt’altro. Questo elenco di formule ci mostra due dimensioni principali: da un lato si vuole indicare l’aspetto ultimo e definitivo della realtà; dall’altro, si intende sottolineare la situazione fondamentale dell’uomo. Ebeling propone, allora, la formula: Dio è il mistero della realtà. C’è poi chi interpreta questo mistero dandogli un contenuto personale (Dio è persona), c’è chi rimane muto di fronte ad esso. Rinuciare, però, alla parola “Dio” ci porterebbe a rinunciare al mistero che ci riguarda e all’alienazione dalla propria persona. L’uomo usa la parola “Dio” per rispondere a questo mistero che lo interpella. In situazioni particolari della vita, in cui la vita stessa è in gioco, l’uomo parla a Dio (anche i non credenti). Da ciò risulta che l’uso più genuino e autentico della parola “Dio” è il vocativo: la preghiera. La parola “Dio” è più autentica nella frase “Dio, aiutami!” che nella frase “Dio è onnipotente”. 03/03/2011 – Lezione 4 La filosofia di Dio vuole parlare direttamente su Dio, a differenza della filosofia della religione che riguarda soprattutto la fenomenologia religiosa. 5. La conoscenza naturale di Dio (secondo la Bibbia, il Vaticano I e il Vaticano II). Nella teologia naturale si tratta della conoscenza di Dio data già con la creaturalità dell’uomo. Di fatto, l’uomo è stato creato da Dio. La Bibbia stessa ci dice che, già a partire dalla creazione, l’uomo può conoscere Dio, anche se in maniera offuscata (Sal 19, 2). Cfr. Sap 13, 1-10: «Veramente sono vani per natura tutti gli uomini che ignorano Dio e che dai beni visibili non furono capaci di conoscere colui che è, né, considerando le opere, seppero riconoscere l'artefice, 2 ma o il fuoco o il vento o l'aria veloce o la volta stellata o l'acqua impetuosa o i luminari del cielo stimarono dèi, governatori del mondo. 3 Se, dilettati dalla loro bontà, hanno ritenuto dèi tali cose, sappiano quanto più buono di loro è il Signore, perché chi li ha creati è la sorgente della bontà. 4 Se li ha colpiti la forza e l'energia, riconoscano quanto più potente di loro è colui che le ha formate. 5 Infatti dalla grandezza e bontà delle creature, ragionando, si può conoscere il loro autore. 6 Tuttavia, per costoro minore è il biasimo, perché essi forse s'ingannano mentre cercano e vogliono trovare Dio. 7 Vivendo in mezzo alle sue opere, ricercano e si lasciano persuadere dall'apparenza, perché buono è ciò che si vede. 8 Ma neppure costoro sono scusabili; 9 perché se tanto furono capaci di conoscere, da poter scrutare il corso del mondo, come mai non hanno trovato più presto il loro Signore? 10 Infelici invece coloro le cui speranze sono in cose morte, coloro che invocarono come dèi le opere di mani umane». Nella Bibbia, più grave di divinizzare le forze naturali è divinizzare le opere delle mani dell’uomo. Nel NT, troviamo un altro famoso testo che riguarda la conoscenza naturale di Dio Rm 1, 19-23 => non solo l’esistenza di Dio ma anche i suoi attributi possono essere conosciuti per via naturale. Si noti, poi, la differenza e la distanza che, in questo passo, intercorre tra la conoscenza intellettuale di Dio e la giusta adorazione a lui dovuta. I pagani, in qualche modo, conoscevano Dio ma non gli hanno tributato la giusta adorazione. Si cfr. anche At 17, 22: il discorso di Paolo all’Areopago comincia con la teologia naturale. La teologia dei primi secoli non si limita a ripetere le formule bibliche ma adotta i criteri e gli elementi di verità della filosofia pagana che, in quel periodo, aveva un’impronta tipicamente cosmologica. Si comincia a parlare di due libri: quello della natura e quello della Scrittura. È da notare però che alcuni, come Agostino, non erano tanto ottimisti sulla possibilità di conoscere Dio per via naturale: Agostino, infatti, sottolinea il fatto che le capacità conoscitive naturali dell’uomo sono state intaccate dal peccato e che, dunque, l’uomo non manteneva più capacità integre capacità conoscitive. Il Concilio Vaticano I: «La stessa santa madre chiesa ritiene e insegna che Dio, principio e fine di ogni cosa, può essere conosciuto con certezza mediante la luce naturale della ragione umana a partire dalle cose create; “infatti dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute” [Rm 1,20]» (Vaticano I, Dei Filius, DH 3004). Poco prima la costituzione Dei Filius presenta anche un elenco di attributi divini che possono essere conosciuti per via naturale: «La santa Chiesa cattolica apostolica romana crede e confessa che vi è un solo Dio vero e vivo, creatore e Signore del cielo e della terra, onnipotente, eterno, immenso, incomprensibile, infinito nel suo intelletto, nella sua volontà, e in ogni perfezione, che essendo una sostanza spirituale unica e singolare, assolutamente semplice e immutabile, deve essere dichiarato realmente ed essenzialmente come distinto dal mondo, sovranamente beato in se stesso e per se stesso e ineffabilmente elevato al di sopra di tutto ciò che può essere concepito al di fuori di lui» (Vaticano I, Dei Filius, DH 3001). Normalmente, si parla degli attributi divini parlando della teologia naturale: è un discorso che ne fa parte. Si possono certamente dire tante cose sugli attributi dal punto di vista naturale ma è solo a partire dalla rivelazione che questi attributi possono essere pienamente compresi. La conoscenza naturale, secondo il CVI, è la precondizione stessa della fede. Senza di essa, la conoscenza rivelata non sarebbe degna di fede. Prima ancora della rivelazione, c’è bisogno di un background che ci permette di ascoltarla e di capirla. Anche il parlare del Dio rivelato presuppone che abbiamo già una conoscenza di questo Dio, anche se offuscata e poco chiara. È necessario che vi sia già prima della rivelazione un gancio nell’uomo al quale essa si possa agganciare. Nei nostri giorni, una dimostrazione preliminare di Dio sembra più necessaria che mai. In altre parole la situazione storica attuale, fatta di ateismo e di agnosticismo, ci spinge a sviluppare la teologia naturale, per poter parlare, a questo livello, con coloroche non credono. In questo senso, si potrebbe dire che tutta la teologia dovrebbe essere condotta come una dimostrazione di Dio. Rahner, rimanendo fedele al CVI, afferma che questa conoscibilità di principio non deve più significare che sia possibile dare una dimostrazione cogente di Dio (non si tratta cioè di un dimostrazione che costringe l’altro a credere), ma che le diverse dimostrazioni di Dio vanno intese come percorsi che sintetizzano l’esperienza dell’uomo. Il CVI parla, infatti, di “dimostrare” non nel senso di “provare” l’esistenza e gli attributi divini ma nel senso dell’affemazione di possibilità, di una quaestio iuris non di una quaestio facti. La “certezza” di cui parla il CVI non va intesa, allora, nel senso di securitas (2+2=4) ma nel senso di certitudo esistenziale (una certezza morale). Nella nostra vita quotidiana, noi prendiamo decisioni sulla base di una certezza di questo secondo tipo: la vita, soprattutto nel campo delle relazioni umane, sfugge alla securitas di stampo matematico. Editoriale, Elementi essenziali della fede cristiana, 17 gennaio 1998, Civiltà Cattolica: l’atto di fede è ragionevole perché è fondato su motivi razionalmente validi ma nello stesso tempo libero perché i motivi per credere non sono evidenti e, dunque, non costringono all’assenso, come nel caso della matematica. Ad es. l’atto di sposare qualcuno è un atto ragionevole (perché ho buoni motivi per sposare una donna che amo) ma è libero (perché nessuno mi costringe a farlo); è esattamente allo stesso modo che Dio ci lascia liberi. Il CVI distingue due ordini di conoscenza: naturale e soprannaturale. Se questo è vero, non dobbiamo mai dimenticare, però, che i due ordini non sono mai completamente distinti. Una “natura pura”, senza grazia, è solo un’astrazione di ragione che, nei fatti, non esiste perché la grazia agisce sempre in noi, Dio agisce. In altri termini, se possiamo operare una distinzione non possiamo però operare una divisione. «Con la divina Rivelazione Dio volle manifestare e comunicare se stesso e i decreti eterni della sua volontà riguardo alla salvezza degli uomini, «per renderli cioè partecipi di quei beni divini, che trascendono la comprensione della mente umana». Il santo Concilio professa che «Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale dell'umana ragione a partire dalle cose create» (cfr. Rm 1,20); ma insegna anche che è merito della Rivelazione divina se « tutto ciò che nelle cose divine non è di per sé inaccessibile alla umana ragione, può, anche nel presente stato del genere umano, essere conosciuto da tutti facilmente, con ferma certezza e senza mescolanza d'errore» (Vaticano II, Dei Verbum, 6). «Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo, offre agli uomini, nelle cose create, una perenne testimonianza di sé» (Vaticano II, Dei Verbum, 3). Secondo Ladaria, con DV3, siamo di fronte ad una storia rivelativa che trova il suo culmine in Gesù. Il CVII sostiene che la conoscenza naturale, se è possibile, è tuttavia difficile, al presente stato di peccato: la rivelazione viene allora in nostro aiuto e ci aiuta a completare ciò che manca alla nostra conoscenza di Dio. In altri termini, il CVII “indebolisce” in qualche modo le sicurezze del CVI sul parlare naturale di Dio. «Il concilio Vaticano II fu biblico nel subordinare alla storia ogni esperienza di Dio mediante il mondo creato. Il Vaticano I aveva considerato la rivelazione “soprannaturale” mediata dalla storia biblica solo dopo aver richiamato la conoscenza di Dio disponibile attraverso il mondo creato (DS, 3004). Ma il Vaticano II trattò lungamente della autocomunicazione divina mediante la storia e solo allora riaffermò in una breve conclusione l'insegnamento del Vaticano I sulla rivelazione mediata attraverso la realtà creata (Dei Verbum, nn. 2-6)» (G. O'Collins, Teologia fondamentale, Brescia 1982, p. 93). CVI: N ----> R CVII: R ----> N Il CVII parte dalla storia di Gesù Cristo e ci mostra, in seconda battuta, che la conoscenza naturale fa parte della rivelazione, come un suo elemento interno ma distinto. 6. La teologia naturale secondo Heinrich Ott. Ott, successore di Barth alla cattedra di teologia a Basilea, è un interessante testimone protestante della necessità della religione naturale. «Credenti e non credenti sono vicini nel mondo. Essi fanno quindi essenzialmente le stesse esperienze umane. Perciò per principio non dovrebbe essere impossibile tra essi una intesa – per lo meno una intesa incipiente – su Dio. Ora, allo scopo di una tale intesa, l'uomo credente deve però rivolgersi ad ogni altro uomo in merito all'esperienza di questi ed alla comune esperienza, ad. es. proprio in merito a quella multiforme “esperienza metafisica fondamentale” che può avere luogo in ogni uomo. Il credente deve rivolgersi al non-credente chiedendogli di parlare su un’esperienza della sua vita; egli deve mostrargli in forza di questa esperienza come Dio entri nella sua vita, e alla fine deve dirgli: “Ecco è proprio questo che noi chiamiamo «Dio»”! Intesa in questo senso, la dimostrazione di Dio si rivela come un avvenimento sulla via necessaria del dialogo tra fede ed incredulità, tra fede e dubbio» (H. Ott, Dio, Brescia 1975, pp. 66-67). «Riguardo a ciò che intendiamo con la parola “Dio”, si rende evidente che un Dio la cui esistenza potesse essere dimostrata mediante un procedimento dimostrativo in sé concluso, come lo sono le dimostrazioni della geometria, non sarebbe Dio. Se si parte dal punto di vista dell'essenza stessa di Dio, si ha che una dimostrazione di Dio è in tal senso impossibile» (H. Ott, Dio, Brescia 1975, p. 60). Colui che pretende di dare una dimostrazione teorica cogente di Dio si occupa, in fondo, di un qualcosa che non è Dio ma di qualcos’altro. Non si è affidato a Dio ma ai buoni ragionamenti su Dio. Ogni dimostrazione di Dio non può essere separata, divisa, dalla fede: la conoscenza naturale e la fede, anche se vanno distinte, non possono essere separate. Il teologo non può prescindere dal fatto che Dio si è manifestato nella storia. Ott si riferisce qui all’analisi di Rousselot, il quale aveva scritto riguardo il rapporto tra la conoscenza e l’atto di fede: la conoscenza e la fede non devono essere separate perché la fede stessa ha i suoi occhi che vedono e conoscono. Nell’atto della decisione – secondo Rousselot – l’uomo comprende meglio la verità della fede. Dio ha dato dei segni della sua presenza, oggettivamente accessibili alla ragione umana, ma questi segni hanno bisogno di una fede che li sappia scorgere e, viceversa, la fede ha bisogno di questi segni oggettivi per essere considerata un atto ragionevole. C’è un circolo virtuoso tra fede e ragione: la prima ci permette di vedere i segni come tali, la seconda ci permette di vedere che la fede è ragionevole. Le dimostazioni rimangono naturali ma è la fede che dà alla ragione la luce per vedere che i segni sono credibili. Secondo Fisichella, il giudizio di credibilità e l’atto di fede costituiscono un unico e medesimo atto, un’unica e medesima realtà, distinta in sé stessa ma unica. Es. non esiste nessuna dimostrazione o motivo cogente per amare l’altro. L’amore non è però irrazionale ma ci dona occhi nuovi per comprendere e vedere la persona amata come degna d’amore. La credibilità, la ragionevolezza, dell’amore e l’atto di amare costituiscono un’unica realtà. Può essere così che un agnostico può dire di comprendere come i cristiani parlino di Dio senza aver tuttavia fede in lui: ci vuole allora una integrazione illuminante per completare e fargli vedere chiaramente ciò che egli già sapeva. 7. La questione dell’analogia (i tipi classici di analogia, l’analogia entis e l’analogia fidei. Sap 13, 5: il nostro conoscere Dio è analogico. L’analogia indica, in ambito filosofico, il procedimento di parlare correttamente di Dio e su Dio, con i mezzi del linguaggio umano. L’uomo, in quanto creatura di Dio, si riferisce a Dio e questa situazione gli permettedi parlare di Dio. La tradizione filosofica ha parlato così di analogia entis: es. abbiamo un’esperienza della vita e, di conseguenza, parliamo analogicamente di un Dio vivente, vivo. Il testo magisteriale fondamentale: Concilio Lateranense IV, DH806, «tra il Creatore e la creaura, per quanto grande sia la somiglianza, maggiore è la differenza». Un termine analogico si distingue dai termini univoci (quando un termine indica una realtà specifica) o equivoci (quando un termine può essere applicato a realtà completamente diverse: es. il termine “calcio”: 1) sostanza del sangue 2) gioco 3) parte della pistola 4) brusco gesto offensivo). 08/03/2011 – Lezione 5 L’analogia si applica a realtà che sono in parte simili e in parte dissimili. La somiglianza può essere di vario genere: di proporzione o attribuzione => consiste nel fatto che un termine compete a varie realtà, sebbene ad ognuna di esse in modo diverso. In altre parole, un predicato viene trasposto da un analogato principale ad altre realtà che hanno una somiglianza proporzionale con esso; un esempio classico è “Paolo è sano”, “il colorito di Paolo è sano”, “il cibo è sano”, “l’aria è sana”: attribuiamo il termine “sano” a diversi soggetti. La caratteristica di essere sano è propria solo di Paolo che, essendo l’unico vivente, è l’unico soggetto di cui si possa dire che goda di buona salute. Degli altri soggetti non si può dire questo propriamente perché non sono degli essere viventi. Questi altri soggetti si possono dire, in qualche modo, “sani” solo in riferimento al buono stato di salute di Paolo il quale, solamente e primariamente, è soggetto del predicato “sano”. È per questa ragione che “Paolo” viene detto primo, superiore, sommo analogato e, per gli altri soggetti, si può individuare la relazione di “sanità” con “Paolo”. Va ben compreso che il riferimento al primo analogato non è convenzionale o occasionale ma è fondato sulla realtà e confermato dall’esperienza. In altri termini, non parliamo di metafore. Il riferimento degli analogati inferiori all’analogato superiore è fondato sulla realtà che non permette alcuna equivocità. di proporzionalità => questo tipo di analogia funziona con quattro (due coppie di) termini. In questo tipo di analogia, la somiglianza viene stabilita non più tra i significati dello stesso predicato attribuiti ai diversi soggetti ma viene stabilita tra le relazioni (o rapporti) che intercorrono tra il predicato e i soggetti. Es. come l’unico corpo ha molte membra, così l’unica Chiesa ha molti carismi. È la relazione corpo/membra ad essere simile a quella Chiesa/carismi. Questa analogia si può esprimere con un formula che ricorda quella di una formula matematica: vedere : occhio = capire : mente; quando, però, in matematica, scriviamo una proporzione, stabiliamo che i due rapporti sono identici, nel caso dell’analogia di proporzionalità, stabiliamo che i rapporti sono simili (analoghi, appunto, ma non identici). Inoltre l’analogia può riguardare delle capacità reali: analogia di proporzionalità intrinseca o propria (es. occhio/mente). Es. il tramonto sta al giorno come la vecchiaia sta alla vita. Rispetto all’esempio occhio/mente, questo secondo esempio è più una metafora (infatti il giorno non possiede propriamente il tramonto) e, dunque, non è un’analogia di proporzionalità intrinseca. Questo secondo esempio è, dunque, un’analogia di proporzionalità estrinseca o impropria. “La mente vede” => propriamente non è la mente che vede ma l’occhio. In questo caso, si può dire che “l’occhio vede” è un primo analogato che ci permette di capire il terzo esempio “la mente vede”, che risulta come un secondo analogato, derivato dal primo. La scoperta fondamentale della metafisica, molto probabilmente, è stata l’analogia entis. Il termine “ente” si predica in modo analogo di diversi soggetti, collocandosi sopra i generi e le categorie universali che li descrivono. Il professore è ente nello stesso senso in cui la cattedra è un ente? In particolare, ente si dice secondo un’analogia di proporzionalità propria di un oggetto, di una sostanza, e delle sue proprietà o accidenti. Questo deriva dal fatto che una proprietà è sempre una proprietà di qualcosa. Può esistere solo in altro e non per se stessa. Un colore, un’estensione, una temperatura esistono sempre e solo in un oggetto mentre questo oggetto esiste in proprio. Proprietà : oggetto = oggetto : modo di essere. Temperatura : corpo = corpo : esistenza. Si dice ente di un oggetto limitato che ha l’essere per partecipazione e lo si dice secondo un’analogia di proporzione rispetto all’atto puro che è l’Essere per se stesso. Essere (analogato principale) => uomo, albero, temperatura (analogati secondari). L’atto puro è la causa degli oggetti limitati. L’atto puro coincide con le proprietà trascendentali di Uno, Vero e Bene ed è causa di esse negli enti limitati. L’essere assoluto è, esiste, in un modo diverso rispetto agli enti limitati. Vie del teologare: apofatica o negativa, tipica dell’Oriente cristiano, in cui si pone l’accento sul fatto che di Dio possiamo conoscere con certezza ciò che Dio non è, piuttosto di ciò che è; positiva, tipica dell’Occidente che si è appoggiata sulla teoria dell’analogia: in particolare, in base all’analogia di proporzione semplice (e a Sap 13, 5), la teologia occidentale ha potuto riconoscere una certa somiglianza tra le perfezioni terrene e la perfezione celeste. Si tratta certamente di un approccio che non pretende né può risolvere il mistero divino; dei nomi divini; dal momento che l’uomo si esprime necessariamente attraverso un linguaggio, noi possiamo attribuire a Dio gli appellattivi con i quali designiamo le perfezioni delle creature, ma sono analogicamente. Queste perfezioni sono gli effetti della Causa/perfezione divina, che da noi non è conosciuta direttamente ma solo indirettamente. Non possiamo parlarne direttamente perché Dio è superiore ai suoi effetti e li trascende. Ma possiamo evitare, però, l’equivocità, in quanto c’è una relazione reale, di causa/effetto. Così i nomi divini si dicono secondo un’analogia di proporzione, essendo Dio l’analogato principale e le creature gli analogati secondari (che ad es. sono “buoni” solo per partecipazione). Da notare che qui non parliamo di una Bontà, o di un Essere, come analogati superiori cui partecipano Dio in maniera perfetta e le creature in maniera imperfetta. Al contrario, Dio (somma Bontà o Essere assoluto) è sempre l’analogato superiore, cui partecipano tutti gli altri enti. Non c’è, in altri termini, un genere Bontà o Essere cui partecipino Dio e l’uomo. Dio è Bontà o Essere, di cui partecipano tutti gli enti. Allo stesso modo, il concetto di ousia, usato per esprimere la natura divina (la sostanza divina), non va inteso nel senso di un analogato superiore di tre persone divine, che risulterebbero così tre analogati inferiori di una realtà superiore. Gli altri nomi (cioè quelli non trascendentali) vengono attribuiti a Dio solo metaforicamente e non realmente (per es. Dio “roccia”, “leone”, “re”). Il linguaggio della Scrittura offre, mediante l’utilizzo dei diversi generi letterari, miriadi di esempi. Tre tappe di ogni teologare: affermativa negativa eminenza Forse c’è chi pensa che l’analogia sia una cosa ovvia, che s’impone da sé come niente di speciale. Karl Barth, però, nella sua Dogmatica Ecclesiale, dice così: ritengo che l’analogia entis sia l’invenzione dell’anticristo e penso che, a motivo di essa, non ci si possa fare cattolici. Il discorso sull’analogia, anche con tutte le precauzioni possibili, porta inevitabilmente, secondo Barth, a intendere Dio non come analogato superiore ma come un analogato derivato che partecipa perfettamente di realtà che gli preesistono. Il parlare con l’analogia entis dà per scontata, secondo Barth, la radicale alterità divina. Barth preferisce parlare allora di analogia fidei (Rm 12, 6). Nella teologia cattolica, questa espressione ha assunto il significato tecnico di armonia e coesione delle verità della fede tra loro e nellatotalità del progetto della rivelazione; verità che non possono entrare in conflitto tra loro (CCC 114). Barth, invece, cerca di fondare la possibilità e l’intelligibilità della rivelazione unicamente sul dono della grazia: i nostri concetti e i nostri termini umani, in quanto nostri, sono totalmente incapaci di esprimere Dio e i suoi misteri. La loro capacità di essere veri viene loro soltanto dalla rivelazione. Di Dio si può dire, per grazia, soltanto ciò che Dio dice di sé; cioè solo la sua Parola, il Cristo. Possiamo dire che “Dio è amore” non per analogia ma perché nella Scrittura, e in Cristo, è “scritto” “Dio è amore”. Dio, dunque, ci fa il dono di grazia di poter utilizzare riguardo a Lui i nostri termini. Tale prospettiva, tuttavia, non risolve il problema dell’intelligibilità della rivelazione. Continueremo, infatti, ad esprimerci secondo le parole del nostro linguaggio, perché sono le uniche disponibili. Anzia, possiamo dire, con Dei Verbum, che Dio usa le nostre parole e le analogie che sono loro proprie. Senza contare, poi, che, poggiando la grazia sulla natura ed avendoci dato Dio questa natura logico-discorsiva, Dio non può far altro che utilizzare le nostre parole umane e le nostre analogie. Noi cattolici non neghiamo l’analogia fidei ma diciamo anche che non c’è una contraddizione tra analogia entis e analogia fidei perché entrambe sgorgano dal fatto che Dio è Primo, come Creatore e come Colui che dà la grazia. «Se il Cristo può utilizzare tutte le risorse dell'universo creato per farci conoscere Dio e i costumi divini, è perché la parola creatrice ha preceduto ed è il fondamento della parola rivelatrice, ed è perché l'una e l'altra hanno come principio la stessa Parola interiore di Dio. La rivelazione del Cristo suppone la verità dell'analogia» (R. Latourelle, Teologia della Rivelazione, Assisi 1986, p. 425). Parte II Il Dio uno e trino nella storia della salvezza. In che modo Dio rivela se stesso nell’Antico Testamento? La tracce trinitarie nella storia veterotestamentaria. La rivelazione di Dio nella vita di Gesù. Gli attributi divini. L. Ladaria, Il Dio vivo e vero, Casale Monferrato 1999, pp. 59-149. J. O’Donnell, Il mistero della Trinità, Casale Monferrato 1989, pp. 59-75. B. Mondin, La Trinità mistero d’amore, Bologna 1993, pp. 68-100. D. Kowalczyk, La personalità in Dio, Roma 1999, pp. 110-136. 1. Cosa troviamo e cosa non troviamo nel Nuovo Testamento dal punto di vista della fede trinitaria? «Lo scopo fondamentale a cui mira la teologia consiste nel presentare l'intelligenza della Rivelazione ed il contenuto della fede. Il vero centro della sua riflessione sarà, pertanto, la contemplazione del mistero stesso del Dio Uno e Trino. A questi si accede riflettendo sul mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio: sul suo farsi uomo e sul conseguente suo andare incontro alla passione e alla morte, mistero che sfocerà nella sua gloriosa risurrezione e ascensione alla destra del Padre, da dove invierà lo Spirito di verità a costituire e ad animare la sua Chiesa. Impegno primario della teologia, in questo orizzonte, diventa l'intelligenza della kenosi di Dio, vero grande mistero per la mente umana, alla quale appare insostenibile che la sofferenza e la morte possano esprimere l'amore che si dona senza nulla chiedere in cambio. In questa prospettiva si impone come esigenza di fondo ed urgente una attenta analisi dei testi: in primo luogo, dei testi scritturistici, poi di quelli in cui si esprime la viva Tradizione della Chiesa. A questo riguardo si propongono oggi alcuni problemi, solo parzialmente nuovi, la cui coerente soluzione non potrà essere trovata prescindendo dall'apporto della filosofia» (Fides et ratio, 93). Il vero centro della teologia è il Dio uno e trino, cui si accede riflettendo sul mistero dell’Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione del Cristo, Figlio di Dio. Dio in Gesù Cristo si rivela come Uno segnato dall’Alterità e dalla Reciprocità. Gesù si presenta a noi come il Figlio di Dio per eccellenza (cfr. Mt 11, 25-27). Inoltre, Gesù si presenta come il Figlio Unigenito (Gv 3, 16). Questo Gesù è l’oggetto di fede insieme con Dio Padre (Rm 10, 9). Il culmine dei testi del NT, in cui si parla della figliolanza del Figlio dal Padre è il Prologo di Gv ma si può aggiungere anche Gv 20, 28. Accanto alla rivelazione del Padre e del Figlio, troviamo la presenza costante dello Spirito Santo, che è Spirito di Dio e di Gesù ad un tempo (Gv 20, 22). Nella donazione dello Spirito, si vede che lo Spirito è intimamente unito al Padre e al Figlio (da cui la consegna di fare discepole tutte le nazioni: Mt 18, 19). Tutta la dottrina trinitaria, con le ricerche antiche e moderne, hanno il loro fondamento nelle Scritture. La Trinità non è altro che il Dio che si è rivelato nel vangelo. Paolo Gamberini: la dottrina della Trinità ha lo scopo di narrare la vita, la morte e la risurrezione di Gesù di Nazaret come “storia di Dio”. D’altra parte, non è possibile indicare nel NT le frasi che enunciano in maniera esplicita ed univoca la dottrina trinitaria come noi la conosciamo oggi. : nel NT non c’è una dottrina trinitaria; esso offre centro dei punti d’appoggio concettuali da cui ha potuto scaturire la dottrina trinitaria così come la conosciamo noi. Agostino sostiene che la Scrittura non parla mai delle Tre Persone divine. Rahner sostiene che nel NT non troviamo una presentazione esplicita della dottrina sulla Trinità immanente. Oriente => è Teofilo d’Antiochia il primo ad usare, nella seconda metà del II secolo, il termine “Trias”; Occidente => Tertulliano, nel III secolo, è il primo ad usare il termine “Trinitas”. Nonostante ciò, è possibile dire che la struttura trinitaria si impose nella Chiesa sin dalle origini (cfr. il martirio di Stefano in At, in cui ci sono chiari elementi della dottrina trinitaria, anche se non articolati con quella chiarezza concettuale cui saremo abitutati dopo l’inculturazione del cristianesimo nel mondo ellenistico). 11/03/2011 – Lezione 6 2. La storia dell’Antico Testamento: Dio trascendente che si fa vicino La storia dell’autorivelazione di Dio viene riassunta brevemente in Eb 1, 1-2: «1 Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, 2 in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato l'universo». «Il Dio dell'Antico Testamento è forse il personaggio più sgradevole di tutta la letteratura: geloso e fiero di esserlo, è un castigamatti, meschino, iniquo e spietato; sanguinario istigatore della pulizia etnica; un bullo misogino, omofobo, razzista, infanticida, genocida, figlicida, pestilenziale, megalomane, sadomasochista e maligno secondo il suo capriccio» (R. Dawkins, L’illusione di Dio) Ovviamente, Dawkins si riferisce a quei frammenti in cui Dio si mostra furente per l’infedeltà di Israele e minaccia o decide di punirlo severamente. Il problema è, ovviamente, un problema di ermeneutica biblica: abbiamo bisogno allora di criteri che ci permettano di intendere correttamente le Scritture (cfr. DV 12, CCC 112, 114): prestare grande attenzione al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura => per quanto differenti siano i libri che la compongono, la Scrittura è una in forza dell’unità del disegno di Dio, di cui Cristo è il centro. Il cuore di Cristo designa la Sacra Scrittura che, appunto, rivela il cuore di Cristo: prima chiuso; aperto, squarciato, sulla croce. Solo con la morte in croce di Cristo ci è aperto pienamente il tesoro prezioso della Scrittura, di cui ci è ormai rivelato pienamente il senso. Non si può allora leggere la Scrittura senza una prospettiva cristocentrica e pasquale, pena un suo travisamento. leggere la Scrittura nella Tradizione vivente di tutta la Chiesa => secondo un detto di Padri, la Sacra Scrittura è scritta nel cuore della Chiesa prima di essere scritta con e su strumenti materiali. La Chiesa porta nella sua Tradizione la memoria viva della Paroladi Dio e nello Spirito Santo che le dona l’interpretazione di essa nel suo senso spirituale. La Bibbia, come sappiamo, non è caduta dal cielo ma è nata sotto ispirazione all’interno di Israele prima e della Chiesa poi. essere attenti all’analogia della fede => qui ovviamente non si tratta dell’analogia della fede nel senso di Barth ma si intende la coesione delle verità di fede tra loro e nella totalità del progetto di liberazione e salvezza. «La collera di Dio è espressione del fatto che ho vissuto contraddicendo quell’amore che costituisce l’essenza di Dio. Chi si allontana da Dio, chi si allontana dal bene, sperimenta la sua collera. Chi si pone al di fuori dell’amore, sprofonda nel negativo. Non è quindi un colpo inferto da un dittatore assetato di potere, ma è soltanto l’espressione della logica intrinseca a un azione. Se io mi pongo al di fuori di ciò che è conforme alla mia idea di creazione, al di fuori dell’amore che mi sorregge, allora precipito nel vuoto, nelle tenebre. Allora non mi trovo più, per così dire, nella sfera dell’amore, ma in una sfera che può essere definita come quella della collera» (J. Ratzinger, Dio e il mondo, Cinisello Balsamo 2001, p. 92). Potremmo dire, allora, che non è Dio che punisce ma è il peccato che porta alla morte e ha conseguenze su svariate generazioni (cfr. Es 34, 7). Allo stesso modo, il bene è diffusivum sui, si espande di generazione in generazione. Il castigo di Dio esiste – eccome! – ma come conseguenza del peccato e delle opere malvage. Non che Dio si sforzi di punire. Il peccato porta già in sé la sua pena. Dio, fin dall’inizio, si presenta come colui che vuole avere una comunione intima con l’uomo e, anche quando il peccato rompe questa comunione, Dio cerca sempre di ricucire lo strappo («Molte volte hai offerto agli uomini il tuo perdono», Preghiera eucaristica IV). L’alleanza con Noè, che riguarda anche tutta la creazione, resta valida fino alla proclamazione universale del Vangelo. Dopo Noè, è con Abramo che Dio formula un patto, il cui segno è la circoncisione. Vengono poi la liberazione dall’Egitto, Mosè e il dono della Legge. Verranno in seguito i profeti, che annuncerano la salvezza definitiva, che si compirà in Gesù Cristo. In questa storia, Dio si rivela come il Dio unico, che da un lato trascende tutto ma che, dall’altro, vuole essere vicino all’uomo. Il monoteismo che noi conosciamo è il frutto di una lunga storia. Il popolo eletto, all’inizio della sua storia, non conosceva il monoteismo stretto. In una prima fase, Israele confessava piuttosto un monoteismo pratico o,più precisamente, monolatria (noi serviamo un solo Dio, che consideriamo il più potente, ma forse ce ne sono anche altri!). Enoteismo: è un sinonimo di monolatria. La preghiera “Ascolta Israele…” va intesto precisamente in questo senso. Anche Is 43, 10-11 o Is 45, 22 non sono affermazioni metafisico-monoteista ma soteriologiche: il dio Salvatore è un solo: YHWH. Il monoteismo dell’AT deriva dal riconoscimento della presenza salvifica di YHWH nella storia dell’uomo. Nella Bibbia, dunque, a differenza della teologia naturale, non partiamo con una riflessione ma innanzitutto da un’esperienza di Dio salvatore, su cui riflettiamo per giungere ad un monoteismo. Le due prospettive, però, non sono contrastanti ma si implicano a vicenda. «11 Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire dall'Egitto i figli d'Israele?» 12 E Dio disse: «Va', perché io sarò con te. Questo sarà il segno che sono io che ti ho mandato: quando avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, voi servirete Dio su questo monte». 13 Mosè disse a Dio: «Ecco, quando sarò andato dai figli d'Israele e avrò detto loro: "Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi", se essi dicono: "Qual è il suo nome?" che cosa risponderò loro?» 14 Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono». Poi disse: «Dirai così ai figli d'Israele: "l'IO SONO mi ha mandato da voi"». 15 Dio disse ancora a Mosè: «Dirai così ai figli d'Israele: "Il SIGNORE, il Dio dei vostri padri, il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi". Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione» (Es 3,11-14). Questa risposta, data da Dio a Mosè, sembra evasiva e poco gentile (es. “Dove vai?” – “Vado dove vado!”). Essa segna il rifiuto di un nome ma, proprio per questo, la risposta esprime la realtà di Dio, infinitamente al di sopra di tutto ciò che possiamo dire o capire (CCC 206). Questo nome vuol dire che Dio è il mistero per eccellenza: è santo. È completamente diverso da tutto ciò che esiste. È la stessa santità (CCC 208). Dio stesso si descrive come «il Santo in mezzo a voi» (Os 11, 9). C’è un paradosso nella rivelazione dell’AT, Dio è santo, lontano, misterioso e trascendente e, allo stesso tempo, Dio è vicino, fedele e presente nella storia umana. [Usi della parola “El”: Gen 14, 19; Gen 17, 1; Is 7, 14. Spesso troviamo anche “Elohim” e “Adonai”.] Nelle religioni, se prevale il lato della trascendenza divina, Dio si allontana dalla vita dell’uomo e si ha un deismo pratico => Dio esiste ma non si interessa della vita dell’uomo. Per salvare la vicinanza del divino, si creano, sempre più numerosi intermediari tra Dio e l’uomo. Le religioni orientali, per esempio, parlano di una molteplicità di Dio (politesimo) ma, in fondo, hanno l’idea di un’unica divinità “dietro” tale molteplicità. La fede trinitaria ci permette di evitare queste due prospettive: con un Dio uno e trino, i cristiani possono parlare di incarnazione e, nello stesso tempo, continuare a parlare di un Dio trascendente e ineffabile. Senza la Trinità sarebbe non soltanto impossibile parlare di Incarnazione ma anche l’Incarnazione stessa, molto probabilmente, sarebbe impossibile. I due dogmi – trinitario e dell’incarnazione – non fanno allora altro che spiegare il duplice volto del Dio dell’AT: trascendente e in-mezzo-a-noi. 3. Le tracce trinitarie nell’Antico Testamento È ovvio che l’AT è concentrato sul Dio unico e non c’è una dottrina esplicita della Trinità. Ma ci sono diversi intermediari tra Dio e l’uomo che costituiscono tracce della Trinità anche nell’AT. Rahner sostiene che i Padri si sono dedicati intensamente a scoprire tracce della Trinità non soltanto nell’AT ma anche nella cultura pagana ed extrabiblica (i Padri amavano citare questo proposito Gv 8, 56 e Mt 13, 17: se Abramo e i profeti hanno desiderato vedere il Figlio, vuol dire che ne avevano una certa conoscenza/intuizione e, dunque, che avevano una certa conoscenza della Trinità). Oggi si tratta semplicemente di dire che, alla luce del NT, alcune esperienze naturali e veterotestamentarie possono essere interpretate come un riferimento alla Trinità anche se atematico e irriflessivo. L’AT ci parla delle figure mediatrici che contribuiscono a rendere Dio più vicino all’uomo: la Parola di Dio, lo Spirito di Dio, la Sapienza di Dio. A volte queste figure sembrano presentare tratti personali: sono personificazioni di potenze divine che preludono contenutisticamente alla dottrina della Trinità (Rahner). Dio Padre. Dio si fa riconoscere come il “Padre” di Israele. Nell’AT, la parola “Padre”, che caratterizza diffusivamente il NT, appare piuttosto raramente e non è più importante degli altri termini per indicare YHWH. Esisteva certamente una riserva da parte degli ebrei nell’usare questo termine, dal momento che esso era fortemente usato nei culti pagani (cfr. Ger 2, 27). Era viva, inoltre, la percezione del rischio di attribuire a Dio gli attributi sessuali/genitali maschili. Il termine “Padre”, comunque, veniva accettato come una giusta espressione dell’Alleanza e dell’essere popolo eletto. Cfr. anche Es 4, 22-23: il popolo eletto viene chiamato “figlio di Dio”: anche Sap 18, 13; anche il re viene chiamato “figlio” 2Sam 7, 14, oppure Sal 2, 7. Anche l’esperienza della creaturalità porta al riconoscimento della paternità divina: Mal 2, 10; Is 64, 7. La sola creaturalità non basta per parlare della relazione padre/figlio nel senso pieno diquesta relazione. Infatti, il Creatore non deve essere necessariamente il padre: il figlio ha la stessa natura del padre; la creatura non ha tale comunanza con il Creatore. In altri termini, dalla creazione non seguono logicamente la paternità e la figliolanza, che implicano una comunanza di natura. Nell’AT, alla figura del Padre si accosta l’idea di una certa tenerezza ma anche di una certa severità nell’educazione di coloro che sono amati (cfr. Prv 3, 12; Sal 103, 13; Ger 3, 14). L’immagine paterna di Dio è stata sviluppata soprattutto dal profeta Os 11, 1 e segg.; in questo passo, il profeta si riferisce alla genitorialità di Dio, che non esclude tratti di maternità (cfr. Is 19, 15; Is 66, 13). Giovanni Paolo I, Angelus, 10 settembre 1978: noi siamo oggetto, da parte di Dio, di un amore intramontabile; sappiamo che ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando è notte. È papà. Più ancora: è madre! Giovanni Paolo II, Udienza del mercoledì, 20 gennaio 1999: una paternità così divina e, nello stesso tempo così umana, riassume in sé quelle caratteristiche che di solito si attribuiscono alla maternità. L’atteggiamento divino verso Israele si manifesta così anche mediante tratti materni che ne esprimono la tenerezza e la condiscendenza. Giovanni Paolo II, Udienza, 8 settembre 1999: commentando la parabola del figlio prodigo: Dio è anzitutto Padre. Le mani di Dio sono mani di padre e di madre nello stesso tempo. Il padre misericordioso della parabola contiene in sé, trascendendoli, tutti i tratti della paternità e della maternità. Gettandosi al collo del figlio, mostra i tratti di una madre. Secondo alcuni interpreti, il famoso quadro di Rembrandt che ritrae l’abbraccio del padre al figlio prodigo, dipinge il padre con una mano maschile (la sua mano sinistra) e una femminile (la sua destra). Benedetto XVI, invece, non è un grande entusiasta del parlare di Dio come madre. Quand’era cardinale si è espresso più volte con preoccupazione su questo tema, temendo che questo tipo di linguaggio possa dar luogo ad interpretazioni non ortodosse del ruolo di Dio-Padre nel vangelo. Nel primo volume di Gesù di Nazaret, il papa si chiede direttamente se Dio è madre e opera una distinzione: nella Bibbia, “madre” è un’immagine di Dio non un suo nome: Gesù ha insegnato all’uomo a chiamare Dio “padre” e non “madre”. Altrove, in un libro-intervista con Messori, Ratzinger aveva già sostenuto che il simbolismo usato da Gesù è irreversibile e che noi non abbiamo il diritto di cambiare il cristianesimo a nostro piacimento, dovendolo trasmettere integro, non essendo una nostra proprietà. La domanda è, allora: quali espressioni di Gesù sono irreversibili e immutabili e quali no? Dalla risposta che si dà a questa domanda sorgono tanti problemi in tutti i campi: dogmatico ma anche liturgico o catechetico. 22/03/2011 – Lezione 7 Rahner: quando nel NT, troviamo l’espressione “ὁ θεός” (Rm 15, 6) si tratta sempre di Dio Padre, la prima Persona della Trinità, cioè quel Dio che l’uomo ha conosciuto nell’AT. Ci sono sei testi (Rm 9, 5; Gv 1,1; Gv 1, 18; Gv 20, 28; 1Gv 5, 20; Tt 2, 13), invece, in cui il Figlio viene chiamato “θεός”, ma sempre con qualche aggiunta o precisazione che sottolinea la ritrosia che i cristiani di allora avevano nel chiamare il Figlio “dio”.[1: K. Rahner, Theos nel Nuovo Testamento, in Id., Saggi teologici, Roma 1965.] Particolarmente interessanti sono i testi del NT in cui “ὁ θεός” agisce nei confronti di Cristo, cioè in cui compaiono Dio e Cristo insieme. Quando ciò avviene, uno dei due viene qualificato con un attributo: o il primo è “Padre” o il secondo è “Figlio”. In ogni caso, non avviene mai che una delle Persone divine venga nominata accanto alla Trinità. Rahner suggerisce inoltre che sia poco probabile che il linguaggio neotestamentario, molto semplice, usi due termini per nominare soggetti che si trovano l’uno accanto all’altro e, nello stesso tempo, li comprenda come soggetti uniti (in altri termini, un’espressione come “Dio Padre e Gesù suo Figlio” non implica affatto che “Dio” valga sia per il Padre che per il Figlio”). Considerato ciò, dobbiamo dire che il NT accoglie la dottrina dell’AT e che quando il NT parla di “ὁ θεός” parla sempre e solo del Padre. Nell’AT, Dio rivelò i suoi attributi tramite due modi principali: la Parola e lo Spirito. YHWH non si manifesta mai in prima persona. La “Parola di YHWH” ha un notevole significato per la preparazione della rivelazione trinitaria. La “Parola di Dio” prende forma nel parlare (si cfr. Es 24, 3): Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore: Dio è assente ma si rende presente, manifestando il suo volto, nelle sue parole. Sul Sinai, Mosè non vede Dio ma si manifesta nella sua Parola. La Parola agisce come creatrice; agisce come forza che conserva l’esistenza del creato, che forma il popolo di Dio (Dieci Parole). Il concetto di “Parola” aiuta a capire la trascendenza e l’immanenza di Dio. Dio lontano si fa vicino nella sua Parola. Nell’AT si vede una tendenza verso la personificazione e l’ipostatizzazione della Parola di Dio; tendenza che, ovviamente, arriverà al suo compimento nel prologo di Gv. Špidlik: comparando i testi di Gv, possiamo dire quanto segue. Agli antichi fu rivelato che Dio pronuncia spesso la sua Parola e la manda nel mondo; essi, però, non avevano idea che questa sua Parola fosse Persona. Fu loro rivelato progressivamente che Egli è Persona divina in relazione col Padre come suo unico Figlio.[2: Špidlik T., Noi nella Trinità.] Lo “Spirito”, nell’AT, ha molti significati: viene solitamente inteso come potenza divina invisibile che, tuttavia, vivifica tutto (cfr. Sap 1, 7). Lo “Spirito” viene presentato nell’AT sia come attributo che come agire di Dio ma, d’altra parte, è chiara una tendenza alla personificazione (cfr. 2Sam 23, 2) così come accade per il Verbo. Si veda anche Gen 1, 2: molti Padri vi hanno visto la presenza dello Spirito Santo come Persona che opera insieme alle altre due alla creazione del mondo. Giovanni Paolo II: la promessa dello Spirito fatta da Gesù è già stata annunciata nell’AT (cfr. Giole 3, 1; Ez 36, 26), Discorso del 26 aprile 1989. Un altro concetto importante, accanto a “Parola” e “Spirito”, è “Sapienza”, che viene interpretata come un altro anticipo della rivelazione trinitaria. Essa è legata alla “Parola di Dio”. Prima dell’esilio, essa viene riferita solo all’ambito pratico-morale. Nel post-esilio, invece, essa comincia ad assumere connotati più speculativi, presentandosi come “emanazione della potenza di Dio” (cfr. Sap 7, 25). Nell’AT, il processo di personificazione e ipostatizzazione della Sapienza è andato molto avanti (Sir 24, 1). Ovviamente non si può parlare di ipostasi della Sapienza in senso proprio ma, alla luce del NT, si vede in essa una preparazione della rivelazione trinitaria. Gesù applica a sé stesso ciò che nell’AT fu detto della Sapienza (cfr. Mt 11, 28 oppure Gv 6, 35): nell’AT si dice più o meno lo stesso della Sapienza (cfr. Sir 24, 18). Špidlik: i primi apostoli capirono che Gesù è Sapienza di Dio, non soltanto per il fatto che egli la comunica agli uomini ma anche per il fatto che egli è la Sapienza stessa (cfr. 1Cor 1, 24). Un altro concetto importante è quello di “Angelo di YHWH” che appare, nell’AT, come realtà che ha qualche missione da compiere nel nome del Signore. Qualche volta, però, nei racconti biblici è difficile distinguere tra l’Angelo e il suo Signore (cfr. Gen 16: Agar incontra l’Angelo del Signore ma subito dopo ella dice all’Angelo: tu sei il Dio della visione). Per gli israeliti, la figura dell’Angelo è un intermediario ponte tra Dio lontano e l’uomo. Egli è un anticipo delle relazioni trinitarie. “Nome”, “Volto”, “Gloria di Dio” sono altri concetti che anticipano e preparano la rivelazione trinitaria (cfr. Gen 1, 26: in Dio esiste un “noi”, perciò dice “facciamo”, anche se alcuni esegeti pensano che YHWH si rivolga alla sua corte celeste; altri, invece, come Ireneo e Tertulliano vi vedono un colloquio intratrinitario).Un altro testo è Sal 110, 1: l’oracolo. Ratzinger, commentando questo passo: la scoperta del dialogo, all’interno di Dio stesso, costrinse ad ammettere in Dio un “io” e un “tu”. Il passo più famoso, però, che anticipa la dottrina trinitaria è la visita dei “tre uomini” ad Abramo alle querce di Mamre (Gn 18, 1-10). Alla luce del NT, questo passa ci rimanda all’inabitazione trinitaria: Dio vuole dimorare in noi e vuole che noi lo invitiamo a farlo. C’è appena necessità di notare che Abramo si rivolge ai tre al singolare (anche se, in altri momenti, Abramo parla al plurale). Alla fine, è il testo stesso che dice che il Signore (al singolare) tornerà tra un anno. [Riguardo alla Trinità di Rublev, ci sono diverse interpretazioni riguardo l’identità delle persone: ad es. alcuni dicono che l’Angelo al centro sia il Padre (Ekdokimov), altri dicono che invece sia il Figlio e che il Padre sia l’Angelo che si trova alla sinistra di chi guarda il quadro (Bunge). La tavola attorno alla quale stanno i tren Angeli simboleggia il mondo (il rettangolo che si vede sotto il calice simboleggia proprio la Terra, che al tempo di Rublev si pensava fosse rettangolare). Al centro della tavola sta il calice eucaristico: l’offerta sul e del mondo. L’eucaristia è allora il vero centro mistico del cosmo. Nella lettera Mane nobiscum Domine, scritta in occasione dell’Anno Eucaristico 2004, Giovanni Paolo II menziona l’icona di Rublev in ambito eucaristico: «Il racconto dell'apparizione di Gesù risorto ai due discepoli di Emmaus ci aiuta a mettere a fuoco un primo aspetto del mistero eucaristico, che deve essere sempre presente nella devozione del Popolo di Dio: l'Eucaristia mistero di luce! In che senso può dirsi questo, e quali sono le implicazioni che ne derivano per la spiritualità e per la vita cristiana? Gesù ha qualificato se stesso come «luce del mondo» (Gv 8,12), e questa sua proprietà è ben posta in evidenza da quei momenti della sua vita, come la Trasfigurazione e la Risurrezione, nei quali la sua gloria divina chiaramente rifulge. Nell'Eucaristia invece la gloria di Cristo è velata. Il Sacramento eucaristico è «mysterium fidei» per eccellenza. Tuttavia, proprio attraverso il mistero del suo totale nascondimento, Cristo si fa mistero di luce, grazie al quale il credente è introdotto nelle profondità della vita divina. Non è senza una felice intuizione che la celebre icona della Trinità di Rublëv pone in modo significativo l'Eucaristia al centro della vita trinitaria» (n. 11). 4. Gesù Cristo rivela il mistero trinitario Due linee di argomentazione: la prima linea consiste nella testimonianza di Gesù riguardo al suo rapporto eccezionale con Dio Padre; la seconda linea consiste nell’interpretazione post-pasquale delle parole pre-pasquali di Gesù; è la risposta alla domanda “Chi è Gesù risorto?” che ha portato la Chiesa alla riflessione e alla dottrina trinitaria. È da notare che la teologia liberale vorrebbe vedere un abisso tra il Gesù storico e il Gesù della fede presentato dai vangeli. In questa teologia, si parla della cosiddetta demitizzazione dei racconti evangelici, operazione che dovrebbe portare alla scoperta del nucleo storico nascosto sotto le incrostazioni del mito. È chiaro che i vangeli non sono una cronologia storica ma parlano di Gesù alla luce della Pasqua e della Pentecoste. Il teologo cattolico riconosce nel NT e nei suoi autori dei veri e autentici servi della parola che è stata pronunciata ed operata da Gesù. Soprattutto per quanto riguarda il dogma trinitario (in senso lato), essi pensano che non può essere che Gesù il suo autore. Gesù, ovviamente, non ha mai fatto alcuna lezione di trinitaria ai suoi discepoli. Nel NT non troviamo la dottrina della Trinità così come noi la esponiamo oggi, con tutti i concetti unitrinitari connessi. Come Gesù rivela allora la Trinità? Rivelando il suo rapporto intimo e unico con il Padre. Gesù si rivela come Figlio di Dio e Messia. Rivela la sua autocoscienza. In Novo Millennio Ineunte, leggiamo: «Volto del Figlio. Questa identità divino-umana emerge con forza dai Vangeli, che ci offrono una serie di elementi grazie ai quali possiamo introdurci in quella «zona-limite» del mistero, rappresentata dall'auto-coscienza di Cristo. La Chiesa non dubita che nel loro racconto gli Evangelisti, ispirati dall'Alto, abbiano colto correttamente, nelle parole pronunciate da Gesù, la verità della sua persona e della coscienza che egli ne aveva. Non è forse questo che ci vuol dire Luca, raccogliendo le prime parole di Gesù, appena dodicenne, nel tempio di Gerusalemme? Egli appare già allora consapevole di essere in una relazione unica con Dio, quale è quella propria del «figlio». Alla Madre, infatti, che gli fa notare l'angoscia con cui lei e Giuseppe lo hanno cercato, Gesù risponde senza esitazione: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Non meraviglia dunque che, nella maturità, il suo linguaggio esprima decisamente la profondità del suo mistero, come è abbondantemente sottolineato sia dai Vangeli sinottici (cfr Mt 11,27; Lc 10,22), sia soprattutto dall'evangelista Giovanni. Nella sua auto-coscienza Gesù non ha alcun dubbio: «Il Padre è in me e io nel Padre» (Gv 10,38). Per quanto sia lecito ritenere che, per la condizione umana che lo faceva crescere «in sapienza, età e grazia» (Lc 2,52), anche la coscienza umana del suo mistero progredisse fino all'espressione piena della sua umanità glorificata, non c'è dubbio che già nella sua esistenza storica Gesù avesse consapevolezza della sua identità di Figlio di Dio. Giovanni lo sottolinea fino ad affermare che fu, in definitiva, per questo, che venne respinto e condannato: cercavano infatti di ucciderlo «perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio» (Gv 5,18). Nello scenario del Getsemani e del Golgotha, la coscienza umana di Gesù sarà sottoposta alla prova più dura. Ma nemmeno il dramma della passione e morte riuscirà a intaccare la sua serena certezza di essere il Figlio del Padre celeste» (n. 24). 24/03/2011 – Lezione 8 Non abbiamo la possibilità di negare la divinità di Gesù e, nello stesso tempo, salvare la grandezza della sua umanità. Infatti, se Gesù non è Dio, l’unica conclusione possibile è che, in quanto uomo, raccontava cose molto “strane” per non dire pazzesche. Gesù rivela la paternità universale di Dio ma quando, invece, parla della sua relazione con il Padre, mette in rilievo che la sua propria relazione con il Padre è del tutto diversa da quella che hanno con lui gli altri uomini. Uno dei testi più chiari che domostrano quanto appena detto è il cosiddetto Inno di giubilo in Mt 11, 25-27. La fede di cui parla l’Inno consiste nel riconoscere che nell’uomo Gesù si incontra il Padre che viene incontro all’uomo con tutta la sua potenza salvifica. Gesù ci insegna che il Padre è diverso da lui ma che, nello stesso tempo, hanno la medesima potenza divina: il Figlio, in questo senso, è uguale al Padre, è Dio come il Padre. I capi del popolo ebraico avevano capito bene la pretesa inaudita di Gesù e, proprio per questo, cercavano di ucciderlo (citiamo ancora Gv 5, 18). Questo testo è da ricordare perché è una chiara testimonianza da parte dei nemici. Si cfr. ancora Gv 5, 26; Gv 12, 49. Da ricordare è anche la situazione in cui gli ebrei chiedono a Gesù di rivelare apertamente la sua identità: Gv 10, 24-26: ve l’ho detto e non credete. Gv 10, 30: io e il Padre siamo una cosa sola, il Padre è in me e io nel Padre. Questo “io” ci fa pensare subito a Es 3, 14: Dio che si rivela a Mosè dal roveto ardente. La piena coscienza di Gesù di essere il Figlio del Padre viene espressa chiaramente anche dall’uso del termine “abbà”, usata solo nell’ambito familiare (cfr. Mc 14, 36). Il fatto che la parola si sia conservata è indice di una grande riverenza dei primi cristiani per quest’uso, sicuramente storico, davanti al quale i discepoli che lo ascoltavano dovettero trovarsi parecchio confusi. Jeremias sostiene che,per la sensibilità ebraica, sarebbe stata una cosa del tutto irriverente usare un termine simile per indicare il proprio rapporto con il Padre. Inoltre, è da notare che Gesù non si mette mai accanto agli altri uomini nel dire “Padre nostro”. Egli insegna la preghiera ai discepoli ma non si mette mai a pregarla con loro. Questo ovviamente non vuol dire che ci siano due Padri ma solo che il Signore mantiene ben distinta la propria relazione esclusiva con il Padre da quella paternità “estesa” di cui godono anche i discepoli (cfr. la chiarezza di Gv 20, 17 => l’incontro con Maria di Magdala). Mc 2, 1 e segg. => l’episodio della guarigione del paralitico calato dal tetto e il problema della remissione dei peccati. Solo Dio può rimettere i peccati DUNQUE o Gesù bestemmia o Gesù è Dio. Possiamo allora leggere questo episodio come una testimonianza al rovescio. In questo brano, poi, Gesù si attribuisce il titolo di “Figlio dell’uomo” (cfr. Dn 7, 13-14), titolo abbastanza misterioso che Dn attribuisce ad un uomo che riceverà gloria e potere eterno. Lo stesso titolo verrà usato da Gesù davanti al sinedrio (Mc 14, 61 e segg.). Detto questo è neccesario notare che non soltanto l’identità del Figlio dipende dalla relazione con il Padre ma anche l’identità del Padre dipende da quella del Figlio (Gv 8, 12-59). Questa relazione è così stretta ed essenziale che senza conoscere Gesù non si può conoscere il Padre. Come si può notare, non si parla ancora dello Spirito. Siamo ancora al livello diadico. In Gv troviamo espressioni che sembrano descrivere la relazione Padre-Figlio in modo tale da negare la divinità autentica del Figlio. Ad es. Gv 5, 19: il Figlio da sé non può far nulla. Oppure Gv 5, 30: io non posso far nulla da me stesso. O ancora Gv 14, 28: il Padre è più grande di me. Ratzinger: «Apparentemente questo [il Figlio non può fra nulla da sé] sta in contraddizione con quanto lo stesso Cristo dice di se stesso, sempre in Giovanni: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Prestando più attenzione, però, uno potrà subito riconoscere come le due affermazioni in realtà si richiamino e si postulino a vicenda. Chiamando Gesù Figlio e quindi mettendolo in relazione col Padre, sviluppando la cristologia come affermazione di una relazione, risulta automaticamente la totale relazionalità di Cristo al padre. Proprio perché non sta a sé, egli sta in lui, formando una perenne unità. […] Il figlio in quanto tale non sussiste affatto isolatamente, per conto suo, ma è una cosa sola col Padre; poiché non è accanto, non rivendica nulla di proprio, non afferma di essere soltanto lui, non contrappone al Padre nulla di esclusivamente suo, non si riserva alcuno spazio unicamente suo, egli è perciò totalmente uguale al Padre. La logica è stringente: se nulla c’è per cui egli sia semplicemente lui, nessuna dimensione privata separata, allora egli coincide con Quello, forma con lui “una cosa sola”. E’ appunto questa totalità dell’essere uno nell’altro che intende esprimere la parola “figlio”».[3: Ratzinger J., Introduzione al cristianesimo, pp. 175-176.] Gesù ci fa conoscere anche lo Spirito Santo come ben distinto sia da lui che dal Padre. Nel NT troviamo i diversi nomi dello Spirito lo Spirito del Padre (Mt 10, 20; Gv 15, 26); lo Spirito del (suo) Figlio (Gal 4, 6); lo Spirito di Gesù (At 16, 7). Queste espressioni indicano che lo Spirito appartiene sia al Padre che al Figlio (anche se non dimostrano ancora che lo Spirito sia Persona). Altri nomi come “Paraclito” o “Consolatore” indicano l’azione dello Spirito sugli uomini. Giovanni Paolo II: il NT non si riferisce allo Spirito come all’essere del Padre ma come ad una Persona propriamente detta e ciò si vede soprattutto nei cosiddetti discorsi di congedo di Gesù in Gv: Gv 14, 16-17: io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre; Gv 14, 26: ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto; Gv 15, 26: quando verrà il Consolatore, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di Verità che procede dal Padre, egli vi renderà testimonianza; Gv 16, 14-15: quando verrà lo Spirito di Verità, egli vi guiderà alla Verità tutta intera (questa frase in particolare è il presupposto di ogni teologia e di ogni pretesa di infallibilità della Chiesa e del Papa). In queste citazioni vediamo l’intreccio relazione tre le Persone della Trinità. Nel parlare di Gesù è dunque chiaro che lo Spirito sia una Persona, dotata di un proprio “io” (ma ovviamente Gesù non usa termini tecnici). Si cfr. 1Cor 2, 10: lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità del Padre. Questo versetto fa pensare all’ “io” dello Spirito di fronte al “tu” del Padre o del Figlio. Si deve ammettere, però, che lo Spirito Santo, nel NT, non dice mai “io” di fronte al Padre o al Figlio (o al “voi” di entrambi). In alcuni passi si parla, invece, del parlare diretto dello Spirito (cfr. At 13, 2 => riservate per me Barnaba e Saulo). È ovvio che in ogni cosa che riguarda Gesù, così come è stata narrata dagli evangelisti, sono presenti sia il Padre che lo Spirito. Ma ci sono degli avvenimenti in cui la presenza trinitaria è più chiaramente percepibile: l’Annunciazione (Lc 1, 36) => in questo episodio vediamo tre “io”: l’Altissimo, il Figlio e lo Spirito. Siamo all’inizio dell’evento dell’incarnazione: la Trinità agisce per la salvezza dell’uomo. il Battesimo di Gesù al Giordano (Mt 3, 13-17) => per il Talmud babilonese lo spirito che aleggia sulle acque dell’origine è rappresentato come una colomba che aleggia sui suoi figli. Inoltre, al testo del Battesimo segue quello delle tentazioni nel deserto: lo Spirito Santo conduce Gesù nel deserto per essere tentato dal diavolo. La storia del deserto riguarda anche lo Spirito. Abbiamo di nuovo le Tre persone: Gesù, condotto dallo Spirito, si richiama continuamente al Padre per sfuggire alle tentazioni. la Trasfigurazione => le parole sulla predilezione del Figlio richiamano il Sal 2, 27 (“Tu sei mio figlio…”), che si riferiscono all’unzione/elezione/adozione di un re. La promessa veterotestamentaria del Messia, invece, si compie in maniera pneumatica. Rm 8, 10.15 «Se poi Cristo è in voi, il corpo è morto a causa del peccato, ma lo Spirito è vita in vista della giustificazione. […] Non riceveste infatti uno spirito di schiavitù da essere di nuovo in stato di timore, ma riceveste lo Spirito di adozione a figli, in unione con il quale gridiamo: Abbà, Padre!» (IEP). La domanda sorge spontanea: da dove i primi cristiani hanno preso questa teologia del Battesimo? Come hanno operato il passaggio da una comprensione tutto sommato semplice del battesimo come purificazione rituale dai peccati alla comprensione trinitaria del Battesimo? Si potrebbe richiamarsi a Mc 10, 39 o a Lc 12, 49-50: Gesù stesso usa per il suo “battesimo” un linguaggio trinitario. I primi discepoli, dunque, hanno preso da Gesù la comprensione trinitaria del Battesimo. 29/03/2011 – Lezione 9 Mc 9,2-7: la Trasfigurazione. Tommaso d’Aquino: «Nel battesimo, dove fu messo in luce il mistero della prima rigenerazione, fu palese l‘azione di tutta la Trinità, in quanto era presente il Figlio incarnato, apparve lo Spirito Santo in forma di colomba e il Padre si fece udire con la sua voce. E così pure nella trasfigurazione, che è il sacramento della seconda rigenerazione [la risurrezione], si manifestò tutta la Trinità: il Padre nella voce, il Figlio nell‘umanità [assunta], lo Spirito Santo nella nube luminosa. Come infatti nel battesimo [lo Spirito Santo] dà l‘innocenza, simboleggiata dalla semplicità della colomba, così nella risurrezione darà agli eletti lo splendore della gloria e il ristoro da ogni male, simboleggiati dalla nube splendente».[4: S. Th., III, 45, 4, ad 2.] La rivelazione trinitaria raggiunge uno dei suoi punti alti nel Prologo di Gv (cfr. anche Gv 1, 12). Ma ovviamente l’avvenimento più importatne della rivelazione sarà la Croce/Risurrezione di Gesù.Come credenti siamo forse troppo abituati a sentir dire che Dio è morto in croce. In realtà, alla concezione naturale di Dio ripugna una cosa simile. L’espressione “dramma della Croce” rimanda ovviamente alla dimesione drammatica (insieme dolorosa e straordinaria) dell’esperienza della passione di Gesù. Il concetto di “dramma”, però, ha anche il pregio di rinviare ad un dialogo – ad un avvenimento dialogico – piuttosto che ad un monologo. Quindi, dicendo “dramma della Croce”, oltre all’ovvia dimensione drammatica, si vuole sottolineare la partecipazione del Padre e dello Spirito Santo agli eventi pasquali. L’evento pasquale, dunque, non può essere compreso che come evento che coinvolge tutta la Trinità, come dialogo intratrinitario. Ratzinger: «la preghiera [in Getsemani] vera e propria in cui è presente tutto il dramma della nostra redenzione. Marco dice prima in modo riassuntivo che Gesù pregava affinché, «se fosse possibile, passasse via da Lui quell’ora» (14,35). Riporta poi così la frase essenziale della preghiera di Gesù: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (14, 36). […] Ma che cosa vuol dire questo? Che cosa significa «mia» volontà contrapposta a «tua» volontà? Chi sono coloro che si confrontano? Il Padre e il Figlio? O l’Uomo Gesù e Dio, il Dio trinitario? In nessun’altra parte della Sacra Scrittura guardiamo così profondamente dentro il mistero interiore di Gesù come nella preghiera sul Monte degli ulivi. Non per caso, quindi, la ricerca appassionata della Chiesa antica per la comprensione della figura di Gesù Cristo ha trovato la sua forma conclusiva nella riflessione, guidata dalla fede, sulla preghiera del Monte degli ulivi. […] Così la preghiera:«non la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42) è veramente una preghiera del Figlio al Padre, nella quale l’umana volontà naturale è stata tratta totalmente dentro l’Io del Figlio, la cui essenza si esprime appunto nel «non io, ma tu» – nell’abbandono totale dell’Io al Tu di Dio Padre. Questo «Io», però, ha accolto in sé l’opposizione dell’umanità e l’ha trasformata, così che ora nell’obbedienza del Figlio siamo presenti tutti noi, veniamo tutti tirati dentro la condizione di figli. Con ciò arriviamo ad un ultimo punto di questa preghiera, alla sua vera chiave di comprensione, all’appellativo: «Abbà, Padre » (Mc 14,36). […] «L’Abbà dell’appellativo usato da Gesù per Dio svela l’intima essenza del suo rapporto con Dio ». È pertanto assolutamente assurdo che alcuni teologi pensino che, nella preghiera sul Monte degli ulivi, l’Uomo Gesù si sia rivolto al Dio trinitario. No, proprio qui parla il Figlio, che ha assunto in sé ogni volontà umana e l’ha trasformata in volontà del Figlio».[5: Ratzinger J., Gesù di Nazareth, vol. 2.] Rileviamo: la tensione tra volontà umana di Gesù e unità perfetta tra il Verbo incarnato e il Padre; Teoria della soddisfazione vicaria: S. Anselmo presentava il mistero della morte di Gesù nella prospettiva del rapporto Dio Padre/Figlio/uomo peccatore. Il peccatore offende Dio (pecca) e così facendo distrugge l’ordine del creato voluto da Dio. In tal modo, il peccatore diventa debitore davanti a Dio perché ha distrutto qualcosa che appartiene a Dio. È tenuto allora a risarcire il debito. Ma se Dio vuol portare a compimento la creazione e ristabilire l’ordine, la pena eterna del peccatore non è una via praticabile. Rimane, allora, solo la soddisfazione: bisogna fare giustizia per ristabilire l’ordine del creato. Il problema però è che, essendo Dio infinito, l’uomo finito non può operare questa soddisfazione infinita. Solo un Dio-uomo che è uomo (e dunque può pagare il debito) e Dio (infinito) può pagare un debito infinito. Dio, allora, manda il suo Figlio che, sacrificato sulla croce, soddisfa le esigenze della giustizia di Dio, ristabilendo l’ordine. Problemi: la teoria anselmiana ha delle intuizioni buone ma necessita di qualche chiarimento; la morte di Gesù sulla croce è prima di tutto un avvenimento intratrinitario => quindi, a differenza di quello che pensa Anselmo, la Croce non riguarda anzitutto l’uomo peccatore; nella visione anselmiana, il Padre è ovviamente presente ma sta piuttosto lontano e aspetta la soddisfazione che deve essere compiuta da suo Figlio; in altri termini, il Padre non sta pienamente nel dramma, che concentra il suo carico solo sul Figlio; 2Cor 5,21: «Colui che non ha conosciuto peccato, Dio lo ha fatto diventare peccato per noi affinché noi diventassimo giustiza di Dio in lui»; At 3,13: il Padre glorifica Gesù, dopo l’estrema kenosi; si può dire, dunque, che la Croce è prima di tutto evento tra Dio e Dio; a differenza di tutti gli altri eventi salvifici importanti, sotto la Croce non si parla di presenze angeliche, come se la Croce fosse un evento del tutto proprio al rapporto Padre/Figlio; Moltmann parla di una “divisione, separazione” tra Dio e Dio (Gesù prega il Padre di allontanare da lui la Croce ma il Padre non risponde – o risponde a modo suo); Mc 15,34: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” => secondo alcuni autori, non è un semplice pregare il Sal 22 ma è un’espressione drammatica della separazione tra Padre e Figlio; San Paolo dirà che Dio non ha risparmiato il suo unico Figlio (ovviamente, non come lo fanno i nemici). Moltmann sostiene anche che, sulla croce, l’essenza divina è divisa in due: il Padre e il Figlio sono separati dalla tenebre del peccato e dalla morte (queste sono forse espressioni troppo forti ma ci permettono di capire). Sulla croce, Gesù sperimenta la sorte del peccatore abbandonato e, nel silenzio del sabato santo, il Figlio sperimenta “l’inferno” (von Balthasar). von Balthasar comprende la discesa agli inferi non come un trionfo ma come una condivisione del destino del condannato. [Si noti che, di solito, si vive il venerdì santo come il culmine della passione di Gesù ma, in questa prospettiva delineata da von Balthasar e da altri autori, il sabato è ancor più kenotico del venerdì perché egli discende all’inferno condividendo il destino del condannato; se dalla Croce Gesù può ancora pregare, dagli inferi non può far udire neppure la sua voce: il sabato santo è veramente a-liturgico!]. Croce = separazione economica – nella storia – tra Padre e Figlio. Essa è possibile perché già nell’eternità, in Dio, la generazione eterna è – in qualche modo – una separazione tra il Padre e il Figlio (rischio dell’essere), superata sempre tuttavia eternamente dalla comunione nello Spirito Santo. Usando il linguaggio di Rahner, si potrebbe dire che il dramma eterno della separazione/generazione divina è la condizione di possibilità del dramma storico/economico. La domanda interessante è, a questo punto, com’è possibile l’infeno se esiste la Trinità che è amore? Insieme a questi autori – e particolarmente insieme a von Balthasar – l’inferno è possibile perché Gesù l’ha sperimentato. In questo senso, l’inferno sarebbe una realtà cristologica. Esiste l’inferno perché la seconda Persona della Trinità ha potuto sperimentare la separazione del condannato. Infatti, nulla è totalmente fuori da Dio e quindi anche l’inferno vi è incluso, in quanto separazione (in Dio) di chi non vuole essere salvato da Dio: il Padre si ritira per non dar fastidio a chi non vuole essere amato e salvato da lui. Il Padre non rimane intatto dalla morte del Figlio: anche il Padre “sperimenta” la perdita del Figlio. In questo senso, la Croce distrugge il concetto di impassibilità divina. È ovvio, però, che la “sofferenza” di Dio non è dello stesso genere della nostra ma se diciamo che, nella Croce, Dio si rivela com’è in se stesso non ci si può poi facilmente astenere dal dire che – in qualche modo – Dio “soffre”. Resta una tensione irrisolta -che non si può risolvere sul piano logico-metafisico. Forse si può dire che, dall’eternità, Dio possiede la possibilità di soffrire che si rivela nella creazione di qualcosa che non è Dio: l’uomo. Nella crocifissione, soffre il Figlio ma soffre anche il Padre. La Croceè la rivelazione massima dell’economia uni-trinitaria. A partire da questa rivelazione economica, possiamo comprendere qualcosa della vita intradivina: la generazione divina, la generazione eterna, è – in qualche senso – la prima separazione divina. O’Donnell: «Dall’eternità e per l’eternità il Padre ha donato se stesso al Figlio, ha rischiato il suo essere nel Figlio, e dall’eternità il Figlio è stato un sì al Padre, nel completo ed obbediente abbandono a lui così il rischiare se stesso del Padre verso il Figlio crea uno spazio per il Figlio. Il Padre separa se stesso da se stesso, affinché possa esistere il Figlio. Questa separazione è però collegata nell’eternità dallo Spirito Santo. [Il mistero pasquale] è il compiersi nella storia del dramma originario che si svolge tra il Padre e il Figlio, i quali dall’eternità rischiano il loro essere l’uno verso l’altro e così sono distinti ma ancora una cosa sola nello Spirito Santo che è il loro vincolo di comunione».[6: O’Donnell, Il Mistero della Trinità, p. 67.] In Dio che è amore, c’è il rischio continuo dell’essere. Chi infatti non vuole rischiare il proprio essere non vuole amare . 31/03/2011 – Lezione 10 Amore: capacità di distaccarsi da sé. Se uno non ha questa capacità, non può amare. È per questo che Dio è Trinità: se fosse un monolite assoluto, non potrebbe amare. Invece, in Dio abbiamo questa possibilità di staccarsi da sé in assoluto. Quindi Dio è amore assoluto. La capacità di distaccarsi da sé va di pari passo con la capacità di restare uniti, in maniera perfetta, senza perdere la propria identità. In realtà, però, ciò non basta, perché a questo punto è necessaria un’apertura ad un Terzo, lo Spirito Santo, che da parte sua diventa il vincolo d’amore (e d’unità) proprio nel momento del distacco. L’evento pasquale (croce e risurrezione) rivela lo Spirito Santo come reciprocità del Padre e del Figlio. La consegna del Padre nel Figlio (lo svuotamento del Padre nel Figlio) non è contrapposizione che annulla perché lo Spirito Santo, salvaguardando la distinzione tra i Due, costituisce l’unità dell’essere divino; unità che, in fondo, è l’evento che è l’amore stesso. Lo Spirito fa sì che il Padre e il Figlio non creino una monade né si separino tra loro ma siano invece l’unità diversificata. Il Terzo è un testimone che dice “Egli è veramente un altro”. La vera reciprocità, la vera relazione – cioè l’amore – esige il Terzo perché esige la vera alterità. Non si può parlare dell’amore senza parlare di unità, identità e alterità. Abbiamo qui a che fare con un paradosso: la perfetta identità si lascia come attraversare e vivificare dalla perfetta alterità, nella quale si configura come perfetta comunione. Il mistero trinitario viene descritto con diverse categorie metafisiche ma, d’altra parte, esso ci dà la possibilità di rileggere ed interpretare le tradizionali categorie metafisiche. Nella logica delle cose e dei numeri, “altro” è il contrario di “medesimo”; invece, nella logica delle persone (che è ben diversa dalla precedente), non c’è una contraddizione tra identità e alterità. Anzi, l’autentica comunione, l’unione vera e perfetta, consiste in una coappartenenza di identità e alterità e in un loro condizionarsi vicendevole. Nel vero amore, ci si conosce meglio, si diventa sempre più uniti, ma l’altro diventa sempre più altro, diverso, mistero (chi odia non vede nell’altro né diversità né mistero e, dunque, può uccidere). L’unità risalta nella diversità per cui l’io e il tu hanno bisogno l’uno dell’altro per essere veramente sé stessi. L’alterità è dunque indispensabile perché l’io possa scoprire la sua identità ma anche perché si consolidi la costituzione ontologica della persona (la persona non si può costituire ontologicamente senza l’altro). L’essere per l’altro e l’essere per sé sono complementari: non si possono dare l’uno senza l’altro. M. Nédoncelle: è il mistero della Trinità che racchiude la verità sull’essere e sulla persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio. Nella Trinità, che è l’insime delle relazioni divine, l’essere delle divine persone coincide con l’essere verso l’altro. In Dio l’unione è perfetta perché anche la differenza tra le Persone divine è perfetta. Le Persone divine non sono “un pochino” diverse (perché Dio è uno) ma sono perfettamente diverse. Questa è anche la linea di Chiara Lubich, che ha sviluppato una mistica trinitaria della croce di Gesù. Secondo la Lubich, è proprio la rivelazione trinitaria che si è data in Gesù crocifisso e abbandonato a dimostrare la distinzione delle persone nella reciprocità dell’amore. Lubich: «Sono tre le Persone della Santissima Trinità, eppure sono Uno perché l’Amore non è ed è nel medesimo tempo. Nella relazione delle Persone divine cioè, ciascuna, perché Amore, compitamente è non essendo: perché è tutta pericoreticamente nell’altra Persona, in un eterno donarsi” [se il Padre si svuota, donandosi al Figlio, in questo senso “non è” e similmente, se il Figlio si abbandona al Padre, donando sé stesso al Padre, in questo senso “non è”: l’uno si perde nell’altro e viceversa: questo perdersi è, nello stesso tempo, un ridonarsi nello Spirito Santo] “Nella luce della Trinità, l’Essere si rivela, se così si può dire, custodiente nel suo intimo il non-essere del dono di sé: non il non-essere che nega l’Essere, ma il non-essere che rivela l’Essere come Amore: l’Essere che è le tre divine Persone”. “Io sono io non quando mi chiudo all’altro, ma quando mi dono, quando mi perdo per amore nell’altro”.»[7: Lubich C., Per una filosofia che scaturisca dal Cristo, in Nuova Umanità, 3-4 (1997), p. 372.] Oggi si cerca un rinnovamento della metafisica proprio a partire dai paradossi del mistero trinitario. Giuseppe Zanghì: «Il grande discorso ontologico iniziato dai greci, assunto dai Padri e dai Maestri della Scolastica, nascosto ma insieme portato avanti nelle aperture soggettive della modernità, oggi va ripreso in chiave trinitaria, nella quale gioca un suo ruolo il non-essere. Non il non-essere come negatore dell’essere, qualcosa che dall’esterno fronteggi l’essere negandolo (e questo è un assurdo perché per fronteggiare l’essere, il non-essere dovrebbe essere); ma il non-essere come rivelatore delle profondità, direi delle viscere dell’essere che è amore. Ciò si manifesta solo nella persona, non in una essenza astratta. Direi meglio: non nella persona, ma nelle persone; in radice quelle divine.»[8: Zanghì G., La filosofia ha ancora oggi un destino?, in Nuova Umanità 6 (1996), pp. 636-637.] In questo testo, si dice dunque, che il solo “essere” non basta per parlare delle profondità di Dio ma è necessario anche il “non essere” per illustrarne le viscere. Jean-Luc Marion: «Si intende forse insinuare, con il titolo Dio senza essere, che Dio non sia, non esista? Assolutamente no: Dio è, esiste. Il problema non concerne la capacità divina di attingere l’essere, ma viceversa la capacità dell’essere di attingere la dignità di Dio: di Dio si deve soprattutto ed innanzitutto dire che esso è? Essere costituisce il primo ed il più alto fra i nomi divini? Dio si dona alla contemplazione ed all’amore in quanto è, oppure le cose stanno diversamente? Dio, in Gesù Cristo, ci ama e ci salva in quanto è, oppure le cose stanno diversamente? Non si tratta di contestare qualsiasi relazione tra Dio e l’essere, ma di mettere in discussione che l’unica o più alta relazione possibile (o auspicabile) consista nella loro identificazione.»[9: Marion J.-L., Dio senza essere, Milano 1987, p. 9.] Dio è amore e da questa realtà scaturiscono l’essere e il non essere. Benedetto XVI, all’inizio della Deus Caritas est: « Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1 Gv 4, 16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l'immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell'uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso versetto, Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica dell'esistenzacristiana: « Noi abbiamo riconosciuto l'amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto » (n. 1). Giovanni Paolo II, Discorso del 9 ottobre 1985: il NT contiene la pienezza della rivelazione trinitaria. Dio, rivelandosi in Gesù Cristo, da una parte svela chi è Dio per l’uomo e, dall’altra, chi è Dio in sé stesso. La verità “Dio amore”, contenuta in 1Gv, svolge la funzione di chiave di volta della fede cristiana. Dio è Amore in sé stesso, già prima della creazione del’uomo, perché Egli non è un assoluto solitario che ha bisogno di creare qualcuno per amarlo. Moltmann, Jüngel, von Balthasar: lo Spirito Santo completa il circolo della vita intratrinitaria, non lasciandolo chiuso in sé stesso ma aprendolo all’esterno, non per qualche necessità ma per amore gratuito. La dinamica del distaccarsi intradivino fa sì che la riconciliazione sia possibile perché nel distacco tra il Padre e il Figlio c’è il posto per ogni peccatore. Il Padre dona tutto di sé stesso al Figlio e poi manda il Figlio tra gli uomini: Dio rischia il suo essere nel Figlio mandato tra gli uomini. In qualche modo il Padre separa sé stesso da sé stesso ma il Figlio restituisce sé stesso al Padre (e quindi il Padre al Padre!) nell’atto dell’obbedienza assoluta. In altre parole, Gesù può sperimentare una distanza dal Padre più grande di quella di qualsiasi persona che si trova lontana da Dio nella vita presente. Abbiamo già detto, infatti, che l’inferno è una realtà cristologica. Ci deve essere in Dio uno spazio per potervi inserire un altro. Un Dio monolitico non potrebbe né incarnarsi né invitare l’uomo a godere della vita trinitaria, ad entrare nella vita divina (semplicemente perché non potrebbe fargli posto, essendo assolutamente “compatto”). I Padri della Chiesa dicevano: Dio è diventato uomo perché l’uomo possa diventare Dio. Jüngel: Dio riconcilia il mondo con sé nella misura in cui, nella morte di Gesù, si contrappone come Dio Padre e Dio Figlio, senza smettere di essere uno. In questa contrapposizione Dio manifesta la capacità di distaccarsi da sé per fare spazio alla creatura. Nel purgatorio, l’uomo non viene castigato per le colpe ma viene purificato e preparato per essere conforme a Dio. Dio non è solidale con noi soltanto prendendo la natura umana ma è solidale anche prendendo il peccato su sé stesso, in Cristo, e vedendo morire il Figlio. Il Padre, anche vedendo morire il suo Figlio, non ci punisce, ma ci salva. Non è soltanto il Figlio che viene separato dal Padre ma anche il Padre è separato dal Figlio, come avviene per una madre che perde il suo unigenito. Dio approfitta di questa separazione sulla croce come lo spazio per accogliere l’uomo peccatore nello Spirito Santo. La croce, senza la risurrezione, non avrebbe alcun senso salvifico. La Commisione Teologica Internazionale, ne Alcune questioni riguardanti la cristologia, un documento del 1979, accetta alcune intuizioni degli autori citati sopra: «L’uomo è stato creato per essere integrato nel Cristo e quindi nella vita della Santa Trinità. Qualunque sia l’allontanamento dell’uomo peccatore nei riguardi di Dio, esso è sempre meno profondo del distanziarsi del Figlio rispetto al Padre nel suo svuotamento Kenotico (Fil 2,7) e della miseria dell’abbandono (Mt 27,46). Questo è l’aspetto proprio dell’economia della redenzione nella distinzione delle persone della santa Trinità, che d’altro canto sono perfettamente unite nell’identità d’una stessa natura e d’un amore infinito».[10: Enchiridion Vaticanum, 7, pp. 650-651.] Si deve ricordare come il mistero della separazione divina sulla Croce va sempe visto insieme al mistero della risurrezione. La prima cosa che risulta dall’analisi della risurrezione è che l’iniziativa di quest’ultima compete a Dio Padre. Così ci dicono non pochi testi neotestamentari (come ad es., Rm 10,9). 05/04/2011 – Lezione 11 L’iniziativa della risurrezione del Cristo è propria del Padre (cfr. Rm 10,9; Ef 1,20). In altri testi del NT, la risurrezione viene interpretata come “generazione” (cfr. At 13,32-33). Nella risurrezione si manifesta la paternità del Padre che genera il Figlio e, d’altra parte, si manifesta la figliolanza del Figlio, che viene generato dal Padre nella risurrezione. Ovviamente, qui sorge un problema (cfr. Rm 1,3-4): se si legge un tale frammento senza le dovute precauzioni si rischia di cadere nell’eresia dell’adozionismo: Cristo viene adottato dal Padre nel battesimo al Giordano ed elevato alla figliolanza con la risurrezione. È necessario allora leggere i testi di questi tipo nel complesso di altri testi, in cui la preesistenza del Cristo e la figliolanza divina sono chiaramente asseriti. In questo senso, la risurrezione non farebbe altro che manifestare ciò che è da sempre. La paternità e la figliolanza che si manifestano nella risurrezione, dunque, ci permettono di capire qualcosa della Trinità immanente. Nella risurrezione, Dio trinitario si rivela. Ladaria, Il Dio vivo e vero, afferma: soltanto alla luce della generazione alla vita divina nella risurrezione, il NT e a partire da esso la Tradizione della Chiesa, ha potuto parlare dell’esistenza del Figlio fin dal principio nel senso del Padre, che lo ha generato eternamente. Se la generazione economica, nella risurrezione, non avesse avuto un fondamento nella Trinità immanente, essa non potrebbe essere una comunicazione di vita divina agli uomini. La risurrezione è la manifestazione, l’espressione, della generazione eterna e, solo come tale, è per noi fonte di vita. Dunque, c’è sempre una corrispondenza tra la Trinità economica e la Trinità immanente. Ogni evento economico ha un fondamento trinitario/immanente. Fil 2,5-9: qui è chiaro che l’esaltazione, concessa dal Padre al Cristo, non può essere interpretata in senso adozionista perché, subito prima, è detta la preesistenza divina. Potremmo anche dire: Dio si distacca da Dio per poi riunirsi nello Spirito ma questo ritorno al Padre non avviene senza coinvolgere l’uomo. Possiamo allora parlare di un movimento trinitario discendente e ascendente (questo secondo avviene insieme con la natura umana, aprendo il cielo agli uomini). Mediante la Risurezzione il Figlio riprende la gloria che aveva dall’eternità e insieme la rivela (sono chiarissime le parole di Gv 17,5). Questa gloria non è qualcosa di totalmente nuovo ma è la stessa gloria che il Verbo aveva presso il Padre prima che il mondo fosse. Abbiamo qui unite, allora, la prospettiva cristologica unita a quella soteriologica. Nella Risurrezione (Rm 1,4), ha un ruolo – e non sarebbe possibile il contrario – anche lo Spirito Santo (cfr. anche Rm 8,11). At 2,32-33: Gesù riceve la pienezza dello Spirito (di Dio e lo Spirito del Figlio) e lo può effondere agli uomini: queste espressioni sono indice della comunione del Figlio con il Padre. La comunità dei primi cristiani sperimentava la presenza del Risorto come realtà dello Spirito, così da dire 2Cor 3,17: il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. La Pentecoste è un frutto dell’esaltazione e della glorificazione del Figlio nella risurrezione. Gv 7,39: lo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui, infatti non c’era ancora lo Spirito perché Gesù non era stato ancora glorificato. È chiaro che lo Spirito agisce fin dall’inizio nella storia della salvezza ma Egli non è dato agli uomini fin dall’inizio. Qui è possibile trovare un margine per distinguere (ma non dividere) i sacramenti di Battesimo (morte e risurrezione) e Cresima (dono dello Spirito). Tutto quello che finora si è detto del dramma della Croce e della Risurrezione, che coinvolge le Tre persone divine, può essere espresso plasticamente grazia al famoso affresco della Trinità di Masaccio. Mentre Rublev dimostra bene la mutua relazione di Tre Persone distinte ma questa concezione ha i suoi limiti: le Tre Persone appaiono straordinariamente non coinvolte dal dramma della Croce e della Risurrezione. Forse, in Rublev, si rispecchia la beatitudine della trascendeza divina ma questa immagine – forse – non dà del tuttoragione della kenosi. Cosa che, invece, riesce molto bene al tipo di raffigurazione trinitaria chiamato il trono della grazia: uno schema molto frequente nel medioevo. In questa immagine, sono da notare: due famiglie: quella divina (cui appartengono le Tre Persone divine); quella umana (Gesù, Maria e Giovanni); due triangoli: quello divino, rivolto vero il basso; quello umano, che parte dai committenti, con il vertice rivolto verso l’alto. Dio Padre non chiede soddisfazione dei peccati ma è lui stesso ad offrire il Figlio, sostenendo la Croce con le sue stesse mani (cosa che non avviene, invece, nella Trinità di Guido Reni, Chiesa della SS.ma Trinità dei Pellegrini in Roma, cfr. sotto). 5. Le formule trinitarie nel Nuovo Testamento Formule battesimali: Il testo classico tra le formule trinitarie è il cosiddetto mandato missionario che si trova alla fine del vangelo di Mattero (Mt 28,19). Questa formula battesimale afferma la pluralità divina, parlando chiaramente delle Tre Persone. E nello stesso tempo afferma l’unità (l’evangelista dice, infatti, “nel nome”, al singolare). Ovviamente, la formula trinitaria di Mt non significa che, a quel tempo, esistesse una dottrina trinitaria speculativa. Un catecumeno, a quel tempo, avrebbe confessato la fede nell’unico Dio, che si è rivelato pienamente in Gesù Cristo, e che ci ha mandato lo Spirito Santo. I biblisti dicono che questo passo di Mt è un’aggiunta posteriore al testo evangelico. Nella primitiva comunità cristiana, infatti, il battesimo veniva amministrato “nel nome di Gesù Cristo” o “nel nome del Signore Gesù” (cfr. rispettivamente At 2,38 e At 19,5). È da notare che, anche se si parla del battesimo nel nome di Gesù, si comprende che in questo battesimo è presente lo Spirito. Ciò risulta chiaramente, ad es., da At 19,1-6. Formule solenni di saluto: 2Cor 13,13: Gesù si fa testimone del Padre e ci dona lo Spirito di comunione. Nella nostra prassi liturgica, la formula viene utilizzata non come commiato ma come saluto di accoglienza. 1Cor 12,4-6: Paolo, partendo dalla pluralità dei carismi, ci indica le Tre Persone (lo Spirito, il Signore, Dio) come fonte unica di tale pluralità. Paolo parla di diversi soggetti dell’azione divina ma, al contempo, ci indica che questi soggetti sono uno: cfr. 1Cor 8,4-6. Paolo non cerca di spiegare il mistero: sottolinea solo l’importanza dell’azione dei Tre. 6. La testimonianza trinitaria delle lettere apostoliche: Gal 4,4-6 Ef 1,3-13: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo…suggello dello Spirito Santo promesso”. 1Pt 1,1-2: “Eletti secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue”. Di nuovo, nel contesto della salvezza, vengono nominate le Tre Persone. Questa fede viene espressa dai primi cristiani nel linguagio biblico e liturgico. Ai primi cristiani, bastava un linguaggio storico-salvifico, e non serviva un linguaggio metafisico. Ladaria mette in risalto Gal 4,4-6 (“Quando venne la pienezza del tempo…”) e nel suo libro ne fa un filo conduttore per gli altri testi del NT. Dio ci manda il suo Figlio e lo Spirito Santo e in tal modo si rivela a noi, conducendoci alla salvezza. Possiamo dire non che Dio si è fatto vedere per essere conosciuto ma, al contrario, Dio ci salva, facendo storia con noi e, così facendo, al margine, si fa conoscere. Nel brano in questione sono citate due missioni: quella del Figlio, che si esprime nell’incarnazione e, come tale, è visibile ed è un evento puntuale nello spazio e nel tempo; quella dello Spirito, che invece è invisibile e pertanto difficile descrivere in coordinate spazio-temporali. Lo Spirito che viene mandato nei nostri cuori non è una realtà così immediatamente visibile. In questo brano soprattutto, le due missioni sono presentate sempre nella loro reciprocità. Ricapitolando: l’iniziativa è di Dio Padre, lo scopo della missione è di essere uniti a Dio (la nostra salvezza, la nostra figliolanza), Gesù aveva coscienza di una sua relazione particolare e unica con Dio (e proprio su questa coscienza, basa la sua pretesa dell’ascolto); lo Spirito Santo mandato dal Padre è il vincolo che lega la nostra figliolanza derivata alla figliolanza di Gesù. L’invio dello Spirito Santo deve essere visto in relazione stretta con la risurrezione di Gesù. L’effusione è nel NT sempre in relazione con l’esaltazione. Il Figlio mandato dal Padre diventa per gli uomini la fonte dello Spirito: è per questo che Paolo, in 2Cor 3,17, può dire che il Signore è lo Spirito. Si tratta qui di sottolineare che l’accesso allo Spirito si ha nel Figlio e l’accesso al Figlio si ha nello Spirito. Gv 14,26 (e cfr. ancora Gv 16,14-15): la rivelazione finisce con la morte dell’ultimo apostolo, ma la sua comprensione si approfondisce continuamente. Anche i dogmi, che in qualche modo chiudono alcune strada battute dalla Chiesa, ne aprono altre. Lo stesso si può dire della dottrina trinitaria, che non è chiusa con la definizione dell’uno o dell’altro dogma che riguarda la Trinità. 7. L’Apocalisse di Giovanni e la Trinità Ap 1,4-5: «Grazia a voi e pace da Colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra». Questo saluto ha tre parti: la prima parte si riferisce al Padre, richiamando Es 3,14; la seconda parte si riferisce allo Spirito Santo (“sette spiriti”: questa espressione esprime la presenza dello Spirito Santo e la moltitudine dei suoi doni); la terza parte si riferisce al Figlio. Ap 22,1-2: «Mi mostrò poi un fiume d'acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell'Agnello. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall'altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell'albero servono a guarire le nazioni. Ecco, il trono di Dio è nello stesso tempo il trono dell’Agnello». Qui si parla: di un unico trono (il trono di Dio è nello stesso tempo il trono dell’Agnello): il Padre e il Figlio sono un solo Dio che governa l’universo; dal Padre e dal Figlio scaturisce l’Acqua viva, che nella terminologia giovannea è lo Spirito Santo; la nuova Gerusalemme è il regno dell’Agnello ma anche il regno dello Spirito; secondo Laurentin, questo saluto, posto all’inizio dell’ultimo capitolo della Scrittura, riguarda la Processione dello Spirito; nel libro di Ap, infine, l’espressione “io sono l’Alpha e l’Omega”, nel primo capitolo (1,8) viene riferita al Cristo, e nel ventunesimo capitolo (21,6) viene riferito al Padre. In questo modo si sottolinea la comune pienezza del Padre e del Figlio. 07/04/2011 – Lezione 12 Ap 7,15-17: «Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l'Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi». Vediamo prima il Padre che siede sul trono e invita la gente nelle sua casa e, subito dopo, vediamo l’Agnello che “ruba” il posto del Padre, che sta “nel mezzo del trono”. Naturalmente, essendo Dio, l’Agnello può occupare lo stesso posto del Padre. Infine, vengono citate ancora le acque dello Spirito. Forse i Tre insieme sono intesi tergere le lacrime dagli occhi degli uomini. Ap 4,2-5; 5,6: «Subito fui rapito in estasi. Ed ecco, c'era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto. Colui che stava seduto era simile nell'aspetto a diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono. Attorno al trono, poi, c'erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano seduti ventiquattro vegliardi avvolti in candide vesti con corone d'oro sul capo. Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni; sette lampade accese ardevano davanti altrono, simbolo dei sette spiriti di Dio. […] Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato. Egli aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra». Abbiamo qui una liturgia celeste e, di nuovo, come negli altri frammenti citati, sul trono si trova il Padre fedele all’Alleanza. Poi appare l’Agnello, ritto in mezzo al trono, allo stesso trono su cui stava seduto il Padre perché – sia detto ancora una volta – l’Agnello è un solo Dio con il Padre. L’Agnello ha sette occhi e sette corna, segno della pienezza della forza dello Spirito. Solo l’Agnello (cap. 5) è capace di prendere il libro e di aprirne i sigilli: ciò significa che l’Agnello non è una creatura come le altre. 8. Gli attributi divini alla luce della Rivelazione Ci sono due fonti del discorso sugli attributi divini: la Rivelazione (e in particolare la Scrittura); la teologia naturale (la filosofia che riflette sulla natura, sull’essenza, di Dio). Queste due fonti vanno distinte ma non divise. La Bibbia stessa, infatti, fa riferimento alla fonte filosofica (si cfr. il già visto Sap 13,1-5 o Rm 1,19-20). La Bibbia stessa ci dice che il discorso analogico ci permette di parlare degli attributi divini. Le due fonti, dunque, vanno tenute insieme perché una si appoggia e si rafforza sull’altra, e viceversa. Nella Bibbia, che non è un trattato sistematico, non si parla della natura di Dio con un discorso tecnico, ma si racconta la sua opera salvifica, mediante la quale egli si rivela. Per molti secoli, la questione degli attributi divini, è stata affrontata nella prima parte del trattato De Deo uno et trino, cioè nel De Deo uno (la parte più propriamente filosofica). La dottrina degli attributi divini è stata poi al centro della riflessione scolastica: gli attributi divini non sono come le perfezioni umane: gli attributi divini si identificano con ciò che Dio è in sé stesso, con la sua essenza. E questa affermazione risulta dal principio che, in Dio, tutto è uno (cioè dal principio secondo cui la natura divina è perfettamente semplice). L’insegnamento scolastico è stato ripreso da diversi concili, tra cui soprattutto il Concilio Lateranense IV del 1215 (DH 800). L’insegnamento scolastico è stato anche ripreso dal Vaticano I (DH 3001). Gli elenchi, le liste degli attributi divini, sono diversi nei diversi dizionari teologici (cfr. ad es., l’elenco del Lessico di teologia sistematica di W. Breuning). Gli attributi si possono, poi, distinguere in diverse categorie: chi (o cosa) è Dio; gli attributi che descrivono le perfezioni morali (cioè che esprimono la Bontà di Dio). Gli attribuiti divini secondo Rahner: solo tenendo presente la personalità viva e libera di Dio, che per la sua trascendenza è in grado di intrecciare un dialogo col mondo, possiamo acquistare una prospettiva esatta della dottrina del NT sugli attributi di Dio. Possiamo dire che la situazione originaria del parlare del NT degli attributi divini è il dialogo storico tra Dio e l’uomo e non qualche filosofia di Dio. Parliamo di Dio, dei suoi attributi, perché ci troviamo in dialogo con Lui. Il problema esistenzialmente decisivo per l’uomo non è tanto sapere che cosa sia Dio ma piuttosto come Egli agisce, come si voglia rivelare all’uomo. Quando, ad es., parliamo di Dio onnipotente non ne parliamo in astratto ma nel senso di un Dio che ha ogni potere sulla nostra morte (parliamo, dunque, in fondo, della nostra vita). Dio si distingue dalle altre personalità per le decisioni e gli atteggiamenti liberi nei confronti del mondo da lui creato. Con ciò non si vuol sottolineare che l’agire di Dio nel mondo ha una struttura metafisica (perché questi atteggiamenti e le decisioni divine hanno una struttura metafisica; derivano in un certo senso della sua essenza in maniera necessaria). Es.: dall’affermazione vera “Dio è onnipotente” non si può dedurre l’incarnazione. Perciò l’uomo del NT, il cristiano, si interessa non tanto alla struttura metafisica divina ma alle azioni salvifiche concrete che ne provengono, senza esserne tuttavia deducibili. Rahner sottolinea in diversi modi che il nucleo della dottrina neotestamentaria degli attributi divini non riguarda l’aspetto metafisico ma piuttosto l’aspetto concreto, personale, sotto il quale Dio si manifesta al mondo. Non mancano di certo nel NT asserzioni metafisiche che riguardano l’essenza di Dio. Tali attribuiti, però, anche se conoscibili con la ragione naturale, erano nascosti all’uomo peccatore. D’altra parte, gli attribuiti da sempre conosciuti dalla ragione naturale, si sono manifestati in modo nuovo nell’incontro storico con il Dio vivente. Ad es., scrive Rahner che l’onniscienza non significa, nel NT, la coscienza universale della Causa del mondo, che racchiude in sé ogni cosa e la conosce, ma significa l’occhio del Dio personale, che scruta ogni cosa e che l’uomo sente penetrare nel più intimo del suo cuore: Dio sa tutto di noi (non è un problema se sa o meno il risultato della partita di domani!). O anche, la misericordia di Dio non va vista come una necessità, come una misericordia non libera (tale atteggiamento equivarrebbe a tentare Dio). O ancora, l’ira non deve essere vista come derivante necessariamente dalla sua santità (che non sopporta il peccato) perché le relazioni divine sono libere. Nemmeno il fatto che Dio è buono e ci ama è così evidente nel NT: non lo si può presumere senza limiti ma va sempre accompagnato da un santo timore di Dio, che preserva la libertà di Dio di donare il suo amore misericordioso. Infine, l’Onnipotenza divina non può essere concepita come una libertà assoluta (e magari arbitraria) ma come un qualcosa che si dispiega con difficoltà nella storia (della salvezza). La questione degli attributi divini diventa, dunque, un qualcosa di paradossale e scandaloso. Rahner fa notare che, nella filosofia, si arriva a Dio elevando eminentemente le qualità umane. Nella storia, invece, Dio si rivela in maniera miserabile: con la Croce. La storia (e dunque la teologia) non nega certamente la filosofia ma la costringe ad una nuova interpretazione. Perciò Rahner può dire: «Sappiamo propriamente e con chiarezza chi è Dio non da noi stessi e dal mondo, ma solo dall'intervento libero del Dio vivo nella storia, con cui ci manifesta chi vuol egli essere per noi. L'insegnamento decisivo del N.T. non è un'ontologia degli attributi di Dio né un'esposizione teorica: è una relazione storica delle esperienze che l'uomo ha fatto con Dio» . Tutte le caratteristiche divine – sostiene Rahner – trovano il suo compendio nell’affermazione giovannea che “Dio è amore”: l’uomo del NT sa che il Dio dei Padri ci ha chiamato alla più intima comunione con sé mediante il Figlio. Gli uomini del NT, pur sapendo che Dio agisce in modo assolutamente libero e imprevedibile, ha preso nel e mediante il Figlio un atteggiamento di amore che, Egli stesso, con la Croce, ha dichiarato irrevocabile. Rahner mostra anche la differenza tra il concetto di “amore divino” nell’AT e nel NT: Sap 11,24 e Sal 136 o Sal145,9 sono esempi di come, già nell’AT, Dio sia pensato amare tutto ciò che esiste. Però questo amore dell’AT, da solo, non crea alcun rapporto di tipo personale tra un “io” e un “tu” tra Dio e l’uomo. Per rapporto personale, infatti, indichiamo una certa unione tra le personalità e le nature delle persone che vi sono implicate. Di tutto questo, nell’AT, non c’è traccia. A causa della differenza tra le nature divina e umana non possiamo dire a priori che un rapporto personale tra Dio e l’uomo sia possibile (come, per usare un esempio un po’ improprio, non è possibile – strettamente parlando – un rapporto personale tra un uomo e un cane; e si ricordi che la differenza tra Dio e l’uomo è molto più grande di quella che passa tra un uomo e un cane). L’affermazione “Dio è amore” trova la sua pienezza in Gesù Cristo: Dio che diventa uomo affinché l’uomo possa diventare Dio. L’amore in senso pieno e personale non consiste in unoscambio di cose ma nella donazione libera di sé stessi, nell’abbandono libero alla persona amata. E tutto ciò si è realizzato in Cristo. “Dio è amore” dunque non rimanda ad un attributo divino ma all’esperienza che l’uomo ha avuto di Dio in Cristo. Rahner non nega la prospettiva metafisica ma sottolinea la prospettiva originaria del NT: Dio comunica liberamente tutto ciò che Egli è. Si può parlare di comunicazione divina ma tale comunicazione dipende da ciò che Dio volle essere per noi in Cristo. Gli attributi hanno un senso per noi in quanto Dio è Persone che stanno in rapporto con noi e non in un qualsiasi rapporto ma in rapporto d’amore. Se perdiamo questa prospettiva nel parlare degli attributi divini, entriamo facilmente in un discorso contraddittorio senza via d’uscita. Non negando l’affermazione di Rahner, che per gli uomini del NT “Dio è amore” rimanda all’esperienza di amore in Gesù Cristo, possiamo però dire che questa espressione trascende la storia e può essere usata per le analisi filosofico-metafisiche sulla natura divina. “Dio è amore” vuol dire che “Dio è amore in sé stesso”, prima ancora che nell’economia della salvezza. Varillon: «L’amore non è un attributo di Dio in mezzo a tanti altri, ma tutti gli attributi di Dio sono attributi dell’amore. Senza dubbio quest’affermazione non si giustifica in tutto il suo rigore se non nella meditazione del mistero trinitario. Ma allora essa appare come l’ultimo approdo di quella pienezza dell’essere che affermano i filosofi. Dio non è amore come è giustizia, santità, luce, potenza. E’ l’amore che è santo, giusto onnipotente. Dio non è l’Onnipotente che ama, come se l’amore temperasse o è perlomeno orientasse la sua potenza; egli è l’Amore la cui potenza infinita conduce, sempre più in là nel suo slancio creativo, alla morte […] e il perdono, gratuita suprema».[11: F. Varillon, Un compendio della fede cattolica, Bologna 2007, pp. 26-27.] Tutti gli attributi di Dio sono attributi dell’amore e vanno compresi bene in quanto tali. L’amore dovrebbe essere il punto unificante del discorso degli attributi divini. (Dio=Amore) => tutti gli altri attributi. Gesù ha detto “chi vede me, vede il Padre”. Ma cosa vediamo quando vediamo Gesù? Povertà, dipendenza, umiltà perché l’amore è povero, dipendente e umile. L’amante dice all’amato: “tu sei tutto per me” cioè “senza di te sono niente”. Colui che più ama è più povero. Nella Trinità, ciascuna delle Tre Persone è assolutamente povera: non ha nulla, non esiste senza le altre. “Voglio dipendere da te” = colui che più ama è il più dipendente: ciascuna delle tre Persone è infinitamente dipendente dalle altre (si spiegano così le relazioni intratrinitarie). Infine, l’amante non si fa superiore all’amato, piuttosto dirà che l’amato è più grande di Lui: il Padre è più grande di me (dice Gesù). È anche vero, però, che chi ama è estremamente ricco. Ma si tratta di una ricchezza d’amore: «Dio è estremamente libero, ma libero di amare e di andare fino in fondo nell’amore (ossia la sua Volontà che è il suo stesso essere, è volontà efficace di donarsi). Dio è l’immensità senza limite, la forza infinita (ma è l’amore che è immenso, onnipotente… così potente da abbassarsi sino ad annientarsi). Diciamolo in altro modo ancora: Dio è così fatto che il mistero d’amore inconcepibile che lo costituisce nel suo Essere eterno non si può tradurre, esprimere, rivelare che con la povertà, la dipendenza e l’umiltà di Cristo».[12: Ibidem, 31.] In questo senso, non c’è alcun paradosso: Dio ricco non si fa povero per una sua bizarria. Tutto diventa, invece, molto logico (segue la logica dell’amore). Infatti, se l’amore è povertà, dipendenza, umiltà, Dio non può che rivelarsi in tal modo (in Cristo). Concepire, allora, l’onnipotenza in astratto, come la capacità di “far tutto” non può che portarci alle contraddizioni di un gioco linguistico. Dio è onnipotente non nel far qualsiasi cosa ma nell’amare. Se tutto ciò che è reale è amore, l’onnipotenza riguarda tutto ciò che rientra nella sfera dell’amore: una realizzazione del non-amore non è possibile perché è appunto il “niente”, “il niente” però non ha consistenza ontologica (Agostino) ma manca di realtà, è mancanza di realtà, cioè è mancanza d’amore. [Ecco perché Dio non può fare il male e resta, però, onnipotente]. L’immutabilità di Dio – come le altre espressioni negtive – è da interpretare nel suo significato positivo dell’affermazione della libera autodeterminazione di Dio, il quale non è esposto ad alcuna necessità da parte di ciò che non è Dio. Solo in questo senso è immutabile. Rahner dice che Dio è immutabile in sé stesso ma può mutarsi in un altro, come vediamo nell’evento dell’Incarnazione. Guardando all’Incarnazione, dunque, non possiamo sostenere che non sia successo niente, che nessun evento ha toccato la Trinità. La seconda Persona della Trinità si è fatto uomo: ciò è il Cambiamento per eccellenza. L’immutabilità di Dio in sé stesso non esclude la mutabilità in un altro. Si può cambiare in un altro nella relazione d’amore: Dio si unisce all’altro amandolo, e di conseguenza cambia nell’amare. È nell’uomo però che Dio muta (non in sé stesso) perché entra in relazione con un essere, l’uomo, che non è immutabile (cioè che, per natura, è mutabile). W. Breuning elencava anche l’ira come attributo di Dio. Essa non indica il rovescio dell’amore di Dio, la sua mancanza bensì l’ardore e la violenza della fedeltà racchiusa nel suo amore. Faustina Kowalska: la misericordia è il più grande attributo di Dio (mentre l’amore non sarebbe un attributo ma è la stessa essenza divina). Si può dire che la misericordia è l’amore che incontra il peccato e la debolezza. In questo senso, non possiamo dire che Dio è misericordia nello stesso senso in cui è amore. Infatti, il Padre ama il Figlio ma non è misericordioso verso il Figlio. La misericordia è il frutto dell’Amore che incontra l’uomo. Schierse: «La Chiesa non si può semplicemente accontentare di ripetere le enunciazioni neotestamentarie; ella con l’aiuto concessole dallo Spirito Santo, deve interpretarle ed annunciarle in modo tale che possono essere comprese dagli uomini di ogni epoca. A questo compito ha ottemperato la Chiesa del terzo e quarto secolo, quando – costrettavi dalle più varie eresie – formulò il dogma trinitario. Ma precisamente per questo sarebbe un sofisma gravido di conseguenza ritenere che la “cosa” di cui erano occupati i padri degli antichi concili sia stata chiarita per tutti i tempi e che possa ora venire espressa solo mediante la concettualizzazione da essi adottata. Se la rivelazione salvifica della Trinità dev’essere realtà viva e vissuta, essa dev’essere incessantemente attinta in modo nuovo dalle fonti originali».[13: F.J. Schierse, L’autorivelazione di Dio uno e trino, in: Mysterium salutis III, Brescia 1969, pp. 165-166.] 12/04/2011 – Lezione 13 Parte III Trinità economica e Trinità immanente. L’assioma fondamentale di Karl Rahner I Padri della Chiesa distinguevano due prospettive nel parlare del Dio Uno e Trino: economia e teologia. La Trinità nella storia di Gesù di Nazaret viene chiamata Trinità economica, cioè la Trinità così come si manifesta nell’opera salvifica compiuta dal Padre in Gesù Cristo nello Spirito Santo. La seconda prospettiva è più speculativa e tratta la Trinità in sé stessa e non delle sue manifestazioni nella storia della salvezza. Viene detta Trinità immanente (da non confondere con l’uso di questo stesso termine che si fa nella coppia: Dio trascendente, Dio immanente – in questo secondo caso, “immanente” vuol dire esattamente l’opposto: cioè Dio presente, in qualche modo, nella creazione). Alcuni sostengono che questa distinzione non vada fatta perché, in Dio, tutto è uno e non c’è prima e dopo. In realtà, ciò non è propriamente corretto: non si può dire, infatti, che l’Incarnazione sia da sempre (nel senso che il Figlio è da sempre incarnato – che sarebbe una contraddizione in termini, se per Incarnazione intendiamo l’ingresso del Verbo nel tempo e nellospazio, cioè nella storia; possiamo dirlo, invece, nel senso che l’Incarnazione è da sempre prevista e progettata). In qualche modo, infatti, c’è un “prima” in cui il Verbo non è incarnato e un “dopo” in cui il Verbo si è invece incarnato; un modo con il quale, Dio, dalla sua eternità senza tempo, entra in relazione con la creazione e il tempo. Ovviamente “prima” e “dopo”, in Dio, hanno un senso che non è facile né comprendere né definire. E tuttavia, pena l’impossibilità di parlare dell’Incarnazione in senso pieno, dobbiamo ammettere questo “prima” e questo “dopo”. All’origine della discussione attuale, sta la teologia di Karl Rahner e il suo grande assioma (inteso come principio indimostrato ma necessario) dell’identità tra Trinità economica e Trinità immanente: «Il principio […] che presenta la Trinità come mysterium salutis per noi (nella sua realtà e non solo come dottrina), potrebbe venir così formulato: la Trinità “economica” è la Trinità “immanente” e viceversa [umgekehrt]» (K. Rahner, Mysterium Salutis, Brescia 1969, vol. 3p. 414). 1. Le ragioni del Grundaxiom di Rahner Il punto di partenza della teologia di Rahner è l’idea che Dio si dona all’uomo così come è. La salvezza dell’uomo consiste nel dono di sé che Dio fa all’uomo. Dio eterno ed immanente e colui che si fa incontrare nella storia. Se Dio si dà a noi, il dono della grazia non consiste primariamente in uno o più doni particolari (grazia creata) ma nella relazione personale con Dio com’è in sé stesso (grazia increata). E in questo secondo termine che si trova la verità della spiritualità cristiana: si dovrebbe pregare primariamente per ottenere il dono della comunione con Dio piuttosto che per ottenere qualche dono particolare, per quanto grande esso sia. Il Dio increato si rivela nella sua autocomunicazione: Dio comunica non un dono creaturale qualsiasi ma sé stesso, nel Figlio e nello Spirito. Nella tradizione si sottolineava tanto l’azione unitaria di Dio nel suo agire ad extra: le Tre Persone sono un solo Dio e tutte le cose in Dio sono una cosa sola dove non si opponga la relazione (Anselmo d’Aosta): ad extra Dio agisce sempre come Uno. Rahner non lo nega ma sostiene che questo principio ha bisogno di alcune correzioni. Il rapporto che Dio stabilisce con il mondo è dovuto alla Trinità in quanto tale, mai ad una singola Persona divina in proprio. Sottolineando questo, si sviluppava la cossiddetta teologia delle appropriazioni (ad es. al Padre è appropriata la creazione, al Figlio la Sapienza, allo Spirito l’Amore). Tutto ciò è vero – sostiene Rahner – ma non si può dirlo a discapito della differenza tra le Tre Persone. C’è almeno un caso in cui la dottrina delle appropriazioni è insufficiente: l’Incarnazione. Solo la seconda Persona divina diventa uomo: la Trinità è ben presente nell’Incarnazione ma le tre Persone agiscono in maniera altamente differenziata. Altrimenti dovremmo dire che è un semplice caso che sia il Figlio ad incarnarsi e che anche le altre Persone divine potrebbero incarnarsi (così come dice Tommaso in S. Th. III, 3, 5: «Quanto può il Figlio lo può anche il Padre: altrimenti la potenza delle tre persone non sarebbe la stessa. Ma il Figlio ha potuto incarnarsi. Quindi avrebbero potuto farlo anche il Padre e lo Spirito Santo»). Rahner respinge il modo di pensare di Tommaso per almeno due motivi: l’opinione che ciascuna delle Tre Persone potrebbe farsi uomo non è dimostrata; tale possibilità presupporrebbe una premesssa falsa: quella cioè che Persona, in Dio, sia un termine univoco; non esiste una specie “Persona divina” che raccoglie tre esemplari “Padre, Figlio e Spirito Santo”. La diversità dell’essere Persona proprio dei Tre in Dio è tanto grande da consentire solo vagamente un concetto analogo di Persona applicato nella stessa misura a tutti e Tre. La diversità, l’alterità, nell’essere Persona dei Tre in Dio, è assoluta e perfetta. Proprio perché questa diversità è Perfetta non possiamo dire che “Padre, Figlio e Spirito Santo” sono tre esemplari della stessa specie. Di conseguenza, non si può dire che il Padre può fare ciò che fa il Figlio o ciò che fa lo Spirito Santo. Se così fosse, l’avvenimento dell’Incarnazione non svelerebbe niente di particolare sul Logos stesso ma sarebbbe solo l’esperienza del Dio personale in generale, così come lo conosciamo già nell’AT, e non l’esperienza del Dio personale Uno e Trino, così come sappiamo dal NT. Nel Figlio vedremmo infatti Dio in generale non la Persona concreta del Verbo-Figlio che svela Dio-Padre. Ciò ci porterebbe alla conclusione che non c’è nessun collegamento particolare tra la missione divina del Figlio e la vita intratrinitaria. La missione del Figlio non permetterebbe dire nulla su Dio immanente. «Il Logos è tale quale appare nella rivelazione, quale il rivelatore (non come uno dei possibili rivelatori) del Dio trino grazie al suo essere personale a lui solo proprio, di Logos del Padre» (K. Rahner, MystSal, p. 422). Il Figlio appare, dunque, come il Rivelatore unico in quanto unico Logos del Padre. Se il Padre avesse potuto incarnarsi, l’Incarnazione sarebbe stata solo una rivelazione economica e non della Trinità immanente. Ma Dio – abbiamo detto prima – ci salva donandosi, facendosi conoscere, così com’è. E sappiamo che è Trinità di Persone. Rahner afferma anche che l’umanità del Logos è proprio ciò che viene fuori quando Dio vuole esprimersi nel non divino. «La natura umana non è la maschera [...], nascosto nella quale il Logos gesticola nel mondo, bensì fino dall'origine il simbolo reale costitutivo del Logos stesso, cosicché si può, si deve dire [...]: l'uomo è possibile in quanto è possibile la manifestazione del Logos» (K. Rahner, MystSal, p. 423). Non è ovvio che Dio possa esprimersi nel non divino ma, se dalla storia di Gesù risulta che ciò è possibile, allora da questo dato consegue la possibilità dell’uomo in quanto persona, chiamata alla divinizzazione. La natura umana è qualcosa che esiste perché Dio vuole mettere insieme il divino e il non divino. La natura umana non è un segno esterno del Verbo, una sua maschera, ma esattamente ciò che vien fuori quando Dio vuole incarnarsi. L’essere persona nel mondo è possibile in quanto è possibile l’Incarnazione della seconda Persona della Trinità. E se il Logos economico coincide con quello immanente, possiamo dire che la persona umana è possibile perché l’unico Dio, in quanto trino, ha dall’eternità la possibilità di avere un unico rapporto con la creazione, esattamente come l’uomo, ma questo unico rapporto con la creazione è tale che lo pone in relazione con il mondo in quanto Trinità, cioè in quanto ogni Persona divina ha un suo modo di relazionarsi al mondo. Se la tripersonalità fosse solo un’immagine modalista della Persona Assoluta, non si potrebbe parlare dell’autocomunicazione divina (dono di sé da parte di Dio così com’è in sé) ma soltanto di una relazione mediata dalle realtà creaturali. In altre parole, l’unico Dio poteva autocomunicarsi o meno, ma se vuole manifestare sé stesso, lo deve fare in modo conforme alla sua vita intradivina. È solo grazie alla presenza dello Spirito, poi, che noi possiamo accettare questa autocomunicazione divina. Riassumendo, possiamo dire: la salvezza dell’uomo è e non può essere altro che Dio stesso; per cui l’agire di Dio, per mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito Santo è agire salvifico quando in questo agire si ha a che fare con Dio stesso; si dà almeno un caso in cui l’identità immanente ed economica è dottrina di fede definita: l’incarnazione del Logos e l’unione ipostatica; in Gesù Cristo, è diventato uomo non Dio in generale bensì la Seconda Persona divina. La Commissione Teologica Internazionale ha recepito l’assioma fondamentale di Rahner nel documento Desiderium et cognitio Dei (1981), facendo però diverse precisazioni per evitare interpretazioni ambigue ed erronee. 2. Le interpretazioni scorrette dell’assioma rahneriano La prima parte dell’assioma è stata accettata senza difficoltà, anche se qualcuno potrebbe interpretarlain modo sbagliato, come se la Trinità economica non fosse altro che una manifestazione temporale della Trinità Immanente: le Persone divine si sono rivelate in Gesù e poi sono ritornate in sé stesse, uscendo dal mondo. Si deve assumere con una serietà assoluta che la seconda Persona divina, con l’Incarnazione esiste in modo nuovo nella storia. La Trinità economica non è solo una manifestazione temporale. La domanda è la seguente: la Trinità economica retroagisce sulla Trinità immanente? La storia ha qualche effetto sull’eternità? La Trinità, da sempre, dall’eternità, vive nella pienezza della sua vita d’amore e quindi l’incarnazione non è aggiunge alcuna perfezione alla Trinità, come se all’origine le mancasse qualcosa. Ma, dal momento in cui Gesù viene al mondo, il Figlio eterno di Dio è il Figlio incarnato. E l’Incarnazione non finisce: il Figlio, dopo l’Ascensione, non smette di essere incarnato e la relazione del Padre con il Figlio, dopo l’Incarnazione, non è più il rapporto con il Verbo ma con il Verbo incarnato. Dall’Incarnazione, la Trinità esiste in modo nuovo, anche se questa Incarnazione non aggiunge a Dio nessuna perfezione. 2.1 L’effetto dell’economia sulla Trinità immanente. Più esposta a malintesi è la seconda parte dell’assioma: il “viceversa”: la Trinità immanente è la Trinità economica (la prima parte era al contrario). Non c’è niente in Gesù Cristo che, come possibilità, non si trovasse nella Trinità immanente ma non possiamo dire l’opposto. [Trinità economica = Trinità immanente] ≠ [Trinità immanente = Trinità economica] Il viceversa infatti può portare infatti ad un indebolimento della TI come se questa avesse la necessità di diventare TE per perfezionarsi. In realtà, la seconda parte dell’assioma non dice che la TI dovesse diventare TE per raggiungere la sua perfezione, o che fosse in qualche modo necessitata. Il mistero della redenzione (dell’economia) non è necessario; è libero. L’autocomunicazione divina è un dono libero e gratuito. Rahner dice che il fatto dell’economia è libero ma non il modo, che deve corrispondere però alla natura intima di Dio (quella trinitaria), altrimenti non si potrebbe parlare di una reale autocomunicazione. Diamo ragione a Rahner anche su quest’ultimo punto ma ciò però non vuol dire che la storia della salvezza dovesse realizzarsi per forza in questo modo. Rahner sembra calcare troppo la mano sulla necessità del modo ma qui, in realtà, abbiamo ancora tanto spazio per e divesità. È inutile cercare di stabilire i limiti di ciò che Dio avrebbe potuto fare nell’economia. È vero, Dio non poteva portare una maschera (non poteva non rivelarsi secondo la sua natura intradivina trinitaria) ma avrebbe sicuramente avuto altri modi per realizzare la salvezza, senza necessariamente mascherarsi. Se un uomo si dà come marito ad una donna, ciò non vuol dire che ha esaurito tutte le sue possibilità per farsi conoscere e donarsi a questa donna. Ladaria: dobbiamo affermare la libertà di Dio nell’autocomunicazione di sé ma anche nelle caratteristiche concrete di questa autocomunicazione. 2.2 Libertà e necessità in Dio Sorge, allora, la domanda: l’Incarnazione è necessaria per salvare l’uomo? San Tommaso distingue due tipi di necessità: assoluta => senza una determinata azione non si può ottenere il fine; relativa => qualcosa è necessario nel senso che è il modo migliore e più conveniente per raggiungere un fine: l’Incarnazione – secondo Tommaso – fu necessaria in questo secondo senso. Ladaria: lasciando quindi bene in chiaro che Dio è sempre il più grande e che niente può esaurire le sue infinite possibilità di manifestarsi all’uomo come vuole, resta la grande convenienza dell’Incarnazione. In ogni caso, se Dio è necessariamente Trinità dall’eternità, allora la rivelazione non poteva che essere trinitaria. Ma qui potremmo nuovamente dire che la TI allora non è assolutamente libera, perché doveva fare qualcosa precisamente in un modo e non in un altro. 14/04/2011 – Lezione 14 Dio può diventare non-Dio? No. Esiste necessariamente come Dio: il Padre deve essere il Padre e il Figlio deve essere il Figlio (idem per lo Spirito Santo). Agostino: «Dio Padre è Dio volendo o non volendo? Rispondere “non volendo” significa porre in Dio un’imperfezione assurda. Rispondere “volendo” significa dire che Dio è Dio per sua volontà e non per natura. E anche questa seconda affermazione è assurda». (Questa serie di quesiti potrebbe essere applicata anche a Dio in quanto Amore). In generale, a questi quesiti, si deve rispondere che non esiste alternativa tra libertà e necessità. Entrmbe sono identiche all’essenza di Dio. Ladaria: «Dio è come vuole essere (libertà) ma vuole essere come è (necessità)». La Trinità agisce nella storia secondo il suo liberissimo disegno di amore divino e in questo modo rivela il suo progetto che è necessario dall’eternità. Ma questa necessità non si oppone alla libertà perché Dio vuole essere, dall’eternità, così com’è. L’uomo che può amare od odiare non è più libero che Dio che non può odiare. Varillon: «Dio sovranamente indipendente, quindi libero ma libero di amare e di andare fino in fondo nell’amore. E il fondo dell’amore è la rinuncia all’indipendenza». Da un lato la libertà viene compresa come potenza di realizzare le possibilità del bene o del male. In quest’ottica, la libertà crea uno spazio per il bene/amore. In un’altra prospettiva, però, non è così. L’orizzonte fondamentale è diverso: l’amore/bene crea lo spazio in cui si può realizzare la libertà o la non libertà. È il bene che dà lo spazio per essere libero e non al contrario. Nella prima prospettiva la libertà viene realizzata e confermata in ogni decisione per il bene o per il male. Nel secondo schema, la libertà viene confermata nell’amare. Domanda: Satana realizza la sua libertà o piuttosto la nega? Secondo il primo schema, si dovrebbe dire che egli realizza la sua libertà e la sua personalità. Seguendo il secondo schema, Satana che dice “no” a Dio, con coscienza e sempre di più, nega la sua libertà. 2.3 La Trinità immanente è eterna C’è chi dice che il fatto che la TI è la TE vuol dire che la TI non esiste se non in quella economica. In altre parole, la Trinità di Persone sarebbe un frutto della decisione di manifestarsi nella storia. Abbastanza vicino a questa interpretazione sbagliata dell’assioma fondamentale è Schoonenberg. Nella manifestazione si produce una piena personalizzazione della Parola come Figlio e dello Spirito come Spirito del Figlio. Si potrebbe dire che Dio si sviluppa, cresce, nel suo manifestarsi. Schoonenberg: «La Trinità immanente è reciprocamente la Trinità economica. Essa ci è accessibile unicamente come Trinità economica. Inoltre, che Dio sia trinitario, indipendentemente dalla sua auto comunicazione nella storia della salvezza, è cosa che né può essere presupposta come chiara di per sé né essere negata. […] Secondo la Scrittura, Padre, Figlio e Spirito stanno l’uno di fronte all’altro in maniera personale nella storia nella salvezza. […] ciò è possibile unicamente grazie alla storia della salvezza. La Trinità immanente è una Trinità di Persone nel e per il fatto che è una Trinità economica. […] Grazie alla storia della salvezza, c’è una Trinità in Dio stesso. Grazie alla sua azione salvifica Dio diventa in se stesso trinitario, cioè tre Persone».[14: P. Schoonenberg, in Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, Brescia 1998, pp. 459-460.] È fuor di dubbio che Rahner non intendesse il suo grundaxiom come fa Schoonenberg. Rahner, al contrario, sosteneva che, se è vero che Dio si dà all’uomo in maniera trinitaria per un suo gesto totalmente gratuito, questo triplice modo contingente di darsi suppone un fondamento esistente nella Trinità immanente da sempre. Commissione Teologica Internazionale: «Bisogna guardarsi ugualmente da ogni confusione immediata tra l’evento Gesù Cristo e la Trinità. Non è vero che la Trinità sia costituita solo nella storia della salvezza, con l’incarnazione, con la croce e con la risurrezionedi Gesù Cristo, quasi che Dio avesse avuto bisogno d’un processo storico per divenire trinitario. Occorre quindi mantenere la distinzione, da un lato, tra la Trinità immanente, per cui la libertà è identica alla necessità nell’essenza eterna di Dio e, dall’altro, l’economia trinitaria della salvezza, dove Dio esercita assolutamente la sua libertà, senza subire alcuna necessità di natura”».[15: Commissione Teologica Internazionale, Desiderium e cognitio Dei, I C 2.2.] Kasper propone di riformulare il grundaxiom di Rahner, dicendo che la parola “è” non deve essere intesa nel senso di una tautologia A = A e va sostituita con “è presente”: “nell’autocomunicazione storico-salvifica, l’autocomunicazione intratrinitaria è presente in modo nuovo”. Tale formula sottolinea che la TI è il fondamento trascendente dell’economia della salvezza e nello stesso tempo è preservata da alcune interpretazione errate che le provenivano dalla formulazione di Rahner. 2.4 Il mistero inesauribile della Trinità immanente La terza interpretazione sbagliata del GA consiste nel parlare della TI come se si esaurisse nella TE. È vero che in TE c’è il mistero di TI ma non possiamo pretendere che così si riveli tutto il mistero della TI. Ciò non vuol dire che la TI si nasconda dietro l’economia della salvezza, presentando a noi una maschera. Ma non si può neppure dire che si esaurisca nell’economia. La TI è la TE ma non si rivela tutta con tutte le sue possibilità. Nemmeno nella visione beatifica conosceremo Dio in tutta la sua “complessità” (lo conosceremo non così come egli è ma così come egli è per noi). Si noti che 1Cor 13, 12 dice “come anch’io sono conosciuto” e non “come Dio conosce se stesso”: resterà sempre una dinamicità divina impossibile da esaurire. Tra il livello della TI (“Dio in sé stesso”) e la TE (“Dio com’è per noi”) esiste una differenza epistemologica: riguardo a questi due livelli, parliamo con il medesimo linguaggio, ma in senso analogico e non sopprimendo le differenze. Tra la stessa persona a 5 anni e a 50 c’è identità ma, una seconda persona che conoscesse la prima a 50 anni non potrebbe derivare da questa tutto ciò che essa era 45 anni prima. Per parlare in maniera adeguata della TI non bastano il linguaggio e la metodologia della storia della salvezza e del NT; dobbiamo usare un altro linguaggio: che è precisamente quello metafisico. 3. Catherine Mowry LaCugna sull’assioma fondamentale Non mancano autori seri che sono radicalmente critici non soltanto verso l’assioma rahneriano ma anche verso la distinzione stessa tra TI e TE. LaCugna (+1997 a soli 44 anni) si confronta con l’assioma rahneriano, Dio per noi. La Trinità e la vita cristiana, San Francisco. Per LaCugna, la distinzione tra TI e TE è strettamente concettuale e non ontologica. Non ci sono, infatti, due Trinità: quella dell’esperienza e quella transeconomica. Esiste un unico Dio e un’unica autocomunicazione divina, che si manifestano nell’unica economia della creazione, della redenzione e della consumazione. La teologa americana sottolinea in diversi modi che l’economia non è un’immagine riflessa e oscura di un regno di misteriose relazioni intradivine: l’economia è l’esistenza concreta di Dio in Cristo e in quanto Spirito. Non esistono TEconomiche o TImmanenti ma soltanto l’oikonomia che è la realizzazione della theologhia tempo, spazio, storia e nell’essere persona. Perciò LaCugna rigetta concetti come “Persone in Dio”, “relazioni intratrinitarie”, ecc. Oggetto della teologia cristiana di Dio è l’unico movimento dinamico di Dio a Patre ad Patrem. E LaCugna mostra uno schema: Padre => Figlio => Spirito /(mondo)/ Spirito => Figlio => Padre. Guardando questo schema non c’è ragione di fermarsi in un punto della curva piuttosto che in un altro. In esso non c’è posto per la distinzione tra TI e TE. Abbiamo a che fare con un unico movimento in cui il mondo viene coinvolto. Il mondo non è né all’interno né all’infuori di Dio perché non vi è alcun orizzonte che li separi. In Dio astratto dal mondo non c’è niente. Dio, concreto ed unico, non esiste al di fuori dell’economia. Se pensiamo ad una famiglia che vuole adottare un bambino, non ci sono due famiglie, una ad intra con le sue relazioni ed una ad extra che vuole adottare il bambino. Non c’è che un’unica famiglia. La dottrina di Rahner, fondata sul GA, porta a dividere su due livelli l’autocomunicazione di Dio, secondo il seguente schema: Padre, Figlio e Spirito => autocomunicazione ad intra -------------------------------------------------------------------- Padre, Figlio e Spirito => autocomunicazione ad extra LaCugna propugna per un ritorno ad una prospettiva essenzialmente biblica, precedente a Nicea. L’oikonomia non è la T ad extra, la TE, ma è l’economia globale che va dalla creazione al ritorno al Padre. La theologia non è la T ad intra, la TI, ma molto più modestamente il mistero di Dio. Se un uomo ci viene incontro – sostiene LaCugna – non abbiamo a che fare con due uomini, uno ad extra (che ci viene incontro) e uno ad intra (l’uomo in sé). Abbiamo a che fare con un solo uomo, che ci viene incontro, ma che resta nondimeno un mistero. In un certo senso, anche per LaCugna possiamo parlare di una theologhia ad intra ma dobbiamo intenderla come una parte dell’intera oikonomia. Per non parlare della vita intradivina, come diversa e distinta dalla storia della salvezza, dobbiamo dire che: alla luce della rivelazione, la vita della Trinità è anche la nostra vita ma non ci sono due livelli di questo movimento trinitario dell’amore. Esiste solo un’unica vita di Dio trinitario e in questa vita noi siamo inseriti per grazia. Il tentativo di parlare della vita trinitaria, come mistero di Dio che appartiene solo a Dio e non contempla l’uomo, è ingannevole. Non si tratta di parlare di Dio in sé ma di Dio con noi e tra di noi. Infatti, sarebbe impossibile parlare di Dio senza partire da come si è rivelato a noi, per Cristo nello Spirito. La teologa postula che, invece che parlare di “Persona o relazioni” all’interno di Dio, dovremmo parlare dell’esistenza concreta di Dio che esiste trinitariamente nella storia. Dobbiamo abbandonare la fissazione riguardante Dio in sé. LaCugna: «L’assioma rahneriano, pur costituendo un valido punto di partenza per la rivitalizzazione della dottrina della Trinità, non può essere accettato incondizionatamente […]. Il quadro concettuale di Trinità economica ed immanente […] si propone di garantire contemporaneamente una correlazione e una distinzione fra l’autocomunicazione di Dio nella storia della salvezza e Dio come tale. La distinzione non è però ontologica: vi è un solo Dio, una sola autocomunicazione, un solo mistero unitrino di amore e comunione avente modalità sia eterne sia temporali [il primo schema di sopra ha modalità sia eterne che temporali]. Allo stesso tempo, il punto di partenza è uno solo: l’oikonomia che rivela il mistero della theologhia. La distinzione fra Trinità economica e immanente […] è dunque concettuale. Essa congiunge le idee di “Dio” e “Dio con noi” nel paradosso che sta alla base di tutta la conoscenza teologica: Dio conferisce liberamente, assolutamente e completamente se stesso nell’incontro con le persone umane e tuttavia rimane ineffabile perché la creatura è incapace di ricevere e di comprendere pienamente colui che è comunicato. Il referente della Trinità immanente non è dunque “Dio in se”, o “l’essenza di Dio com’è in se stesso”. Le teorie sulla natura di Dio a prescindere dall’autocomunicazione nella storia della salvezza rimangono inverificabili e, in definitiva, non teologiche, perché la theologhia è data soltanto attraverso l’oikonomia. E, tuttavia, l’indagine sul fondamento immanente delle missioni del Figlio e Spirito rimane un’impresa teologica legittima, a condizione che venga concepita con la dovuta modestia, e cioè come una riflessione sull’auto-disvelamento di Dio nella persona di Cristo e nell’attività dello Spirito».[16: C.M. LaCugna, Dio per noi, Brescia 1997, p. 241.] Probabilmente,secondo LaCugna, la trinitaria tomista non sarebbe stata sviluppata con la dovuta modestia! J. Moingt: non c’è motivo per riflettere infinitamente su chi è Dio in sé stesso o su cosa faceva prima della creazione del mondo. Egli, da sempre, ha voluto essere Dio con noi. Fino al punto da voler venire con noi e tra di noi. Weinandy: LaCugna ho ovviamente ragione quando sottolinea che il Dio che esiste è il Dio per noi: non c’è un altro Dio che non è per noi. Non c’è una differenza ontologica. Però, affinché possa esistere la T per noi, deve esistere la T. Non c’è differenza ontologica tra TI e TE ma si deve dire che tale differenza esiste tra Dio e tutto ciò che esiste, tra Dio e il creato. Weinandy afferma che Dio entra nel mondo essendo però ontologicamente “totalmente altro”. Per LaCugna, invece, Dio non è presente nell’economia con la sua totale alterità, non è mai totalmente altro, perché Dio è ridotto appunto alla sua economia. Non sperimentiamo quindi Dio nella sua totale alterità ma solo ridotto alla sua economia. L’inscrutabile mistero di Dio è per la teologa solo il mistero della storia della salvezza. In questo modo, Dio perde la sua alterità radicale nei confronti dell’economia. Nello schema di LaCugna, per alcuni versi convincenti, l’economia non è una realtà in cui la T è presente e agisce ma è l’unica realtà nella quale Dio esiste. 4. Dalla Trinità immanente alla Trinità economica? Bourassat (teologo canadese, insegnante alla PUG): la teologia della T deve ridursi ad una dogmatica della storia della salvezza (esattamente come vorrebbe LaCugna)? Bourassat fa notare che l’insistenza con cui si voleva un simile approccio (cioè la prospettiva strettamente salvifica della storia della salvezza) deriva dal fatto che, in precedenza, l’approccio storico-biblico era stato trascurato a causa dell’esagerazione dei tomisti e dei neo-tomisti: la necessità di ritornarvi non può arrivare fino ad escludervi Dio in sé stesso. La teologia trinitaria è andata oltre il quadro della storia, formulando ipotesi e assiomi. I risulatati di questo lavoro costituicono essi stessi una materia teologica. La teologia trinitaria deve andare al di là della storia ma ciò non vuol dire perdere del tutto il legame con essa. Essere invitati al cuore della vita trinitaria supera la storia e si esprime sul piano ontologico e metafisico. È stato detto tante volte che, a partire dall’economia, noi possiamo conoscere la T in sé stessa. Ora questa identità tra TE e TI non solo non esclude ma postula che si possa e addirittura si debba partire dalla TE per comprendere meglio, ascendendo, la TI e, in senso discendente, tornare poi dalla TI alla TE, cercando di comprendere meglio la storia della salvezza. Fides et ratio: «55. Se guardiamo alla nostra condizione odierna, vediamo che i problemi di un tempo ritornano, ma con peculiarità nuove. Non si tratta più solamente di questioni che interessano singole persone o gruppi, ma di convinzioni diffuse nell'ambiente al punto da divenire in qualche misura mentalità comune. Tale è, ad esempio, la radicale sfiducia nella ragione che rivelano i più recenti sviluppi di molti studi filosofici. Da più parti si è sentito parlare, a questo riguardo, di « fine della metafisica »: si vuole che la filosofia si accontenti di compiti più modesti, quali la sola interpretazione del fattuale o la sola indagine su campi determinati del sapere umano o sulle sue strutture. Nella stessa teologia tornano ad affacciarsi le tentazioni di un tempo. In alcune teologie contemporanee, ad esempio, si fa nuovamente strada un certo razionalismo, soprattutto quando asserti ritenuti filosoficamente fondati sono assunti come normativi per la ricerca teologica. Ciò accade soprattutto quando il teologo, per mancanza di competenza filosofica, si lascia condizionare in modo acritico da affermazioni entrate ormai nel linguaggio e nella cultura corrente, ma prive di sufficiente base razionale.(72) Non mancano neppure pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l'importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l'intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio. Un'espressione oggi diffusa di tale tendenza fideistica è il « biblicismo », che tende a fare della lettura della Sacra Scrittura o della sua esegesi l'unico punto di riferimento veritativo. Accade così che si identifichi la parola di Dio con la sola Sacra Scrittura, vanificando in tal modo la dottrina della Chiesa che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ribadito espressamente. La Costituzione Dei Verbum, dopo aver ricordato che la parola di Dio è presente sia nei testi sacri che nella Tradizione,(73) afferma con forza: « La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera costantemente nell'insegnamento degli Apostoli ».(74) La Sacra Scrittura, pertanto, non è il solo riferimento per la Chiesa. La « regola suprema della propria fede »,(75) infatti, le proviene dall'unità che lo Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa in una reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in maniera indipendente.(76) Non è da sottovalutare, inoltre, il pericolo insito nel voler derivare la verità della Sacra Scrittura dall'applicazione di una sola metodologia, dimenticando la necessità di una esegesi più ampia che consenta di accedere, insieme con tutta la Chiesa, al senso pieno dei testi. Quanti si dedicano allo studio delle Sacre Scritture devono sempre tener presente che le diverse metodologie ermeneutiche hanno anch'esse alla base una concezione filosofica: occorre vagliarla con discernimento prima di applicarla ai testi sacri. Altre forme di latente fideismo sono riconoscibili nella poca considerazione che viene riservata alla teologia speculativa, come pure nel disprezzo per la filosofia classica, alle cui nozioni sia l'intelligenza della fede sia le stesse formulazioni dogmatiche hanno attinto i loro termini. Il Papa Pio XII, di venerata memoria, ha messo in guardia contro tale oblio della tradizione filosofica e contro l'abbandono delle terminologie tradizionali.(77) 56. Si nota, insomma, una diffusa diffidenza verso gli asserti globali e assoluti, soprattutto da parte di chi ritiene che la verità sia il risultato del consenso e non dell’adeguamento dell’intelletto alla realtà oggettiva. E certo comprensibile che, in un mondo suddiviso in molti campi specialistici, diventi difficile riconoscere quel senso totale e ultimo della vita che la filosofia tradizionalmente ha cercato. Nondimeno alla luce della fede che riconosce in Gesù Cristo tale senso ultimo, non posso non incoraggiare i filosofi, cristiani o meno, ad avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non prefiggersi mete troppo modeste nel loro filosofare. La lezione della storia di questo millennio, che stiamo per concludere, testimonia che questa è la strada da seguire: bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l’ansia per la ricerca, unite all’audacia di scoprire nuovi percorsi. E la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione. (72) Il Concilio Vaticano I, con parole tanto chiare quanto autoritative, aveva già condannato questo errore, affermando da una parte che « quanto a questa fede [...], la Chiesa cattolica professa che essa è una virtù soprannaturale, per la quale sotto l'ispirazione divina e con l'aiuto della grazia, noi crediamo vere le cose da lui rivelate, non a causa dell'intrinseca verità delle cose percepite dalla luce naturale della ragione, ma a causa dell'autorità di Dio stesso, che le rivela, il quale non può ingannarsi né ingannare »: Cost. dogm. Dei Filius III: DS 3008, e can.3. 2: DS 3032. Dall'altra parte, il Concilio dichiarava che la ragione mai « è resa capace dipenetrare [tali misteri] come le verità che formano il suo oggetto proprio »: ibid., IV: DS 3016. Da qui traeva la conclusione pratica: « I fedeli cristiani non solo non hanno il diritto di difendere come legittime conclusioni della scienza le opinioni riconosciute contrarie alla dottrina della fede, specie se condannate dalla Chiesa, ma sono strettamente tenuti a considerarle piuttosto come errori, che hanno solo una ingannevole parvenza di verità »: ibid., IV: DS 3018. (73) Cfr nn. 9-10. (74) Ibid., 10. (75) Ibid., 21. (76) Cfr ibid., 10. (77) Cfr Lett. enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 565-567; 571-573.». Possiamo e dobbiamo parlare della TI, usando un linguaggio diverso da quello della storia (della salvezza) e della narrativa (biblica) e, quindi, ci serve una metafisica. La domanda è: quale metafisica? Quella di Tommaso (dell’essere), attraente e veneranda? O altre metafisiche (come quella dell’amore), senza negare quella dell’essere? 03/05/2011 Parte IV Il mistero trinitario nella Chiesa dei primi tre secoli B. Mondin, La Trinità mistero d’amore, Bologna 1993, pp. 101-124. L. Ladaria, Il Dio vivo e vero, Casale Monferrato 1999, pp. 153-206. 1. I Padri apostolici sul mistero trinitario (Clemente Romano, Ignazio di Antiochia, Policarpo) I Padri apostolici sono – come sappiamo – quei vescovi che succedono agli apostoli. Il più antico documento letterario cristiano che possa essere datato subito dopo gli apostoli è la Lettera di Clemente Romano ai Corinzi, scritta nel 96 d.C. circa. Clemente pare sia stato il terzo capo della Chiesa di Roma dopo Pietro. In questa lettera, Clemente fa una domanda retorica: “Non abbiamo un solo Dio, un solo Cristo, un solo Spirito di grazia effuso su di noi?”. Clemente scrive e parla dell’unione dei Tre e della distinzione dei Tre per richiamare i Corinzi all’unità. Lo Spirito viene indicato come distinto dal Cristo e dal Padre. Egli esprime la convinzione che i Tre sono distinti ma che vanno sempre nominati insieme perché sono uniti. Non abbiamo veramente a che fare con una teologia trinitaria ma piuttosto con un ripetizione di ciò che si trova nell’AT. Abbiamo poi Ignazio d’Antiochia, morto sotto l’imperatore Traiano a Roma, dove era stato scortato da una pattuglia di soldati. Nel corso del viaggio scrive sette lettere a varie Chiese locali, vicine ai luoghi in cui passava. «Cercate di tenervi ben saldi […] nella fede e nella carità nel Figlio, nel Padre e nello Spirito Santo, al principio e alla fine […]. Siate sottomessi al vescovo e anche gli uni agli altri, come Gesù Cristo al Padre, nella carne, e gli apostoli a Cristo e al Padre e allo Spirito» (Ignazio di Antiochia, Lettera alla comunità di Magnesia, 13,1-2). Ignazio, poi, tocca anche la questione delle processioni, nella stessa lettera ai cristiani di Magnesia: “è l’unico Gesù Cristo che procedendo dall’unico Padre è ritornato a lui unito” (7,2). Lo Spirito invece, che era presente nella generazione umana e all’unzione di Gesù, “è da Dio” e perciò non può ingannare. Nella Lettera agli Efesini, Ignazio scrive invece chiaramente che Gesù Cristo è Dio: “il nostro Dio Gesù Cristo,…”; in un altro passo del medesimo scritto leggiamo: «Voi siete pietre del tempio del Padre preparate per la costruzione di Dio Padre, elevate con l'argano di Gesù Cristo che è la croce, usando come corda lo Spirito Santo. La fede è la vostra leva e la carità la strada che vi conduce a Dio. Siete tutti compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito Santo, in tutto ornati dei precetti di Gesù Cristo» (Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini, 9,1). Le Tre Persone, quindi, collaborano nella costruzione della Chiesa. Un bel testo trinitario lo troviamo, invece, in uno scritto di Marcione, in cui viene descritto il martirio di S. Policarpo, discepolo dell’Apostolo Giovanni e vescovo di Smirne, martirizzato solo qualche mese prima. Marcione mette sulla bocca di Policarpo una bella dossologia trinitaria: «Signore Dio onnipotente: Padre del tuo amato e benedetto servo Gesù Cristo, per mezzo del quale ti abbiamo conosciuto, Dio degli angeli e delle potestà e di tutta la creazione, e di tutto il popolo dei santi che vivono alla tua presenza: Io ti benedico per avermi giudicato degno, in questo giorno, di appartenere al numero dei martiri, nel calice di Cristo, per la risurrezione della vita eterna dell’anima e del corpo, nell’incorruttibilità dello Spirito Santo […]. Io ti benedico e ti glorifico per mezzo del Sommo sacerdote eterno e celeste Gesù Cristo, tuo amatissimo Figlio, per mezzo del quale sia resa gloria a Te insieme a Lui e allo Spirito Santo» (Policarpo, cit. da G. Lobo Méndez, Dio uno e trino, Milano 2005, 112). È poi da menzionare la Didaché, un testo del primo secolo in cui troviamo delle formule battesimali trinitarie: “In quanto al battesimo, dopo aver insegnato tutto ciò che precede, battezzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in acqua corrente”. Nei Padri apostolici, i pochi scarni elementi riguardano lo sviluppo dei rapporti tra le Persone divine (processioni): lo Spirito viene visto come presente nella vita di Gesù e come effuso su di noi. Nei tempi dei Padri apostolici non si vedeva l’urgenza di sviluppare maggiormente la dottrina trinitaria. Della Trinità si parla soprattuto in ambito liturgico o per chiamare i fedeli all’unità. 2. Il contributo degli Apologisti allo sviluppo della dottrina trinitaria Essendo in dissidio con i pagani e gli ebrei, gli apologisti non potevano limitarsi a ripetere le formule della Scrittura: la questione più importante era quella del rapporto tra Dio e Gesù Cristo nella prospettiva salvifica: cosa vuol dire che Gesù è Salvatore? Questa domanda implicava necessariamente quella del rapporto di Gesù con Dio. 2.1 San Giustino – il contemplatore del Logos Giustino, morto a Roma verso il 165 d.C., è tra gli apologisti più importanti per noi. Viene chiamato “contemplatore del Logos” perché la filosofia e la teologia di quel periodo sviluppavano le riflessioni sul Logos di Filone di Alessandria, filosofo ellenistico di cultura ebraica. Egli è il primo a mettere insieme le riflessioni bibliche sulla Parola di Dio con il Logos platonico. Giustino, a sua volta, trova nel Logos quel ponte che permette di collegare il Vangelo (Gv 1) con la filosofia greca (in cui il Logos è il principio di tutte le cose). Giustino riconosce i segni di verità della filosofia greca e, nello stesso tempo, sostiene che essa trova il suo compimento nel cristianesimo, che predica il Logos totale: Cristo. Si può dire pertanto che Giustino sia l’iniziatore di quel processo che noi chiamiamo oggi ellenizzazione del cristianesimo. Giustino difende i cristiani dall’accusa di ateismo, sostenendo che essi adorano Dio, creatore dell’universo, ineffabile e ingenerato. Questo Dio, però, ha un Figlio: il suo Logos, per mezzo del quale ha creato il mondo. Rispetto al Padre ingenerato, il Verbo è generato ma non come le creature. Nel Dialogo con Trifone, un interlocutore ebreo fittizio, Giustino cerca di dimostrare che il culto di Gesù non mette in discussione il monoteismo: il Figlio è generato da Dio in modo speciale e diverso dalle creature. Si tratta di una generazione intellettuale e non fisica (cosa che, se noi appare chiara, non lo era altrettanto per la gente del II secolo d.C.): «Come principio prima di tutte le creature Dio ha generato da se stesso una potenza razionale [logiken dynamin], che lo Spirito santo chiama ora Gloria del Signore, ora Figlio. […] I vari appellativi infatti le vengono dal fatto di essere al servizio della volontà del Padre e di essere stata generata dalla volontà del Padre» (Giustino, Dialogo con Trifone, 61,1). In questa espressione c’è però un’equivocità: cosa vuol dire che Dio Padre “ha voluto” generare il Figlio? Il Padre avrebbe forse potuto non generare il Figlio? Manca qui una chiara affermazione del fatto che la generazione del Figlio fa parte dell’essenzadel Padre e non è una qualcosa di contingente. Molti altri, però, si troveranno di fronte agli stessi problemi di Giustino. «Quando infatti proferiamo una parola, noi «generiamo» una parola, ma non per amputazione, sì che ne risulti sminuita la facoltà intellettiva che è in noi. Parimenti vediamo che da un fuoco se ne produce un altro senza che ne abbia detrimento quello di cui si è operata l’accensione. […] Me ne darà testimonianza il Verbo della Sapienza, poiché è lui questo Dio generato dal Padre di tutte le cose» (Giustino, Dialogo con Trifone, 61,2-3). Abbiamo due immagini non assolutamente nuove: la mente che esprime la parola e il fuoco che accende altro fuoco, senza per questo diminuire. Con la metafora del fuoco, Giustino esprime l’identità di natura del Figlio rispetto al Padre insieme però alla sua distinzione numerica. L’uso che Giustino fa del concetto di Logos lo apre al dialogo col mondo pagano ma, d’altra parte, va incontro al rischio di leggere il Cristo come il Demiurgo: un secondo Dio, intermedio. Per Giustino, l’epifania del Padre è impossibile: perché il Padre è l’origine ineffabile. In questo senso, Giustino rischia il subordinazionismo. Per quanto riguarda lo Spirito Santo, Giustino non approfondisce la penumatologia come fa con la cristologia: parla dello Spirito solo in prospettiva economica. «Noi onoriamo il Creatore di tutte le cose. […] onoriamo Gesù Cristo che è per noi maestro di queste cose e che per questo motivo è stato generato, […] abbiamo riconosciuto che è Figlio di colui che è Dio e lo poniamo al secondo posto, mentre al terzo poniamo lo Spirito profetico» (Giustino, Prima Apologia, 13,1-3). La generazione viene vista nella prospettiva della creazione: Gesù Cristo è stato generato per essere creatore e maestro di tutte le cose. Guardando gli sforzi dei primi secoli per asserire la divinità del Figlio e al contempo non uscire dal monoteismo, si deve notare che il concetto di Dio, espresso senza o con l’articolo (Theos o di ho Theos) non è univoco. Filone sosteneva che si può descrivere il Logos come Dio perché al Dio altissimo, in senso stretto, non si può adattare alcun nome. Da questo si può dedurre che i primi cristiani, quando sostenevano che Gesù Cristo fosse Dio, non necessariamente intendevano questo termine nello stesso senso in cui Dio Padre è Dio. 2.2 La generazione del Logos secondo Taziano Taziano, nato in Siria verso il 120 d.C., educato nella filosofia e nella retorica greca. Cerca di dimostrare che la generazione divina non implica una separazione in Dio. Cristo non è un altro Dio. «Per volere della semplicità della natura di Dio, ebbe origine il Logos. Il Logos che non è venuto invano, è l’opera primigenia del Padre. Questo sappiamo essere il principio del cosmo che esistette secondo distribuzione, non secondo scissione . Ciò che è stato scisso è separato dal primo, ma ciò che è distribuito e cha ha procurato la distribuzione dell’economia non ha causato imperfezioni a colui dal quale deriva. Come da una sola torcia si accendono molti fuochi e la prima torcia non è scemata di luce a causa dell’accensione di molte torce, così anche il Logos originato dalla potenza del Padre, non rende privo di Logos colui che lo ha originato» (Taziano, Ai greci, 5). Se Gesù Cristo è il Logos del Padre, la Ragione, la Mente, si deve dire che dopo la sua generazione, egli non va lontano dal Padre, altrimenti questi resterebbe senza ragione. La generazione è una distribuzione (una partecipazione) non una scissione. Taziano non parla del ruolo dello Spirito nella vita intradivina ma dice soltanto che egli può abitare negli uomini. 2.3 Atenagora - l’unità e la distinzione in Dio Atenagora, filosofo cristiano decapitato alla fine del II sec., indirizza all’imperatore Marco Aurelio e a suo figlio Commodo un’apologia a favore dei cristiani. «Noi non siamo atei, poiché ammettiamo un Dio unico, increato, eterno, invisibile, impassibile, incomprensibile, immenso […]; da lui l’universo intero è stato creato per mezzo del suo Verbo ed è ordinato e governato. Riconosciamo anche un Figlio di Dio. E non mi si reputi cosa ridicola che Dio abbia un Figlio. Infatti ben diversamente da come favoleggiano i poeti che mettono in scena degli déi per nulla migliori degli uomini, noi la pensiamo riguardo a Dio Padre e riguardo al Figlio. E il Figlio di Dio è il Verbo del Padre in idea e atto, perché a sua immagine e per mezzo suo tutto fu fatto, essendo il Padre e il Figlio una cosa sola. Il Figlio invero è nel Padre e il Padre è nel Figlio per unità e potenza di spirito, per cui veramente il Figlio di Dio è Mente e Verbo del Padre. E se, per l’eminente vostra intelligenza, voi desiderate indagare che cosa significhi la parola “Figlio”, ve lo dirò brevemente. E’ il primo che ha origine dal Padre, non nel senso che sia prodotto (dal principio infatti Dio, essendo mente eterna, aveva in se stesso il Verbo, poiché egli è eternamente razionale), ma nel senso che, mentre tutte le cose materiali erano simili a materia informe e terra immota, mescolate le cose più dense con quelle più leggere, egli procedette per essere su di esse modello e operazione. […] In verità noi diciamo che anche lo stesso Spirito santo che opera nei profeti è un effluvio di Dio; egli emana e ritorna come raggio di sole. E chi non rimarrebbe stupito nel sentire chiamare atei coloro che professano Dio Padre e Dio Figlio e lo Spirito Santo, dimostrando non solo la potenza dell’unità ma anche la distinzione nell’ordine» (Atenagora, Supplica per i cristiani, n. 10). Quest’ultima frase è interessante. C’è da sottolineare, infatti, che Atenagora cerca di distinguere i piani del discorso. L’unità è descritta sul piano della potenza (la potenza è una sola) mentre la distinzione è vista nella prospettiva dell’ordine. «A noi invece, uomini per i quali la vita presente è di breve durata e di poco conto, uomini che siamo trascinati dal solo desiderio di vedere il vero Dio e il verbo che procede da lui, di contemplare quale sia l’unità del Figlio con il padre, quale la comunicazione del padre con il Figlio, che cosa sia lo Spirito, quale sia l’unione di così grandi realtà e la distinzione di essere così uniti, dello Spirito, del Figlio e del Padre; […] a noi dunque che siamo tali e che viviamo una tale vita per sfuggire la condanna del giudizio, non si dà credito di essere pii?» (Atenagora, Supplica per i cristiani, n. 12). In questo frammento si può notare il profondo desiderio e la profonda passione cristiana per la conoscenza di Dio, Padre, Figlio e Spirito. 2.4 Teofilo di Antiochia – la distinzione tra due stadi del Logos preesistente Teofilo nasce forse intorno all’anno 120. Si converte al cristianesimo in età adulta e viene eletto vescovo di Antiochia. L’unica sua opera pervenutaci sono i tre libri Ad Autolico, in cui Teofilo riferisce di tre colloqui con questo personaggio pagano che gli rimprovera la conversione al cristianesimo. Teofilo è il primo ad usare, tra gli scrittori ecclesiastici, la parola greca Trias (anche se probabilmente il primo ad usarla fu un certo Teodoro di Bisanzio, in un testo agnostico). “I tre giorni che precedono la creazione dei luminari sono simbolo della trias di Dio, del suo Verbo e della sua Sapienza [che in questo caso è lo Spirito Santo – NdR]. La cosa più interessante di Teofilo è la distinzione tra due stadi del Logos preesistente: il logos endiathetos o Verbo immanente a Dio Padre; il logos prophorikos o Verbo pronuciato da Dio nella creazione del mondo. «Il Verbo è sempre immanente nel cuore di Dio. […] E quando Dio volle creare quanto aveva deliberato, generò questo Verbo come proferito, primogenito di tutta la creazione, senza privarsi del suo Verbo e conversando sempre con lui» (Teofilo di Antiochia, Ad Autolico, 2,22). Teofilo, dunque, pensa che prima della Creazione il Figlio fosse inespresso o immanente nel Padre, così come il pensiero resta immanente alla mente, ma all’atto della creazione, Egli sarebbe stato emanato dal Padre, acquistando unaforma d’espressione esteriore. 3. Due mani di Dio nell’insegnamento di Ireneo di Lione Nato nel 135 d.C. e morto nel 202-203 d.C., Ireneo oppone alle speculazioni gnostiche quella che egli chiama regula veritatis, la radice di quelli che noi oggi chiamiamo simboli di fede. Nella Demonstratio apostolica, Ireneo sviluppa i primi tre articoli di fede: «Ecco l’ordine della nostra fede, il fondamento dell’edificio e la base della nostra condotta. Dio Padre, increato, incircoscritto, invisibile, unico Dio, creatore dell’universo. Tale è primo e principale articolo della nostra fede. Il secondo è: il Verbo di Dio, figlio di Dio, Gesù Cristo nostro Signore, è apparso ai profeti secondo il disegno della loro profezia e secondo il modo disposto dal Padre; per suo mezzo è stato creato l’universo. Inoltre «alla fine dei tempi» per ricapitolare ogni cosa si è fatto uomo tra gli uomini […]. Come terzo articolo: lo Spirito santo, per virtù del quale i profeti hanno pronunciato le loro profezie […]; alla fine dei tempi è stato effuso in modo nuovo sull’umanità per tutta la terra rinnovando l’uomo per Iddio. […] Senza lo Spirito santo non si può vedere il Verbo di Dio e senza il Figlio nessuno può accostarsi al Padre, perché il Figlio è la conoscenza del Padre e la conoscenza del Figlio avviene tramite lo Spirito Santo» (Ireneo di Lione, Dimostrazione della predicazione apostolica, 6-7). In Ireneo si può scorgere una certa subordinazione del Figlio al Padre e non è asserita una piena consustanzialità, come del resto tutti fanno in quel periodo, non essendo alcuno in grado di proporre una terminologia che risolvesse tutte le ambiguità. La prospettiva economica non gli permette di arrivare alla piena uguaglianza dei Tre nella vita intradivina. In Adversus haereses, Ireneo sostiene che, nella creazione, il plurale usato nella proposizione “facciamo l’uomo” indica che il Padre si rivolge alle altre due Persone divine, che Ireneo paragona alle due mani di Dio. Lo Spirito perfeziona nell’ordine della grazia l’opera del Figlio che crea. L’uomo viene creato ad immagine di Gesù Cristo e poi viene perfezionato, nell’ordine della grazia, dallo Spirito Santo. Il Figlio realizza l’economia del Padre in modo diretto mentre lo Spirito porta l’uomo, immagine di Dio, alla somiglianza divina. D’altra parte, lo Spirito prepara l’uomo per il Figlio di Dio; il Figlio lo conduce al Padre; e il Padre gli dà l’incorruttibilità per la vita eterna. Abbiamo dunque in Ireneo un doppio movimento trinitario: uno discendente (dal Padre, per il Figlio nello Spirito comunicato a noi) e uno ascendente (che dallo Spirito, per mezzo del Figlio, conduce al Padre). 4. I primi sistemi delle eresie trinitarie: adozionismo e modalismo Un gruppo di cristiani, i monarchiani, accentuava fortemente l’aspetto dell’unità divina. La prima direzione in cui si è sviluppata l’eresia monarchiana è l’adozionismo o monarchianismo dinamico. Questa corrente si ispirava sostanzialmente alla filosofia platonica, interpretando la Seconda Persona della Trinità in chiave demiurgica. Alcuni consideravano Gesù Cristo come un angelo, altri come un uomo; in tutti i casi, egli veniva adottato da Dio, al momento del battesimo nel Giordano, con la discesa su di lui dello Spirito Santo. I monarchiani sostenevano che Gesù, dopo il battesimo e la discesa dello Spirito su di lui, fosse stato dotato di una particolare dynamis divina (da qui l’aggettivo dinamico), senza però essere diventato Dio. Si poteva, dunque, in qualche modo dire che Cristo fosse “divino” senza intaccare il monoteismo. Due dei massimi esponenti del monarchianismo furono Teodoto di Bisanzio (in Occidente) e Paolo di Samosata (in Oriente). Quest’ultimo insegnava che il Logos fosse entrato in connessione esteriore con Gesù, fosse entrato cioè nell’uomo Gesù e lo avesse fatto figlio di Dio e homoousios col Padre. Si noti come il termine, usato qui in un senso particolare, in un contesto non ortodosso, e successivamente condannato in un sinodo antiocheno, verrà poi usato dal Concilio di Nicea per le sue proprie definizioni dogmatiche, in un contesto assolutamente ortodosso. Il modalismo, invece, riduceva Gesù Cristo ad un modo diverso di manifestarsi dello stesso Dio. Ne risultava che in Dio non esistessero persone ma solo modi di manifestarsi dell’unico Dio, diverse maschere. Alcuni ne deducevano logicamente che a soffrire sulla croce fosse stato il Padre in persona (patripassianismo). Papa Zefirino respinge il patripassianismo: “Non è morto il Padre ma il Figlio” (DH 105). Nella corrente modalista possiamo annoverare pensatori come Noeto, Prassea o Sabellio. Dal nome di Sabellio prendeva il nome un tipo specifico di modalismo: il sabellianismo. I sabelliani insegnavano che Padre, Figlio e Spirito Santo fossero solo diverse caratterizzazioni dell’unica Divinità. La Divinità è Padre (in quanto legislatore dell’AT), è Figlio (in quanto redentore) ed è Spirito Santo (nella santificazione delle anime). I modi di manifestarsi sono transitori: la Divinità smette di essere Padre con l’Incarnazione e smette di essere Figlio con l’Ascensione, per divenire Spirito. Non esiste, dunque, per i sabelliani, alcuna differenziazione personale intradivina ma tutto si gioca sul piano dell’economia. Sabellio chiamava Dio Padre-Figlio. Papa S. Dionisio, morto nel 268 d.C., condannò Sabellio, dicendo che fosse un bestemmiatore. 05/05/2011 5. La concezione trinitaria di Tertulliano Tertulliano, nato a Cartagine 155-230 d.C. circa, alla fine della sua vita adottò delle posizioni religiose rigoriste, aderendo al montanismo. Adversus Praxean (AP) è l’opera in cui Tertulliano, polemizzando con Prassea, un modalista, sviluppa la sua teologia trinitaria (Tertulliano scrive ormai da montanista, ma questa eresia non aveva alcun influsso sulla dottrina trinitaria; ne sarà anzi uno dei motori di sviluppo). Tertulliano, inserendo nel dibattito molti termini filosofici, conferma la regula fidei cristiana, che distingue tra Padre, Figlio e Spirito, parlando però di una sola Divinità. Tres unum sunt non unus: è una pregnantissima formulazione permessa dal latino, giocando sulla differenza tra maschile e neutro; si potrebbe tradurre con “I Tre sono una sola cosa e non una sola persona”. Tertulliano inoltre fa largo uso di metafore: Padre, Figlio e Spirito sono come Radice, Arbusto e Frutto oppure Sorgente, Ruscello e Irrigazione oppure ancora Sole, Raggio e Irradiazione. Nel capitolo 9 di Adversus Praxean troviamo invece distinzioni più astratte ma abbastanza precise. «Ecco, infatti, che io affermo essere altro (alius) il Padre e altro (alius) il Figlio e altro (alius) lo Spirito – affermazione che mal intende chiunque, incompetente o disonesto, che ciò comporti una diversità (diversitas) e che dalla diversità derivi una separazione (separatio) del Padre e del Figlio e dello Spirito, mentre io devo necessariamente farla, perché questi [i modalisti] sostengono che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono la stessa cosa […]; e tuttavia altro il Figlio dal Padre, non sulla base di una diversità (diversitas), ma di una distribuzione (distributio), altro non sulla base di una divisione (divisio) ma di una distinzione (distinctio)… » (Tertulliano, Adversus Praxean, 9). Quando abbiamo parlato, nei capitoli precedenti, del mistero della Croce abbiamo usato i medesimi terrmini di Tertulliano, ma nella prospettiva concettuale dell’alterità. Si noti poi l’uso del concetto di distribuzione, a noi già noto da Taziano. I Tre in Dio, Tertulliano le definisce come persone, dandoci una formula che resterà capitale nella successiva teologia trinitaria Tres personae unius Divinitatis. Le Tre Persone sono tre Soggetti e non solo tre modi di manifestarsi. L’unità di Dio viene così a legarsi al concetto di sostanza e la pluralità divina al concetto di persona. È possibile così dire che è proprio Tertulliano ad introdurre nella teologia trinitaria il concetto di “persona”. È però da notare che tanto allora quanto ora il concetto di “persona”non era affatto univoco. Il significato originario del greco prosopon, di cui il latino persona è la traduzione, era “ciò che capita sotto gli occhi” e, per derivazione, “volto, figura (visibile) dell’uomo” e anche “ruolo (di un attore), maschera (del teatro)”. In epoca ellenistica, il termine passa ad indicare l’individuo inserito in una comunità. Nella LXX, il termine prosopon ricorre più di 850 volte, come traduzione dell’ebraico panîm (volto). Seneca usava il termine come persona concreta, per distinguerlo dal termine generale homo. Nonostante il termine potesse sembrare molto debole per indicare un Soggetto divino (infatti, era legato più all’aspetto esterno/superficiale di un qualcosa), Tertulliano lo usa, riempiendolo con un profondo significato teologico, dandogli la spinta per una carriera favolosa (33 volte in AP, in altri scritti più di 100 volte). Inoltre, Tertulliano, da un lato, dice che il Figlio è Dio ex unitate Patris e, altre volte, ex unitate substantiae. Quest’ultimo termine veniva usato come traduzione di hypostasis, fondamento. Ma nel linguaggio comune era usato tanto per “le sostanze”, cioè i beni, le proprietà. A volte, poi, esso veniva usato come traduzione del greco ousia. Entrambi i termini greci, hypostasis e ousia, avevano un significato tanto generale quanto individuale, mentre substantia assumerà in latino solo un significato generale. AP, 5: prima della creazione, Dio era solo perché non esisteva altro all’esterno di Lui. Ma, anche in quel momento, non era completamente solo perché aveva, in sé stesso, la sua Ragione. La Ragione, dunque, è da sempre, dall’eternità, ma nel seno di Dio, senza essere ancora generata. Deve esserci fin dall’origine perché Dio è razionale. Ecco che il Logos viene visto di nuovo nella prospettiva della creazione. In questa prospettiva, in questo modo di parlare, la Razionalità eterna non si distingue dalla Persona razionale, non potendosi ancora parlare dei due (tre) Soggetti, di due (tre) Persone. In altri termini, se Dio non avesse creato, la Divinità non si sarebbe distinta in Trinità. Il problema, che oggi rivediamo nel grundaxiom rahneriano e nelle polemiche che ne sono seguite (la Trinità che si forma nell’economia), come si vede è molto antico. Tertulliano dice esplicitamente che il Figlio e lo Spirito sono inferiori al Padre, in quanto non sono né coeterni a Lui né uguali a Lui. Ne deriva che le formule trinitarie di sopra non avevano per Tertulliano lo steso significato che gli attribuiamo noi oggi. Tertulliano, parlando delle Tre Persone, non ha scoperto tutto ciò che noi oggi crediamo e confessiamo. Alcuni teologi tentato di difendere Tertulliano dicendo che egli non entra formalmente nel subordinazionismo perché la creazione va vista sul piano dell’eternità (la creazione è eterna, dall’eternità). Di conseguenza se la generazione del Figlio è vista in prospettiva economica ma l’economia è eterna, ne consegue che la generazione del Figlio è eterna come la crezione e il Figlio è coeterno al Padre. 6. L’eternità del Logos secondo Ippolito di Roma. Ippolito di Roma, 170-235 d.C., teologo e scrittore cristiano. L’opera principale di Ippolito, che interessa in particolar modo la teologia trinitaria è Contra Noetum, un altro esponente del modalismo. Anche Ippolito, come Tertulliano, parla della solitudine di Dio. All’origine, egli era solo ma era molteplice. Non era privo né di Sapienza, né di Potenza né di Volontà ma tutto era in lui e Lui era tutto. «In origine Dio è solo, nulla è a lui coevo, crea perché vuole e, ugualmente, genera il Logos di sua volontà, anche se dalla propria sostanza.. In un primo momento il Logos vive nel cuore del Padre; c’è un’unita di Dio e in Dio, una distinzione indivisa del Padre e del Figlio. […] Di sua volontà Dio proferisce il Logos personale e mediante il Logos crea poi il mondo» (cfr. Ippolito di Roma, Contra Noetum, 10,2-4). Ippolito fa notare una relazione tra la processione eterna del Logos e la generazione umana del Figlio: la prima è orientata alla seconda ed entrambre hanno luogo quando Dio lo vuole. La generazione del Figlio non implica la separazione del Logos da Dio: quindi non ci sono due dei. 7. Il mistero trinitario secondo Origene Nato in Egitto nel 185, morì nel 253-254 d.C., è il più famoso e importante teologo cristiano ante Nicea. È il primo a riuscire a dimostrare che Dio è Padre fin dall’eternità e che le sue relazioni paterne, con il Figlio, con il mondo e con la Chiesa sono diverse. Dimostra anche che il Figlio è eterno (è generato eternamente). Se Dio è immutabile allora non poteva diventare padre in un momento del passato ma è Padre fin dall’eternità; di conseguenza vanno rigettate tutte quelle teologie che vedono la genrazione divina legata all’economia di creazione e redenzione. Essere Padre dall’eternità vuol dire che ha il Figlio dall’eternità, quindi il Figlio è coeterno al Padre, esiste da sempre con il Padre. «Crediamo che Dio è da sempre il Padre del suo unigenito Figlio, senza nessun inizio, né l’inizio che si dà (a) descrivere nel tempo né l’inizio che si può immaginare soltanto nella ragione, per così dire, (che si può) notare soltanto nella mente e nell’anima» (Origene, I principi I,2,2). Dio non avrebbe potuto esistere eternamente nella gioia: il Figlio è una condizione della gioia di Dio perché la gioia viene dalla relazioni, dallo stare insieme. La generazione del Figlio non consiste in una divisione della sostanza divina. Il Padre però è la causa del Figlio e, in questo senso, è più grande del Figlio. Ma, in senso logico, potremmo dire anche il contrario: il Figlio è la causa del Padre (nel senso che il Figlio è la causa della paternità divina). Dio Padre è la Testa o Principio della Trinità e come tale supera il Figlio e lo Spirito: per Origene solo il Padre è ho Theos, il principio assoluto e la divinità in senso proprio. Ovviamente queste affermazioni hanno sapore subordinazionista. Il Figlio è sempre “sotto” il Padre, è subordinato a Lui, nel senso che è Dio ma non come il Padre. Si nota ancora, dunque, la mancanza di termini adeguati per comprendere ed esprimere la distinzione e l’uguaglianza tra i tre. Origene sostiene poi che non è chiaramente precisato se lo Spirito Santo sia generato o ingenerato, cioè se anche lo Spirito è figlio, accanto al Figlio. Tali questioni – secondo Origene – devono essere approfondite e trattate sulla base della Scrittura. L’unica cosa certa, riguardo allo Spirito Santo, è che è increato. Contro i modalisti, Origene difende la distinzione dei tre in Dio: «Quanto a noi, persuasi come siamo che esistono tre ipostasi, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e crediamo che nessuna di esse, all’infuori del Padre, sia ingenita, riteniamo […] che lo Spirito Santo abbia posizione preminente su tutto ciò che è stato fatto per mezzo del Logos e sia appunto nell’ordine il primo degli esseri derivati dal Padre per mezzo do Cristo» (Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, II,10,75). 8. La relazione tra il Padre e il Figlio secondo Novaziano Novaziano, presbitero romano, da lui prende nome la setta dei novaziani (ma non si tratta di un’eresia trinitaria). Scrisse l’opera De Trinitate, mostrando la paternità di Dio in relazione alla creazione: quando il Padre volle, il Figlio procedette dal Padre. D’altra parte, il Figlio esiste da sempre, altrimenti il Padre non sarebbe Padre. In altri termini, Novaziano presenta una teologia meno chiara di (e per alcuni versi già superata da) quella di Origene. «Egli che procedette da colui per il cui volere sono state fatte tutte le cose, è certamente Dio procedente da Dio, formando, in quanto Figlio, la seconda persona dopo il Padre, ma non togliendo al Padre la prerogativa di essere il solo Dio» (Novaziano, De Trinitate, 31,87). Novaziano non chiama lo Spirito né Persona né Dio ma gli effetti che gli attribuisce mostrano che egli non ne nega né la divinità né la personalità. Il Padre dà tutta la divinità al Figlio ma poi il Figlio rimanda tutta la divinità al Padre,senza cessare di essere Dio: si tratta di un movimento continuo dell’amore. Novaziano afferma che il Padre e il Figlio sono una cosa sola per l’amore del Padre che ama il Figlio, cioè per l’amore e la carità che sussiste tra loro. L’unione divina, quindi, si spiega non per l’unità di sostanza ma per l’unità d’amore. Questo, forse, è troppo poco per spiegare l’unità divina ma è certamente testimonianza dell’intuizione di una metafisica innovativa. 9. La controversia tra Dionigi di Roma e Dionigi d’Alessandria Vale la pena di riferirsi ad una controversia tra papa Dionigi di Roma (+268), discepolo di Tertulliano, e Dionigi di Alessandria, vescovo, discepolo di Origene. Il secondo, come Origene, usava il termine ipostasi per parlare dei Tre in Dio ma lo faceva dando l’impressione di negarne l’unità. La reazione romana a questo tipo di teologia fu il Sinodo di Roma del d.C. a la pubblicazione di una lettera contro l’Alessandrino (DH 112). Papa Dionigi accusava Dionigi di Alessandria di essere all’estremo opposto di Sabellio (che rappresentava il polo monarchiano), rappresentando l’abbandono del monoteismo in favore di una netta divisione della Trinità in tre dei (triteismo). «Dunque non si deve né dividere la mirabile e divina unità in tre divinità, né impedire mediante una presunta produzione il valore e la trascendente grandezza del Signore. Ma è necessario aver creduto in Dio Padre onnipotente, e in Cristo Gesù suo Figlio, e nello Spirito Santo che il Verbo cioè è un’unità con il Dio di tutte le cose. Egli dice infatti: «Io e il Padre siamo una sola cosa» (Gv 10, 30) […] Così infatti possono venir mantenuti sia la divina Trinità sia il santo annuncio della monarchia» (Lettera a Dionigi di Alessandria, DH 115). Il problema consisteva nella confusione terminologica derivante dalla traduzione del greco ipostasi col latino sostanza: ciò implicava, nel versante latino, che ci fossero non Tre Persone in una sola Sostanza ma tre sostanze e quindi tre dei diversi. In realtà, il problema è un falso problema, derivante dall’ambiguità del linguaggio: entrambi i Dionigi difendevano la fede della Chiesa: il Romano il monoteismo, l’Alessandrino il trinitarismo. Parte V La controversia ariana e il Concilio di Nicea. I Padri Cappadoci e il Concilio di Costantinopoli I. 1. La dottrina di Ario Ario, nato nel 256 circa, presbitero ad Alessandria, morì nel 336 d.C.; dei suoi scritti non rimane quasi niente, essendo stati bruciati dalla successiva ortodossia. Conosciamo però la sua dottrina dagli scritti dei suoi avversari, come Atanasio di Alessandria, perciò molti si domandano se… Ario radicalizza le tendenze subordinazioniste presenti nella dottrina del Logos. Per Ario, il Padre è estraneo al Figlio sul piano dell’ousia. Il procedere del Figlio dal Padre ha il duo “da quando”, “per mezzo di chi” e “in che modo”. Proverbi 8, 22-25: il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività. Dal secondo secolo i cristiani interpretavano queste parole come parole di Cristo riguardanti la sua propria origine. Ario intendeve la generazione del Figlio come la prima e la più perfetta delle creazioni divine. Non è quindi una generazione eterna ma una prima creazione ex nihilo. Il Logos è infatti la prima delle creature, unica mediatrice tra Dio e il mondo. La prima creatura del Logos è lo Spirito Santo. Gesù Cristo era, invece, l’uomo perfetto, che ha meritato di avere un nome divino; ma tutto ciò si realizza come adozione del Nazareno. Nell’Incarnazione, il Logos ha preso il posto dell’anima nell’uomo Gesù. In questo senso, Gesù non è né vero Dio né vero uomo ma una creatura del tutto particolare. Ario, pur non essendo un teologo impeccabile, sapeva propagandare benissimo le sue idee e l’arianesimo si diffuse a macchia d’olio per il Mediterraneo. I marinai, i commercianti e i frequentatori delle taverne cantavano i canti di Ario sul Logos; Talìa, una delle opere principali di Ario, non era altro che una raccolto di canti. 2. Il Concilio di Nicea sulla relazione tra il Padre e il Figlio Fu convocato dall’imperatore Costantino, col benestare di papa Silvestro. Alcuni scienziati sostengono che il Concilio di Nicea non fu convocato primariamente per risolvere la crisi ariana ma piuttosto per questioni disciplinari e cerimoniali-liturgiche: stabilire una data comune per la Pasqua e formulare una definizione di fede da usare nel cerimoniale dell’imperatore. Tuttavia, operare ciò implicava necessariamente confrontarsi con la dottrina ariana. «Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, artefice di tutte le cose visibili ed invisibili, e in un solo Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio, generato, unigenito dal Padre cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non fatto, consostanziale al Padre, per mezzo del quale tutte le cose furono originate, quelle nel cielo e quelle nella terra, egli per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese e si incarnò, divenne uomo, patì e risuscitò il terzo giorno, e salì nei cieli, viene a giudicare i vivi e i morti, e [crediamo] nello Spirito Santo. Coloro invece che dicono: “C’era un tempo in cui non c’era”, e: “Prima di essere generato non c’era”, e che fu originato da ciò che non è, o dicono essere il Figlio di Dio da un’altra ipostasi o sostanza o creato [!] o trasformabile o mutevole, costoro li colpisce di anatema la chiesa cattolica» (Simbolo di Nicea, DH 125). Si aggiunge “Dio vero da Dio vero” a “Dio da Dio” è dovuta alla volontà di mettere al bando l’arianesimo che usava il termine “Dio” in senso non univoco (che poteva dire “Dio” Gesù Cristo, il Figlio, con un significato diverso dal “Dio” attribuito al Padre). Il Concilio sottolinea, contro Ario, che il Figlio solo viene all’esistenza dal Padre per generazione, un processo molto diverso dalla semplice creazione: l’opposizione tra generazione e creazione è chiarissima. Homoousios (consostanziale) è il termine chiave del Concilio: il Figlio è consustanziale, tra il Padre e il Figlio c’è identità di sostanza, mantenendo il completamente il Figlio al livello del trascendente ed escludendo in tal modo qualsiasi profumo subordinazionistico e sabelliano. 10/05/2011 Il sinodo completa il credo con dei canoni (DH 126): tra cui spiccano le condanne delle proposizioni ariane. Viene condannato che il Figlio di Dio provenga da un'ipostasi o sostanza diversa da quella del Padre. Sostanza e ipostasi vengono in questo caso identificate. Questa proposizione colpiva tanto Ario (il Figlio non procede da alcuna sostanza – perché è creato) quanto la dottrina di Paolo di Samosata (che sosteneva che il Figlio procedesse soltanto dalla sostanza umana di Maria). In qualche modo viene rigettato anche l’originesismo, che parlava di tre ipostasi (ma sappiamo anche Origene usava ipostasi in maniera non equivalente a substantia). Il simbolo viene approvato ma con una certa riserva: a destare scalpore fu l’introduzione del vocabolo (filosofico) homoousios che non rientrava nel vocabolario biblico e che, in precedenza, era stato usato in modo eretico (lasciando intendere che la sostanza divina fosse qualcosa di materiale). Tale uso era stato condannato da sinodi precedenti. Il linguaggio di Nicea non ha molti riferimenti alla TE e le conseguenze di questo fatto si faranno sentire per tanti secoli (fino ad oggi). 3. La recidiva antinicena degli ariani e il macedonismo Il simbolo niceno fu, in un primo momento, accettato anche dagli ariani ma subito si manifestò che l’accettazione non era tanto sincera. Tutti, temendo l’imperatore, si lasciarono convincere ad accettarlo sulla scorta delle sue pressioni. Dopo il Concilio, i diversi gruppi cominciarono a divulgare proprie interpretazioni del simbolo che erano molto poco nicene. Nel IV secolo contiamo circa 90 sinodi che continuarono a discutere sulle questioni nicene (due dei quali verranno successivamente considerati come Concili ecumenici). Gli ariani uscirono sconfitti dal Concilio ma si ripresero molto presto, interpretandoil simbolo in chiave ariana, trovando spesso (fin da Costantino) appoggio politico nella casa imperiale. Lo stesso termine homoousios non sembrava, dopo il Concilio, un punto intangibile, un punto di non ritorno ma un semplice termine da poter rimettere tranquillamente in discussione. Il Sinodo di Gerusalemme, 335, Ario verrà riabilitato. Con il passare del tempo, tuttavia, gli ariani cominceranno ad attaccare sempre più allo scoperto il simbolo niceno, sostenendo che il termine homousios fosse un termine sabelliano, che intendeva negare la distinzione tra Padre e Figlio. Tre correnti ariane: gli ariani radicali e conservatori (capeggiati da Eunomio) => eunomiano. Affermavano che Dio, non generato, genera un Figlio che, in quanto generato, non può essere Dio. Il Figlio è ahomoios (dissimile al Padre); una seconda corrente accettava il termine homois, proponendo il termine homoiousios: il Figlio è di sostanza “simile” a quella del Padre (una sola lettera – la “i” al posto della “o” – crea una differenza enorme); una terza corrente dell’arianesimo, più politica e meno teologica, negava l’uso di entrambi i termini, sulla base del fatto che non fossero biblici. Accettavano però il Figlio come homois al Padre (simile alla Persona del Padre, ma non secondo l’ousia, la sostanza del Padre). Durante la prima fase di controversia ariana, i teologi si erano occupati esclusivamente delle relazioni tra il Figlio e il Padre ma era implicito che, negando la divinità del Figlio, a maggior ragione si sarebbe dovuta negare la divinità dello Spirito Santo. È esattamente quello che fa Macedonio, vescovo ariano, cui è legata una particolare eresia, detta macedonismo o pneutomachia, una rielaborazione del subordinazionismo ariano. Infatti, gli aderenti a questa eresia credevano che lo Spirito Santo fosse una creatura di Dio, superiore agli angeli, ma non certo consustanziale al Padre e al Figlio. Nel 360, tutte le metropoli erano occupate da vescovi ariani. In questo anno si svolse il sinodo di Costantinopoli, alla presenza di 50 vescovi: una trionfo di esponenti antiniceni. La Chiesa si svegliò ariana. È da notare però che l’arianesimo fosse più diffusa tra il clero che tra i fedeli (uno dei maggiori motivi per argomentare a favore della valenza teologica del sensus fidelium). Dal 360 in poi, però, si cominciò il processo di ritorno all’ortodossia nicena. 4. Sant’Atanasio – gran difensore di Nicea Morto nel 373 d.C., a causa della sua difesa delle affermazioni di Nicea, doveva subire dal 328 al 362, cinque esili. In Occidente, invece, veniva perseguitato un altro grand difensore di Nicea: Ilario di Poitiers. Nel 372, grazie ad un mutato clima politico, Atanasio tornava per l’ultima volta alla sua sede patriarcale, incontrandosi con altri 20 vescovi niceni: il Sinodo dei Confessori. I vescovi niceni cercarono di mettere ordine nella terminologia teologica greco-latina. Conosciamo la teologia trinitaria di Atanasio grazie ai suoi tre discorsi Contro gli ariani. L’essenza della controversia, per Atanasio, consisteva nel problema di come e da chi l’uomo potesse essere salvato. Atanasio si opponeva strenuamente all’arianesimo e difendeva l’homoousios perché era convinto che questa eresia incombesse minacciosamente sulla dottrina della salvezza. L’uomo può essere salvato solo da Dio: ora, se Gesù Cristo, oltre ad essere uomo, non è Dio, noi non siamo stati salvati. «L’uomo unito a una creatura, cioè, se il Figlio non fosse stato vero Dio, non avrebbe potuto essere divinizzato, e l’uomo non avrebbe potuto restare in presenza del Padre se colui che si era rivestito del suo corpo non era per natura il vero Verbo del Padre» (Atanasio, Contro ariani II,70). La salvezza, di conseguenza, non esisterebbe né la possibilità della visio beatifica. Dio eterno non ha bisogno di un demiurgo per poter creare il mondo; ciò non significa che il Figlio non è mediatore ma solo che egli è mediatore da tutta l’eternità. Anche senza la creazione, il Figlio esisterebbe accanto al Padre da tutta l’eternità. Anche Atanasio usa la metafora conosciuta della luce e del raggio. Generazione eterna non significa divisione. La parola “generazione” è giusta perché ci permette di parlare della processione del Figlio dal Padre e non della sua creazione (che sarebbe un’eresia). Atanasio rifiuta l’idea della generazione voluta per volontà divina. Dobbiamo dire però che la generazione è qualcosa che obbliga Dio o che Dio non avrebbe potuto non volere la generazione? Atanasio fa notare che, essendo la generazione eterna, non c’è stato in Dio un momento in cui egli abbia dovuto fare una scelta. È un altro modo di impostare il problema del rapporto tra libertà e necessità, che in Dio coincidono. Lo Spirito Santo è da Dio, coeterno con il Padre e il Figlio. Atanasio, dunque, contro i penumatomachi, parla di una certa consustanzialità tra Padre, Figlio e Spirito Santo. 5. La dottrina trinitaria dei Padri Cappadoci Basilio Magno (+379 circa), Gregorio di Nazianzo (+390 circa) e Gregorio di Nissa (+395 circa, fratello di Basilio Magno). 5.1 Un chiarimento terminologico I cappadoci danno un gran contributo al processo di chiarimento e comprensione dei termini ousia e homoousios. Per ousia intendeno la natura, sostanza o essenza che è comune a tutti gli esseri della stessa specie. Ipostasi sarebbe invece la realtà individuale. Chi comprende bene questi termini, può dire tranquillamente che Dio è una ousia e tre ipostasi. «Tre per l’individualità o le ipostasi, se così si preferisce chiamarle, o le persone (prosopon), giacché non vogliamo litigare sui nomi fino a tanto che le sillabe offrono lo stesso senso; ma una in rapporto alla sostanza, tale è la divinità. Giacché esse sono divise senza divisione, se così posso dire, e sono unite nella divisione. In efetti la divinità è una in tre, e i tre sono uno, nel quale la divinità risiede o, per parlare in modo più preciso, che sono la divinità» (Gregorio di Nazianzo, Orazione 39,11). 5.2 Unità e distinzione in Dio I Cappadoci indicano le caratteristiche che distinguono i tre nella Trinità (meglio di quanto avessa fatto Atanasio, che non era riuscito a descrivere la loro distinzione in maniera soddisfacente): il Padre è la fonte ingenerata; il Figlio è generato dal Padre; lo Spirito procede dal Padre. Nello stesso tempo, esprimono bene l’uguaglianza dei Tre e la loro diversità: «Partendo dalla luce, che è il Padre, comprendiamo il Figlio nella luce, cioè, nello Spirito. […] Se ci fu un tempo nel quale il Padre non era, ci fu un tempo nel quale non c’era il Figlio. Se ci fu un tempo nel quale il Figlio non era, ci fu un tempo nel quale non vi era neppure lo Spirito. E se uno di essi era “fin da principio” (1 Gv 1,1), lo erano anche tutti e tre. E se tu abassi uno solo di essi, oso dirti che spodesti dall’alto gli altri due» (Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, 5,3). Gregorio di Nazianzo usa il concetto di relazione divina: si tratta del termie schesis (rapporto/relazione). C’è una schesis naturale del Padre al Figlio e allo Spirito. Ciascuno dei tre ha una proprietà di relazione. Gregorio parla di relazioni d’origine. Gregorio di Nissa sottolinea l’unità numerica di essenza o natura e la trinità di ipostasi costituite dalle relazioni (schesis) immanenti. Distingue chiaramente tra ousia che è ciò che comune ai Tre e ipostasi che è ciò che appartiene a tre distintamente. La Trinità ad intra è unità/distinzione; le Tre ipostasi hanno delle caratteristiche specifiche (che sono le relazioni). Per quanto riguarda la Trinità ad extra, è sempre tutta la Trinità che agisce verso l’esterno. I Cappadoci sono tra i primi a chiarire la dottrina dello Spirito Santo. Soprattutto basilio costruisce una dottrina che culminerà nel Costantinopolitano I. 5.3 La divinità dello Spirito Santo Il punto di partenza di Basilio è liturgico: «Di recente, mentre pregavo col popolo, terminavo la dossologia a Dio Padre in due diversi modi, talora dicendo: "Insieme al Figlio, con loSpirito Santo", talora invece dicendo: "Per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo". Allora possiamo dire: la forma simmetrica della dossologia (Gloria al Padre e al Figlio e allo Santo Spirito) e la formula asimmetrica dominante (Gloria al Padre, per il Figlio nello Santo Spirito)» (Basilio, Lo Spirito Santo, I, 3). La seconda formula, all’epoca, poteva essere compresa in modo subordinazionistico. La prima, invece, introdotta da Basilio, poneva inequivocabilmente sullo stesso piano le Persone della Trinità. Era quindi un’affermazione implicita della divinità dello Spirito Santo. Basilio fa notare che esistono due mezzi che ci conducono alla salvezza: la fede => attestata dalla confessione del battezzato, che riceve la fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo; il battesimo => amministrato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Esso compie due cose: la morte del peccato (in Cristo) e il dono della nuova vita (suscitata dallo Spirito Santo). Ora, negare la divinità allo Spirito, significa accettare, confessare ed essere battezzati in una fede incompleta. Tra l’altro, dice Basilio, sarebbe alquanto bizzarro ricevere un battesimo nel nome di due Persone divine + una Persona creata (lo Spirito Santo). Basilio, dunque, attribuiva grande importanza La dottrina dello Spirito Santo può esplicarsi su due livelli: nel primo caso abbiamo la coesistenza eterna dello Spirito accanto al Padre e al Figlio; nel secondo caso, quando invochiamo la grazia dello Spirito, lo vediamo in noi uomini. Per queste ragioni, le due formule dossologiche sono entrambe corrette. La formula simmetrica esprime il posto della Spirito nella Trinità mente quella asimmetrica esprime il ruolo dello Spirito nell’economia. Si può dire che Basilio sia molto prudente nell’usare i termini filosofici e non applica mai allo Spirito il termine homoousios al Padre. Gregorio Nazianzeno, invece, non esita a dire che lo Spirito è Dio, consustanziale al Padre. Ciascuna delle Tre persone è Dio per la consustanzialità e i Tre sono Uno per la monarchia. Ciò che fa l’unità è il Padre, che è il principio dell’unità che non confonde ma distingue. Gregorio Nazianzeno introduce il termine processione (ekporeusis) per indicare il modo di esistenza dello Spirito Santo e distinguerlo dalla generazione del Figlio. «Il Padre è padre, e senza inizio: infatti, non proviene da alcuno. Il Figlio è figlio, e non privo di inizio: infatti, proviene dal Padre. Se, però, tu intendi l’origine come temporale, allora Egli è privo di inizio, perché è Lui che ha creato il tempo e non è sottomesso al tempo. Lo Spirito è veramente Spirito Santo, che procede dal Padre ma non come il Figlio, infatti non proviene per generazione [gennetos], ma per processione [ekporeutos] e, se mi è consentito introdurre termini nuovi per esigenza di chiarezza. Il Padre non cessa di essere non generato, per il fatto che ha generato, né il Figlio cessa di essere generato, perché proviene da un Essere non generato – come lo potrebbe, infatti? -. E lo Spirito non si trasforma nel Padre e nel Figlio, solo per il fatto che procede dal padre e che è Dio, anche se questi empi non lo accettano. […] Uno solo, allora è Dio in tre Esseri, e i tre Esseri sono uno solo, come abbiamo detto» (Gregorio di Nazianzo, Orazione 39,12). Il termine ekporeusis non è totalmente nuovo perché era già presente nel vangelo di Gv ma non era stato usato in maniera così tecnica per distinguere la specifica relazione dello Spirito al Padre da quella (generativa) del Figlio al Padre. La processione dello Spirito è diversa dalla generazione del Figlio perciò lo Spirito e il Figlio non sono fratelli. La processione del Figlio è la generazione e la processione dello Spirito è la processione (usata in senso tecnico). «Confessando una natura (physis) divina senza differenza né variazione, noi non neghiamo una differenza che riguarda la situazione di causa e di causato. E’ solo così che veniamo a capire come uno si differenzia dall’altro: una sola è essere causa, l’altra è essere causato. E in ciò che è causato noi vediamo una nuova distinzione tra ciò che viene immediatamente dal primo e ciò che viene per la mediazione di ciò che viene immediatamente dal primo» (Gregorio Nisseno, Contra Eunomium I, 30). Lo Spirito è causato mediante il Figlio: P => F => Spirito Santo. Questo ci fa vedere la differenza tra Figlio e Spirito e tra generazione e processione. La causalità che causa lo Spirito è mediata e secondaria. 6. Il Concilio di Costantinopoli I sulla Trinità – la persona dello Spirito L’insegnamento dei Cappadoci fu approvato dal Concilio di Costantinopoli I nel 381. Il Concilio radunò 150 vescovi (inclusi i due Gregorio, Basilio era già morto). Il frutto del Concilio fu la Confessione niceno-costantinopolitana (DH 150). Si può notare che: “creatore del cielo e della terra” viene spostata accanto al Padre (mentre in Nicea stava accanto al Figlio); non si ripetono le parole del simbolo niceno, che chiariscono la generazione dalla ousia del Padre (esse erano “generato, unigenito dal Padre cioè dalla sostanza del Padre”); Nicea non distingueva tra ousia e ipostasi mentre Costantinopoli I sì: ne deriva che, per il Figlio, è meglio dire solo “generato non creato” e “consustanziale al Padre” perché dire “generato dalla sostanza (ousia) del Padre” avrebbe potuto significare che il Figlio fosse generato da una sostanza comune (che genera il Padre e il Figlio); è interessante anche l’inserimento di “si è incarnato per opera dello Spirito Santo”; la pneumatologia è la parte più importante delle decisioni conciliari: si parla di “Spirito, che è Signore…” => l’uso del termine kyrios per lo Spirito, che nel NT viene usato solamente per il Padre e il Figlio, indica il riconoscimento della divinità dello Spirito; “…e da la vita” => ciò toglie tutti i dubbi sulla non-creaturalità dello Spirito: una creatura non potrebbe dare la vita; “e procede dal Padre” => ecco trionfante l’influsso di Gregorio Nazianzeno: lo Spirito ha la sua origine non temporale dal Padre e questa origine è diversa da quella del Figlio; non si dice, invece, che lo Spirito sia consustanziale al Padre (qui si vede l’influsso di Basilio) e non si dice esplicitamente che lo Spirito è Dio (ma solo che “insieme al Padre e al Figlio deve essere adorato e glorificato”: è la dossologia simmetrica di Basilio che equivale ad affermare la consustanzialità per mezzo dell’isotymia, l’uguaglianza di onori; il linguaggio è meno filosofico e più liturgico); “e ha parlato per mezzo dei profeti”. Leo Scheffczyk sostiene che l’importanza del credo niceno-costantinopolitano non si può sottovalutare: esso ha prodotto la comprensione cristiana definitiva della Trinità. La teologia Orientale, con la dottrina di Costantinopoli I e la teologia dei Cappadoci che lo sottende, può dirsi completa. «La professione di fede battesimale ci insegna a credere in una sola divinità e potenza ed essenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, nel loro uguale onore ed eterno potere regale, in tre ipostasi perfette o in tre persone perfette. Così non si dà spazio alla peste di Sabellio, che confonde le ipostasi ed elimina le proprietà, e non si rafforza la bestemmia degli eunomiani, ariani e pneumatomachi, che divide l’essenza, la natura e la divinità, e introduce nella Trinità increata, consostanziale [homoousios] e coeterna una natura posteriore, creata o di un’altra essenza» (La lettera dei vescovi d’Oriente a papa Damaso). Il Tomus Damasii, frutto del Concilio romano del 382, sono 24 anatemi che ci presentano l’insegnamento sulla Trinità (DH 152-177). Esso è una buona sintesi dell’insegnamento trinitario, anche se formulato in negativo. Il Concilio di Calcedonia (451), distingue le due generazioni dell’unico Figlio: quella eterna, dal Padre, secondo la divinità e quella temporale, da Maria, secondo l’umanità. Parte VI La teologia trinitaria all’Occidente: da Agostino al XIII sec. 1. La dottrina trinitaria di sant’Agostino Nato nel 354 emorto nel 430. La teologia trinitaria di Agostino è redicata sulla tradizione occidentale. La visione trinitaria agostiniana è elaborata soprattutto nel suo De Trinitate. Con quest’opera, Agostino non aveva più bisogno di entrare in polemica con i diversi estremismi, anche se si riferisce comunque ad essi. Agostino scrive quest’opera “in ginocchio”, in uno stretto rapporto esistenziale e di preghiera con Dio Uno e Trino. 1.1 Teologia trinitaria, preghiera, uno sforzo pastorale «Signore nostro Dio, crediamo in te, Padre e Figlio e Spirito Santo. Perché la Verità non avrebbe detto: Andate, battezzate tutte le genti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, se Tu non fossi Trinità. Né avresti ordinato, Signore Dio, che fossimo battezzati nel nome di chi non fosse Signore Dio. […] Dirigendo la mia attenzione verso questa regola di fede, per quanto ho potuto, per quanto tu mi hai concesso di potere, ti ho cercato ed ho desiderato di vedere con l’intelligenza ciò che ho creduto, ed ho molto disputato e molto faticato» (Agostino, Confessioni: XV, 28. 51). La teologia che prega e la preghiera che fa la teologia. Si noti la ripresa dell’argomento di San Basilio riguardo all’impossibilità di essere battezzato nel nome di una creatura (è per questo che lo Spirito Santo è Dio). «Ma alcuni restano fortemente turbati nella loro fede al sentire che si parla di un Dio Padre e di un Dio Figlio e di un Dio Spirito Santo e che tuttavia questa Trinità non è tre dèi, ma un solo Dio. Chiedono come intendere ciò, dato soprattutto che i Tre, si dice, operano inseparabilmente in ogni attività divina e tuttavia è stata udita la voce del Padre che non è la voce del Figlio; il Figlio solo si incarnò, patì, risorse ed ascese al cielo; solo lo Spirito Santo discese in forma di colomba. Essi vogliono capire in che modo quella voce in cui il Padre solo parlò sia opera della Trinità, quella carne in cui il Figlio solo nacque dalla Vergine sia stata creata dalla Trinità, quella forma di colomba in cui solamente lo Spirito Santo apparve sia opera della Trinità medesima. In caso contrario la Trinità non opera inseparabilmente, ma alcune cose opera il Padre, altre il Figlio, altre lo Spirito Santo; oppure, se operano insieme solo alcune cose ed altre separatamente, la Trinità non può dirsi inseparabile. Ma c’è un’altra difficoltà: come nella Trinità vi è uno Spirito Santo non generato dal Padre né dal Figlio né da entrambi insieme, sebbene sia lo Spirito del Padre e del Figlio? Poiché sono queste le domande che ci rivolgono, e lo fanno fino a tediarci, così, se la nostra piccolezza approda a qualche conoscenza con la grazia di Dio, la esponiamo loro come meglio possiamo e senza imitare colui che è roso dall’invidia» (Agostino, De Trinitate, I,5,8). L’agire di Dio ad extra è un agire di tutti e Tre ma, nello stesso tempo, le loro opere sono differenziate. 1.2 Le questioni terminologiche della dottrina trinitaria «I Greci usano anche la parola ὑπόστασις, ma ignoro che differenza pongano tra οὺσία e ὑπόστασις, e la maggior parte di coloro che fra noi trattano di queste cose, in greco dicono abitualmente: μίας οὑσίαν, τρεῖς ὑποστάσεις, in latino: unam essentiam, tres substantias. Ma poiché presso di noi il linguaggio parlato ha fatto sì che la parola essenza significhi la stessa cosa che la parola sostanza, non osiamo dire: “un’essenza, tre sostanze”, ma: “un’essenza o sostanza e tre persone”. Di questa formula molti latini che hanno trattato di queste questioni e meritano credito hanno fatto uso, non trovando un’espressione più appropriata per esprimere con parole ciò che concepivano senza parole. In effetti, poiché il Padre non è il Figlio, il Figlio non è il Padre, e lo Spirito Santo, che è anche chiamato dono di Dio, non è né il Padre né il Figlio, sono tre evidentemente, per questo la Scrittura dice al plurale: Io e il Padre siamo una sola cosa. Non disse infatti: “è una sola cosa”, come pretendono i Sabelliani, ma: siamo una sola cosa. Tuttavia se si chiede che cosa sono questi Tre, dobbiamo riconoscere l’insufficienza estrema dell’umano linguaggio. Certo si risponde: “tre persone”, ma più per non restare senza dir nulla, che per esprimere quella realtà» (Agostino, Trinità, V 8.10-9). Agostino, nonostante sia consapevole delle difficoltà legate al termine “persona”, lo uso ugualmente ma non ce ne offre una vera e propria definizione. 1.3 Il punto di partenza della dottrina trinitaria di Agostino Agostino ripete spesso “Dio è Trinità”, cioè parte dalla divinità come Padre, Figlio e Spirito Santo insieme mentre la teologia Orientale cominciava dicendo “Dio è Padre”. Si può dire, allora, che Agostino parte dalla TI, dalla sostanza, mentre i Padri Orientali risalgono dalla TE alla TI, risalendo dalle Tre persone all’unica natura. Tale accento posto sull’inseparabilità dell’operare dei tre ha delle conseguenze notevoli. Per Agostino ciascuna delle Tre Persone avrebbe potuto incarnarsi (anzi, avrebbe potuto farlo la Trinità tutta intera), relativizzando in qualche modo la prospettiva storico-salvifica. 1.4 Unità e trinità in Dio secondo Agostino La cosa importantissima nella dottrina trinitaria di Agostino è il modo in cui spiega l’unità e la diversità personale nella Trinità. In Agostino, la distinzione delle Persone non si fonda sulle perfezioni (es. la Sapienza). È chiaro, infatti, che, se da una prospettiva biblica, la Sapienza venga attribuita alla Seconda Persona è chiaro che la sapienza sia una proprietà essenziale di Dio-Trinità in quanto tale (e non solo della Seconda Persona). Per spiegare la diversità intratrinitaria, Agostino usa e sviluppa il concetto di relazione. In Dio non ci possono essere accidenti: la relazione intratrinitaria, dunque, non può essere un accidente ma deve per forza di cose appartenere all’essenza di Dio. Aristotele, invece, diceva al contrario: la relazione è una cosa accidentale. Agostino dice, invece, che l’identità del Padre è data dalla relazione con il Figlio (e questa identità è la paternità), viceversa l’identità del Figlio è data dalla relazione con il Padre (figliolanza) e quella dello Spirito è data dalla relazione con entrambi (donazione passiva). Queste relazioni sono sussistenti, sostanziali, reali, e come tali producono distinzioni reali: il Padre non è il Figlio, ecc. Le relazioni non sono un’aggiunta alla sostanza di Dio, né la mutano. Queste relazioni sono semplicemente identiche alla sostanza di Dio e perciò sono senza inizio e senza fine. Il Dio unico vive nelle sue relazioni interne. Ogni relazione è identica con l’intera sostanzialità divina. Dio è un essere semplice perché: «Dio è tutto ciò che ha, eccetto le relazioni per cui ciascuna Persona si riferisce all’altra. Infatti il Padre ha certamente il Figlio ma non egli è il Figlio, il Figlio ha il Padre ma non egli è il Padre» (Agostino, La Città di Dio, XI,10). A questa riflessione di Agostino si riferirà successivamente Anselmo d’Aosta: In Dio tutto è uno tranne l’opposizione delle relazioni. Secondo le categorie aristoteliche si poteva basare la distinzione in Dio sul concetto di sostanza o sul concetto di accidente: nel primo caso avremmo avuto a che fare con tre sostanze (tre Dei), nel secondo caso avremmo avuto a che fare, invece, con una distinzione tra le Persone accidentali e, di conseguenza, non necessarie (come a dire che Dio non è tanto Trinità quanto piuttosto che gli capita di essere Trinità). 1.5 La processione del Figlio e la processione dello Spirito Come si distingue la processione del Figlio da quella dello Spirito Santo? Se lo Spirito è diverso dal Figlio allora il suo procedere dal Padre deve essere diverso da quello del Figlio dal Padre. Lo Spirito procede dal Padre secondo la sostanza ma non nel senso di un uomo che genera un uomo e di un cane che genera un cane. Non c’è altra processione di uomo da uomo se non la generazione. Anche Dio viene da Dio ma, nel caso dello Spirito Santo, non può essere una generazione (perché c’è già quella delFiglio). La teologia orientale comprendeva la processione dello Spirito come originata dal Padre e mediata dal Figlio (ex Patre per Filium). Agostino, invece, usa la formula ex Patre Filioque. «Questo Spirito Santo, secondo la Sacra Scrittura, non è lo Spirito soltanto del Padre, né soltanto del Figlio, ma di ambedue, e perciò fa pensare alla carità comune con la quale si amano vicendevolmente il Padre e il Figlio» (Agostino, Trinità, 15,17,27). Abbiamo poi la concezione dello Spirito come Amore comune al Padre e al Figlio, come nexus, legame, tra il Padre e il Figlio. Agostino dice che se tutto ciò che il Figlio ha, lo riceve dal Padre, egli riceve dal Padre anche la possibilità di essere anch’egli principio dello Spirito Santo. L’unica cosa che il Figlio non può ricevere dal Padre è la paternità. Allora, la processione dello Spirito è processione dal Padre e dal Figlio (e non solo dal Padre per mezzo del Figlio). Agostino precisa poi che: «Certo egli esce dal Padre, ma come dono, non come nato e perciò non si chiama figlio perché né è nato come l’Unigenito, né è stato fatto, come noi, per nascere in virtù della grazia quali figli adottivi. Ciò che è nato dal Padre dice relazione, secondo l’espressione "Figlio", solo al Padre e perciò si tratta del Figlio del Padre e non anche nostro. Ma ciò che è stato dato, dice relazione a Colui che ha dato e a coloro ai quali l’ha dato. Per questo lo Spirito Santo è detto non soltanto Spirito del Padre e del Figlio, che lo hanno dato, ma anche nostro, perché lo abbiamo ricevuto» (Agostino, Trinità, V, 14,15). Inoltre: «Se ciò che è dato ha come principio Colui che lo dà, perché questi non ha ricevuto da altri ciò che procede da Lui, bisogna ammettere che il Padre e il Figlio sono un solo principio dello Spirito Santo, non due principi; come il Padre ed il Figlio sono un solo Dio e nei riguardi della creazione un solo Creatore ed un solo Signore, così riguardo allo Spirito Santo sono un solo principio, e in rapporto alle creature il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo principio, come sono un solo Creatore ed un solo Signore» (Agostino, Trinità, V, 14,15). Lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio ma principaliter dal Padre: Agostino non nega l’idea che il Padre sia la fonte della vita trinitaria. 1.6 La dottrina psicologica della Trinità Altra cosa importante nella dottrina trinitaria di Agostino sono le immagini che egli usa per descrivere la Trinità. Partendo dalla Genesi, ad es., Agostino dice che, se l’uomo è creato ad immagine di Dio, ne risulta che nell’uomo e soprattutto nella sua anima razionale e spirituale, è impressa un’immagine della Trinità che dobbiamo esplicitare (e che può gettare luce sulla nostra comprensione non soltanto dell’uomo ma anche della Trinità). L’approccio di Agostino, in questo caso, è esplicitamente antropologico e, in epoca conrtemporanea, è stato chiamato dottrina psicologica della Trinità. «Ma la Trinità onnipotente, chi la comprenderà? Eppure chi non parla di lei, se almeno parla di lei? Raramente l'anima che parla di lei sa di cosa parla. Si discute, ci si batte, ma nessuno, se non ha pace, vede questa visione. Vorrei invitare gli uomini a riflettere su tre cose presenti in se stessi, ben diverse dalla Trinità, ma che indico loro come esercizio, come prova e constatazione che possono fare, di quanto ne siano lontani. Alludo all'esistenza, alla conoscenza e alla volontà umana. Io esisto, so e voglio; esisto sapendo e volendo, so di esistere e volere, voglio esistere e sapere. Come sia inscindibile la vita in queste tre facoltà e siano un'unica vita, un'unica intelligenza e un'unica essenza, come infine non si possa stabilire questa distinzione, che pure esiste, lo veda chi può. Ciascuno è davanti a se stesso; guardi in se stesso, veda e mi risponda. Ma quand'anche avrà scoperto su ciò qualcosa e saprà esprimerlo, non s'illuda di aver scoperto finalmente l'Essere che sovrasta immutabile il mondo» (Agostino, Confessioni XIII,11,12). Agostino ci invita a fare un duplice esercizio di preghiera e di riflessione. Dove troviamo, nel mondo creato, il punto di partenza più adeguato per la riflessione teologica? Se paragoniamo il mondo creato ad un teatro (forse senza spettatori), vi troviamo tre elementi principali: il palcoscenico, la scenografia con le attrezzature e, infine, gli attori (le persone). Il punto di partenza della metafisica classica (nel filosofare e nel teologare) è il palcoscenico con la scenografia, il cosmo. Si potrebbe cominciare però anche dalle persone, dagli individui, (punto di vista antropologico, esistenziale). Si potrebbe però cominiciare dal dialogo tra gli attori (punto di vista dialogico-relazionale). Agostino cerca analogie trinitarie nell’uomo perché vuole dimostrare l’unità della Trinità e l’uomo, che in sé è uno, gli dà questa possibilità. Se, invece, avessa cominciato dalle persone in dialogo, sarebbe andato incontro al problema del triteismo. «Quando amo qualcosa, ci sono tre cose: io, ciò che amo e l’amore stesso. Infatti non amo l’amore, se non lo amo amante, perché non c’è amore, dove nulla è amato. Ecco dunque tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l’amore. Ma che dire se non amo che me stesso? […] Se questo esempio riferiamo all’amore con la quale l’anima ama se stessa, possiamo dire: Lo spirito dunque, quando ama se stesso, manifesta due cose: lo spirito e l’amore” (Agostino, Trinità, IX,2,2). Lo spirito non può amare se stesso se anche non si conosce; come può infatti amare ciò che ignora? (IX,3,3). Ma come sono due cose lo spirito ed il suo amore, quando lo spirito ama se stesso, così sono due cose lo spirito e la sua conoscenza quando conosce se stesso. Dunque lo spirito, il suo amore e la sua conoscenza sono tre cose e queste tre cose non ne fanno che una e, quando sono perfette, sono uguali (IX,4,4). Ma quando lo spirito si conosce e si ama, in quelle tre realtà - lo spirito, la conoscenza, l’amore - resta una trinità; e non c’è né mescolanza né confusione, sebbene ciascuna sia in sé, e tutte si trovino scambievolmente in tutte, ciascuna nelle altre due, e le altre due in ciascuna. Di conseguenza tutte in tutte» (IX,5,8). «Lasciando per il momento da parte le altre cose che lo spirito riconosce in sé con certezza, consideriamo in modo del tutto particolare queste tre: la memoria, l’intelligenza, la volontà (Agostino, Trinità, X,11,17). Queste tre cose dunque: memoria, intelligenza, volontà, non sono tre vite, ma una vita sola; né tre spiriti, ma un solo spirito; di conseguenza esse non sono tre sostanze, ma una sostanza sola» (X,11,18). Nelle analogie agostiniane, secondo alcuni, si vede benissimo l’unità (suggerita dall’unità delle tre facoltà) ma non si vede bene la distinzione reale e profonda tra le Persone. D’altro canto, il punto di partenza dialogico-relazionale, con le sue analogie che partono dalla comunità, corrono il rischio opposto, cioè quello di non riuscire a far vedere bene l’unità reale e perfetta. Il Concilio di Costantinopoli II (553) dà una formulazione trinitaria precisa, sancita definitivamente da una grande partcipazione di vescovi (DH 421 e seguenti: si afferma, con audacia e chiarezza, che lo Spirito Santo è consustanziale e coeterno al Padre). 2. Il concetto di “persona” secondo Boezio Sulla linea di confine tra tarda antichità e medioevo si colloca Severino Boezio (nato nel 480). Non è un Padre della Chiesa e neppure uno scolastico ma è considerato uno dei padri della Scolastica medioevale. Egli definisce la persona come rationalis naturae individua substantia: la persona è una sostanza individualizzata, non intercambiale con un'altra (come una macchina è sostituibile con una macchina dello stesso tipo). Questa individualità non intercambiabile viene specificata come razionale: è proprio questa razionalità che rende la persona irripetibile: un esser non razionale non può essere persona. Dal punto di vista della dottrina trinitaria, però, questa definizione come individualità razionale non è felice. L’individualitàsostanziale si oppone direttamente agli sforzi di Agostino, che aveva sottolineato come l’unità si fondasse sulle relazioni, sulla sostanza per essenza trinitaria. La definizione razionalista e aristotelica di persona data da Boezio non mette nella giusta luce la dimensionale relazionale della persona stessa. È una definizione che non implica la necessità relazionale della persona. Se la persona è sostanza, si corre il rischio, nella dottrina trinitaria, di identificare le Tre Persone in un’unica Persona-sostanza. La definizione boeziana, se va bene per la cristologia (un’unica Persona in due nature), non va a genio per la dottrina trinitaria, in cui le Persone sono un principio di differenziazione. 3. Il termine di “persona” secondo Riccardo di San Vittore La dimensione relazionale della persona, sottaciuta da Boezio, viene recuperata da Riccardo di San Vittore (1172): la persona è l’esistenza incomunicabile di una natura razionale. Persona est intellectualis essentiae incomunicabilis existentia. Riccardo di San Vittore non parla della sostanza ma dell’esistenza, accentuando così la dimensione razionale. L’esistenza indica il quis (qualcuno) mentre la sostanza indica piuttosto il quid (qualcosa). In Dio c’è unità perfetta dell’essere e la pluralità dell’esistere (il concetto di esistenza rimanda al procedere dall’essere: ex-sisto). Ci sono tre persone grazie alla loro distinta esistenza. Il Padre ex-siste a partire da sé, il Figlio ex-siste a partire dal Padre, lo Spirito ex-siste dal Padre e dal Figlio. Le tre Persone sono esistenze incomunicabili: il Figlio non può sostituire il Padre, e così via. Divinae naturae incomunicabilis existentia (dove comunicare non indica la comunicazione modernamente intesa ma piuttosto il non poter essere sostituito). Triadologia dell’amore: Riccardo si chiede quali siano le ragioni necessarie (rationes necessariae) della divinità: perché Tre Persone e non una o due o quattro? 17/05/2011 L’amore esige due persone. La mancanza dell’amore sarebbe contraria alla pienezza di bontà, felicità e di gloria. Ne consegue che ci debbano essere per forza, in Dio, due persone perché ci sia l’amore (l’assenza del quale non si può dare in Dio, che è pienezza di bontà, felicità e gloria). E la terza? L’amore esige anche condilectio cioè l’amore comune. Due persone che si amano vogliono condividere l’amore con un altro: con un Terzo. L’amore in due potrebbe diventare egoismo dei due. Abbiamo allora Diligens, Dilectus e Condilectus (Amante, Amato e Con-Amato). Se Dio fosse una sola persona non sarebbe perfetto. Questo bel ragionamento è forse pretesa di dimostrare la Trinità in maniera puramente razionale? L’uscire da sé stessi verso l’altro è connaturale alla personalità: non si può “diventare” persona senza questa apertura all’altro. Perciò alcuni dicono che Satana è a-personale (perché non è aperto a nessun altro). 4. La riflessione trinitaria di san Bonaventura «Dio non sarebbe Sommo Bene, se in Lui per via di generazione e di ispirazione non vi fosse ab eterno la produzione attuale e consostanziale e ipostatica, egualmente eccellente com’è il producente, e in modo che ciò che è dell’eterno principio sia anche di chi eternamente ne partecipa; se in Esso, non vi fosse un Diletto e un Diletto di entrambi (dilectus et condilectus), un Generato ed un Procedente dall’uno e dall’altro, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo. […] Certo il Sommo bene non sarebbe tale senza perfetta diffusione né il nostro pensiero potrebbe intenderlo altrimenti» (Bonaventura, Itinerarium VI,2). È più o meno lo stesso ragionamento di Riccardo di San Vittore. San Bonaventura è stato uno dei primi ad introdurre il termine circuminsessio, traduzione del greco pericoresis (girare intorno), che era stato usato in senso trinitario da Giovanni Damasceno. Le Persone divine non sono solo in relazione l’una con le altre ma anche l’una nelle altre. «Io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14,10): stiamo parlando dell’inabitazione di una Persona nelle altre, inabitazione che si muove secondo la taxis delle processioni. Parte VII La dottrina trinitaria di san Tommaso. 5 proprietà, 4 relazioni, 3 persone, 2 processioni, 1 natura Alcuni dicono che, se si leggono tutte le opere di Tommaso, si vede chiaramente che il suo punto di partenza per la riflessione trinitaria è l’economia, la storia della salvezza, insieme ai dati neotestamentari (soprattutto il vangelo di Giovanni). 1. Le processioni divine Tommaso inizia il trattato della Summa sulla Trinità inizia dalle processioni divine per dimostrare, contro gli eretici, che la distinzione delle Persone in Dio è reale. Gv, 8,42: Disse loro Gesù: Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato (Dixit eis Iesus: Si Deus pater vester esset, diligeretis me; ego enim ex Deo processi [eksylton] et veni; neque enim a meipso veni, sed ille me misit). Gv 15,26: Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza (Cum autem venerit Paraclitus, quem ego mittam vobis a Patre, Spiritum veritatis, qui a Patre procedit [ekporeuetai], ille testimonium perhibebit de me). San Tommaso, che leggeva la Bibbia in latino, coglie solo in parte la differenza tra il procedere del Figlio e il procedere dello Spirito (si notino, invece, nel testo di sopra, i due differenti termini di Gv 8,42 e in Gv 15,26). Tommaso ovviamente conosce questa distinzione terminologica greca e usa “processione” solo in senso generale: la processione del Figlio è la generazione; la processione dello Spirito è la spirazione. «La processione divina non va presa nello stesso senso di quella che si verifica nei corpi con il moto locale o con l’azione transitiva di una causa su degli oggetti esteriori, come quella del fuoco su un oggetto scaldato, ma piuttosto come un’emanazione intellettuale, quale è quella del verbo mentale che resta nella mente che lo esprime. E in questo senso la fede cattolica pone delle processioni in Dio» (ST I, q.27, a. 1). La natura di Dio è spirituale e come tale ha una dinamica interna di intelligenza e volontà. La prima processione è operazione dell’intelletto, la seconda è operazione della volontà, cioè operazione dell’amore. Lo Spirito procede non come Figlio ma come vento che soffia. «A chiarimento di ciò è da notare che tra l’intelletto e la volontà c’è questa differenza, che l’intelletto passa all’atto in quanto l’oggetto inteso è in esso per la sua somiglianza [o rappresentazione]; invece la volontà passa all’atto non perché ci sia in essa una rappresentazione di ciò che è voluto, ma perché ha in sé una certa inclinazione verso la cosa voluta. Quindi la processione propria dell’intelletto è per somiglianza: e può essere detta generazione perché il produrre un proprio simile e caratteristico della generazione. Invece la processione della volontà non è secondo una somiglianza, ma piuttosto secondo un certo impulso o spinta verso qualcosa. Quindi ciò che in Dio procede come amore non procede come generato o figlio ma piuttosto come spirito: nome, questo, con cui si indica un moto vitale e una spinta, come si dice che uno è spinto dall’amore a fare qualcosa» (ST I, q.27, a.4, risposta). Tommaso stesso fa notare i limiti di questa analogia psicologica. «In noi l’intendere non è la sostanza dell’intelletto: quindi in noi il verbo che procede per operazione intellettiva non è della stessa natura dell’intelletto da cui procede. Quindi a questo suo procedere non conviene propriamente e completamente l’idea di generazione. L’intendere divino, invece, è la stessa sostanza di colui che intende […]: perciò il verbo che ne procede come un sussistente della stessa natura del suo principio. Per cui esso è detto in senso proprio generato e Figlio» (ST I, q.27. a.2, ad 2). L’amore caratterizza l’essenza divina in quanto tale. Come si può parlare allora di Spirito come amore? Tommaso opera quiuna distinzione tra amore essenziale e amore personale/nozionale. Il primo riguarda tutte e Tre le Persone divine. Il secondo riguarda lo Spirito. Egli, infatti, è l’amore tra il Padre e il Figlio che assume il carattere di autopossesso e di sussistenza. In altre parole, il Padre e il Figlio si amano reciprocamente e questo amore vicendevole procede dall’uno e dall’altro e non può essere altro che lo Spirito che è Dio, cioè l’Amore. 2. Dalle processioni alle relazioni «…non possono esserci relazioni reali in Dio se non per quelle azioni in virtù delle quali si hanno processioni non al di fuori, ma dentro Dio stesso. Ora, come si è detto, queste processioni sono soltanto due: una per l’azione dell’intelletto, ed è la processione del verbo, l’altra per l’azione della volontà, ed è la processione dell’amore. A ognuna di queste processioni poi corrispondono due relazioni opposte: una del procedente dal suo principio, l’altra del principio stesso. La processione del verbo è poi detta generazione, nel significato rigoroso proprio degli esseri viventi. Ora, nei viventi di vita perfetta la relazione che conviene al principio della generazione si dice paternità, mentre la relazione di ciò che procede per generazione dal principio è detta filiazione. Invece la processione dell’amore, come si è detto, non ha un nome proprio: quindi neppure hanno un nome proprio le relazioni che ne seguono. Si chiama però spirazione la relazione del principio di questa processione, mentre si chiama processione la relazione del procedente» (ST I, q. 28, a. 4, risposta). Dalle due processioni scaturiscono quattro relazioni: Paternità-Filiazione; Spirazione-Essere spirato. Ovvero Generazione Attiva (propria del Padre) e Generazione Passiva (propria del Figlio). Spirazione Attiva (propria del Padre e del Figlio, o propria del Padre per mezzo del Figlio) e Spirazione Passiva (propria dello Spirito). La Spirazione attiva è unica: essa è propria del Padre e del Figlio insieme. Non ci sono due spirazioni attive: una solo del Padre e una solo del Figlio, altrimenti saremmo costretti a dire che lo Spirito Santo ha due principi. Secondo Tommaso, le processioni sono naturali e, dunque, reali. Esse non sono una questione di volontà ma una questione di natura. Inoltre, esse sono reali, non soltanto logiche o pensate. La relazione reale in sé è la stessa essenza di Dio. Le relazioni intradivine non sono accidentali come nel mondo creato ma hanno il loro modo di esistere proprio nell’essenza divina. Ne consegue che dire che “Dio ha” un certo numero di relazioni è impreciso. Bisognerebbe piuttosto dire che Dio è “Padre, Figlio, Spirito” cioè che Dio “è (quattro) relazioni”. Tommaso parla delle relazioni sussistenti. Vuol dire che le relazioni esistono per se stesse a causa della loro identità con la natura divina. I classici distinguono in ogni relazione l’esse ad e l’esse in. Esse ad vuol dire il riferimento ad un altro. Esse in vuol dire l’inerenza della relazione con il soggetto che si trova in relazione. Un Padre ha la sua relazione verso il Figlio (esse ad) e, nello stesso tempo, ha la sua paternità (l’esse in). Le relazioni in Dio comportano opposizione e dall’opposizione risulta la distinzione e, se l’opposizione è reale, è reale anche la distinzione. In Tommaso non abbiamo a che fare, da un lato, con la natura divina e, dall’altro, con le relazioni. 3. La persona in Dio secondo Tommaso «Sebbene nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento non sia applicato a Dio il nome persona, tuttavia ciò che è indicato da quel nome vi è affermato di Dio in molte maniere: cioè che egli è ente per sé in grado sommo e perfettissimamente intelligente. Se, poi, nel parlare di Dio, non si potessero usare se non quelle parole che sono usate dalla Scrittura, ne verrebbe che nessuno potrebbe parlare di lui in una lingua diversa da quella in cui originariamente furono tramandati i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Invece la necessità di disputare con gli eretici spinse a trovare nuovi vocaboli espressivi dell’antica fede. E non c’è motivo di rifuggire da questa novità, poiché non è una cosa profana, dal momento che non discorda dal senso della Scrittura» (ST I, Q 29, a. 3, ad. 1). Per Tommaso, il termine “Persona” esprime quanto di più perfetto e nobile (il sussistente di natura razionale) c’è nell’universo e, come tale, deve essere attribuito a Dio. «La persona significa quanto di più nobile si trova in tutto l’universo, cioè il sussistente di natura razionale. Per questo, dovendosi attribuire a Dio tutto ciò che comporta perfezione, dato che nella sua essenza egli contiene tutte le perfezioni, è conveniente che gli venga attribuito anche il nome di persona. Tuttavia non nel modo in cui viene attribuito alle creature, ma in maniera più eccellente, come si fa con gli altri nomi da noi imposti alle creature a applicati a Dio» (ST I, q.29, a.3, risposta). Tommaso parte dalla definizione di Boezio ma la perfeziona e dimostra che essa è applicabile non soltanto alla sostanza, come nella definizione boeziana, ma anche alla relazione. Partendo dalla definizione di Boezio, Tommaso si domanda “cos’è l’individuo?” e risponde “l’individuo è colui che è distinto dagli altri” (tutti abbiamo la natura umana ma siamo distinti). Ma, in Dio, la distinzione si fa solo per le relazioni, perché la sostanza divina è una sola. In Dio le relazioni costituiscono le individualità. «In Dio la distinzione non avviene se non per le relazioni d’origine. […] E tali relazioni in Dio non sono come accidenti inerenti al soggetto, ma sono l’essenza divina stessa: perciò esse sono sussistenti come sussiste l’essenza divina. In quel modo in cui dunque la deità è Dio, così la paternità divina è Dio Padre, il quale è persona divina. Perciò la persona divina significa una relazione come sussistente» (ST I, q. 29, a. 4). Si noti: persona = non una sostanza come sussistente ma una relazione come sussistente. In Tommaso il concetto classico di persona raggiunge il suo apice. Le Persone divine si distinguono nella misura in cui si relazionano. Le Persone divine non sono prima di entrare in relazioni ma sono in quanto si relazionano. Il Padre è la relazione sussistente della paternità, il Figlio della figliolanza, lo Spirito della processione (o della spirazione passiva). In tale prospettiva, nel divino, molto più che nell’umano il concetto di persona significa apertura e autodonazione. Il limite della teologia scolastica, secondo Ratzinger, consiste nel non far valere la definizione di persona che abbiamo in trinitaria anche nell’antropologia. In trinitaria si sottolinea che le relazioni, in Dio, sono necessarie ma non così nell’uomo. Gesù Cristo non è l’eccezione ontologica ma rivela l’essenza dell’uomo e costituisce per i teologi la chiave di come deve essere interpretato il concetto di persona umana. In realtà, antropologicamente, se viene a mancare una relazione, l’uomo continua comunque ad esistere. Quindi il concetto di relazione non può essere caricato eccessivamente. D’altra parte, è anche vero che la persona umana ha bisogno di relazioni per crescere come persona (cfr. esperimenti di Federico II sui bambini affidati alle cure di balie cui era fatto l’assoluto divieto di rivolgere loro parola). Le relazioni divine hanno un altro valore antropologico perché sono il modello delle relazioni umane. La Trinità ci si rivela come la relazione più perfetta ed è luce che illumina le nostre relazioni umane. Le Persone sono soltanto tre e non quattro perché la spirazione attiva non è una proprietà che si riferisce ad una sola persona distinguendola dalle altre. La spirazione attiva dice sia al Padre sia al Figlio e non ha alcuna opposizione relativa né alla paternità né alla figliolanza. San Tommaso non deduce le Persone divine dall’unica sostanza di Dio. L’unico Dio sono le relazioni. Quando Tommaso parla dell’essenza divina pensa alle relazioni tra le Persone. È la relazione che, in un medesimo tempo, oppone (distingue) una persona dall’altra. Le relazionitra le Persone uniscono e distinguono la vita intratrinitaria. Dio è uno non nonostante le tre Persone opposte e le quattro relazioni ma grazie ad esse. Il concetto di diversità viene compreso come una distinzione di sostanza (presa nel senso di essenza o di natura). Il termine “alius” non porta alla diversità di sostanza. Perciò possiamo correttamente dire che il Figlio è alius rispetto al Padre. Potremmo però, comprendendolo in maniera adeguata, anche usare tranquillamente il termine “diverso” (cioè non nel senso che il Figlio sia diverso dal Padre per natura ma diverso perché distinto relazionalmente dal Padre). 4. Atti nozionali e proprietà di Dio Ciò che designa l’ordine di origine di una Persona dall’altra si chiama atto nozionale. «Tra le persone divine la distinzione deriva dalle origini. Ma queste non possono essere designate convenientemente se non mediante alcuni atti. Quindi per indicare in Dio le relazioni di origine fu necessario attribuire alle persone degli atti nozionali» (ST I, q.41, a. 1, risposta). Gli atti nozionali sono la base per le proprietà delle Persone divine. Le proprietà divine sono le opposizioni relative tra le Persone divine, fondate sul modo di dare e di ricevere l’essenza divina. Le nozioni e le proprietà sono oggettivamente identiche soltanto che le nozioni sono dinamiche mentre le proprietà sono statiche. Al Padre si riferiscono tre proprietà o nozioni: senza origine generante spirante al Figlio: generato spirante allo Spirito: spirato Se elidiamo uno dei due “spirante”, le nozioni sono in tutto cinque. 19/05/2011 5. Le missioni divine La missione significa origine da un'altra persona e insieme il nuovo modo di esistere in qualche luogo. Missione = un aspetto della processione eterna + un riferimento al creato (che beneficia della missione). Il primo aspetto riguarda l’eternità, il secondo aspetto riguarda la relazione di una Persone alla temproalità. Il Padre in nessun modo può essere inviato, in quanto origine, ma potrebbe comunque incarnarsi e diventare uomo. Ma, se il Padre si incarnasse, questo non vuol dire che diventerebbe Figlio. Resterebbe Padre ma incarnato. Chi manda? Il Padre o tutta la Trinità? Negli esercizi spirituali di Ignazio, si trova una proposta di meditazione riguardo alle Tre Persone della Trinità che, insieme, decidono di mandare all’uomo la Seconda Persona. «A una persona divina può convenire la missione in quanto questa da un lato comporta una processione di origine dal mittente, e dall’altro un nuovo modo di essere in qualche luogo. E così si dice che il Figlio fu mandato nel mondo in quanto per comando del Padre incominciò a essere nel mondo visibilmente mediante l’assunzione della natura umana; tuttavia già prima era nel mondo, come dice il Vangelo [Gv 1,10]» (ST I, q.43, a.1, risposta). Resta comunque il fatto che tutta la Trinità è causa della storia della salvezza. Qual è lo scopo delle missioni verso il creato? «Se la Persona mittente è indicata come principio della Persona inviata, allora non qualsiasi Persona manda, ma soltanto quella che è il principio della Persona mandata; e in questo senso il Figlio è mandato soltanto dal Padre, e lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Se invece la Persona mittente è considerata come causa degli effetti a cui mira la missione, allora tutta la Trinità manda la Persona inviata» (ST I, q. 43, a.8, risposta). «A una persona divina spetta di essere inviata perché può cominciare a esistere in un modo nuovo in qualcuno; e di essere donata perché può venire in possesso di qualcuno. Ora, senza la grazia santificante non si ha né l’una né l’altra di queste due cose. […] Quindi nessun altro effetto all’infuori della grazia santificante, può far sì che una Persona divina sia presente in un modo nuovo nella creatura razionale. Per cui solo mediante la grazia santificante la Persona divina è mandata e procede nel tempo» (ST I, q. 43, a. 3, risposta). Dio non poteva salvarci per decreto perché la vita eterna non è un decreto divino che stabilisce che qualcuno vivrà per l’eternità. No, la vita eterna è la vita reale con Dio e in Dio. Perciò, se la vita eterna è un’unione reale in Dio e con Dio, ciò vuol dire che Dio doveva entrare in una relazione reale con l’uomo per salvarlo. La relazione veramente personale con l’uomo è possibile grazie alle missioni del Verbo e dello Spirito. Lo scopo delle missioni divine è, dunque, la salvezza. Da un lato, è tutta la Trinità che agisce ad extra ma (l’Incarnazione è opera di tutta la Trinità) ma è il Verbo che s’incarna (quindi, ad intra, la missione dell’incarnazione tocca particolarmente il Figlio); stesso discorso può essere fatto con la Pentecoste. Ciò che è comune alla Trinità può, dunque, essere appropriato ad una sola Persona. Al Padre si appropria la Creazione (perché è ingenerato ed è origine di tutto), al Figlio (che è generato) si appropria la Rivelazione come opera di salvezza. Allo Spirito (che è spirato e procede per via volitiva) si appropria l’Effusione della grazia, cioè la santificazione degli uomini. Parte VIII Filioque – il dibattito dottrinale tra Occidente e Oriente 1. Dai Cappadoci a sant’Agostino Gregorio di Nissa insegna che lo Spirito procede immediatamente dal Padre e mediatamente dal Figlio (vuole salvare capre e cavoli). Il Nisseno ripete la metafora della luce: una lampada (il Padre) che ne accende una seconda (il Figlio), la quale ne accende una terza (lo Spirito). Così il Padre risplende nello Spirito per mezzo del Figlio. I Greci fanno notare che i beni divini ci vengono dal Padre, per il Figlio nello Spirito. E poi, lo stesso Spirito ci viene donato dal Padre per mezzo del Figlio. L’economia stessa, in questo modo, ci fa entrare nella vita intratrinitaria. La formula secondo cui lo Spirito procede “dal Padre e dal Figlio” è stata introdotta da Agostino, il cui punto di partenza non era l’economia ma la sostanza divina/trina. «Lo Spirito Santo, invece, non procede dal Padre nel Figlio e poi dal Figlio non procede a santificare le creature, ma procede simultaneamente da entrambi (simul ab utroque), sebbene sia stato il Padre a dire al Figlio di far procedere da se stesso lo Spirito Santo, così come procede dal Padre. […] Come dunque il Padre, che ha la vita in se stesso, ha dato al Figlio di avere anche lui la vita in se stesso, così gli ha dato di far procedere la vita da sé, allo stesso modo che la vita procede dal Padre» (Sant’Agostino, Omelia 99,9). Il Figlio riceve tutto dal Padre, inclusa la capacità di far procedere lo Spirito. Agostino chiarisce che non ci sono due principi della processione dello Spirito ma uno solo (perché il Padre e il Figlio sono una cosa sola). Le riflessioni teologiche di Agostino diventarono molto presto patrimonio comune della teologia occidentale e, inserite in documenti sinodali e conciliari, hanno assunto validità dogmatica. DH284: una lettera di condanna dei modalisti da parte di Leone Magno. 2. Breve storia del Filioque nel simbolo di fede della Chiesa latina La formula Filioque appare, per la prima volta, nel Simbolo del terzo Concilio di Toledo, nel 589 (DH470). L’aggiunta del Concilio di Toledo fu causato dallo scontro con i visigoti ariani, i quali consideravano lo Spirito come una creatura del Figlio. Il Simbolo ebbe dunque il ruolo di affermare l’uguaglianza della natura del Padre, del Figlio e dello Spirito. Da Toledo, la formula si estende in Gallia e nell’Italia del norda. Successivamente, sotto l’influsso politico di Carlo Magno, essa fu adottata dai vari sinodi e concili. Carlo Magno era fortemente interessato a quell’aggiunta per provocare la controparte bizantina ed avere un’arma da usare a favore della sua candidatura al titolo di imperatore del Sacro Romano Impero. A tutto ciò, però, le Chiesa orientali non rispondevano con forza ma lasciavano tranquillamente questa variazione alle Chiese romano-barbariche. Nel IX sec., i prelati francesi cominciarono a servirsi del Filioque per sostenere l’originalità del Credo Occidentalee sostenere che i vescovi orientali l’avessero alterato. Ancor di più, alcuni monaci francesi andarono a cantare il Filioque a Gerusalemme, provocando, nel Natale dell’808 un primo scontro tra monaci gallici e monaci greci. Il Papa Leone III, spinto da Carlo Magno, autorizza ufficialmente la dottrina del Filioque ma – si noti bene – non vuole introdurla nel Credo. Leone III non vuole che a Roma si canti il Filioque (“non cantamus sed legimus”). Nell’858, Fozio, diventa patriarca di Costantinopoli. Nell’867, nella Lettera ai troni orientali, denuncia gli errori dell’Occidente ed entra in lotta con papa Nicola I. Tra tanti problemi minore, di natura disciplinare, si colloca, invece, il problema del Filioque, che Fozio condanna come “una bestemmia ed una eresia abominevole”. Si noti che Fozio non condanna solo la formula ma anche la dottrina che vi è sottesa. Nel 1(0)14, l’imperatore Federico II prese la decisione di imporre a tutto il mondo latino di imporre il rito germanico della Messa con il Filioque: Benedetto VIII accetta tale decisione e Bisanzio reagisce sopprimendo il nome del Papa dai dittici liturgici. Dal punto di vista greco, l’aggiunta del Filioque è illegittima perché – dicono – non si può cambiare il Credo niceno-costantinopolitano. 3. I tentativi sbagliati di ritrovare l’unione 3.1 II Concilio di Lione del 1274 Nel XIII sec., Michele VIII paleologo, imperatore di Costantinopoli vuole ristabilire i contatti con il Papato per motivi politici e, per questi motivi, egli ricerca un’unità sul piano teologico ed ecclesiale. Nel 1266, Clemente IV, in risposta alle richieste di Michele, invia all’imperatore una lettera con una professione di fede che l’imperatore stesso e i vescovi orientali avrebbero dovuto sottoscrivere (contenente il Filioque). Tuttavia, Clemente IV muore e le trattative vengono bloccate. Nel 1272, Gregorio X invia dei legati a Costantinopoli per manifestare la sua intenzione di indire un Concilio, insieme alla stessa professione di fede di Clemente IV. Michele riesce a convincere una parte importante dei metropoliti ad accettare le condizioni, fermo restando che ciò non avrebbe intaccato la prassi greca e il Filioque non sarebbe stato proclamato nelle liturgie greche (cfr. documento firmato dall’imperatore in DH 853). Gregorio X convoca a questo punto il Concilio di Lione, cui partecipa una delegazione greca: la professione di fede di Michele Paleologo viene inserita nei documenti del Concilio di Lione ma è chiaro che le dichiarazioni erano state imposte e le formulazioni dottrinali non tenevano in nessuna considerazione la mens teologica greca. L’unione sulla carta non poteva durare a lungo… Paolo VI, in una lettera sul problema ha affermato che il Concilio di Lione non ha dato modo ai greci di esprimersi nella propria teologia. Il successore di Michele Paleologo, subito dopo la morte del padre, rigetterà quella professione di fede. 3.2 Il Concilio di Firenze Nel XV sec., Costantinopoli, minacciata dalla potenza turca, cade nel 1453. Il pericolo turco provoca un riavvicinamento di Costantinopoli a Roma. Il Concilio, iniziato a Basilea senza i greci, viene spostato prima a Ferrara (1439), poi a Firenze. I greci volevano mostrare che qualsiasi aggiunta al simbolo fosse illegittima. Nelle discussioni teologiche, però, i latini risultavano molto più forti. Per i greci, però, più che gli argomenti teologici razionali, contava il fatto che teologia greca e teologia latina avevano la medesima sostanza ma si esprimevano in modi differenti. Diversi santi della Chiesa, infatti, usavano indifferentemente le diverse formule. Proprio su questa base di arrivò ad un accordo, con la bolla Laetentur Coeli (DH 1300-1302): «Noi definiamo […] che lo Spirito Santo è eternamente dal Padre e dal Figlio, che ha la sua essenza e il suo essere sussistente ad un tempo dal Padre e dal Figlio, e che procede eternamente dall’uno e dall’altro come da un solo principio e per una sola spirazione; noi dichiariamo che quello che hanno detto i santi dottori e padri, che lo Spirito santo procede dal Padre per mezzo del Figlio, mira a far comprendere che il Figlio, proprio come il Padre è causa, secondo i greci, principio, secondo i latini, della sussistenza dello Spirito Santo. E poiché tutto quello che è del Padre, lo stesso Padre lo ha donato al suo unico Figlio generandolo, a eccezione del suo essere Padre, lo stesso fatto che lo Spirito Santo proceda dal Figlio, il Figlio lo ha ricevuto fin dall’eternità dal Padre, dal quale è anche fin dall’eternità generato». La bolla domandava ai greci di accettare la posizione latina senza riserve. Il Concilio non negava la formula “a Patre per Filium” ma sosteneva che tale formula andasse intesa nel senso del Filioque, come conducente ad esso. Tornati ad Oriente, i vescovi greci furono accusati di tradimento e le disposizioni conciliari non vennero mai adottate (anche a causa della caduta di Costantinopoli, che non fu aiutata dagli Occidentali). 4. Il Filioque nel dialogo ecumenico d’oggi – il documento del 1995 sul Filioque Nel 1995, il Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani pubblica un documento sul Filioque: Chiarificazione, pubblicata dall’Osservatore Romano con il titolo di “Perché la fede cattolica sullo Spirito Santo non si oppone a quella ortodossa”, il 13/09/1995: «La chiesa cattolica riconosce il valore conciliare ed ecumenico, normativo e irrevocabile, quale espressione dell'unica fede comune della chiesa e di tutti i cristiani, del simbolo professato in greco dal II concilio ecumenico a Costantinopoli nel 381. Nessuna professione di fede propria a una tradizione liturgica particolare può contravvenire a tale espressione di fede insegnata e professata dalla chiesa indivisa. Tale simbolo confessa sulla base di Gv 15,26 lo Spirito "tò ek tou Patròs ekporeuomenon" ("che trae la sua origine dal Padre"). Soltanto il Padre è il principio senza principio delle due altre persone trinitarie, l'unica fonte e del Figlio e dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo trae dunque la sua origine soltanto dal Padre (ek monou tou Patros) in modo principiale, proprio e immediato». Le forti affermazioni sono molto vicine alla teologia ortodossa. La Chiesa cattolica non avrebbe alcun problema a recitare il Credo senza il Filioque. Questa dichiarazione sembra essere pienamente soddisfacente nei riguardi della Chiesa ortodossa. B. Bobrinskoy, teologo ortodosso, nota che, quando il testo sostiene che “lo Spirito Santo trae dunque la sua origine soltanto dal Padre (ek monou tou Patros) in modo principiale, proprio e immediato”, il documento fa eco alla dottrina di Fozio. Ma, ovviamente, non è proprio così: il testo, pur vicino alla mentalità greca, si riferisce alla dottrina di Tommaso. «Tale origine dello Spirito Santo a partire dal solo Padre quale principio di tutta la Trinità è chiamata ekporeusis dalla tradizione greca sulla scia dei padri Cappadoci. […] Per questa ragione l'Oriente ortodosso ha sempre rifiutato la formula tò ek tou Patròs kaì tou Yiou ekporeuomenon [dal Padre e dal Figlio procede] e la chiesa cattolica ha rifiutato che sia aggiunto kaì tou Yiou alla formula ek tou Patros ekporeuomenon nel testo greco del simbolo di Nicea-Costantinopoli, anche nel suo uso liturgico da parte dei latini» (Chiarificazione). La Chiesa cattolica rispetta il significato particolare del termine greco ekporeusis, che viene riferito soltanto alla processione dello Spirito Santo dal Padre: è per questo che, nel testo greco, non si può aggiungere kaì tou Yiou perché esso assumerebbe un valore molto diverso da quello latino: ekporeusis, infatti, non equivale al generico latino procedit (che è un termine usato tanto per la processione del Figlio quanto per quella dello Spirito). Esso è un termine specifico (e non generico) che indica la specifica processione dello Spirito dal Padre. «Con ciò l'Oriente ortodosso non rifiuta ogni relazione eterna tra il Figlio e lo Spirito Santo nella loro origine a partire dal Padre. […] L'Oriente ortodosso esprimefelicemente tale relazione per mezzo della formula dià tou Yiou ekporeuomenon (che trae la sua origine dal Padre per mezzo o attraverso il Figlio). […] Tale insieme dottrinale testimonia della fede trinitaria fondamentale così come l'Oriente e l'Occidente l'hanno professata insieme durante l'epoca dei padri. Esso è la base che deve servire alla continuazione del dialogo teologico in corso tra cattolici e ortodossi» (Chiarificazione). «La dottrina del Filioque deve essere compresa e presentata dalla chiesa cattolica in un modo che essa non possa sembrare contraddire la monarchia del Padre né il fatto che egli è la sola origine dell'ekporeusis dello Spirito. Il Filioque si situa infatti in un contesto teologico e linguistico diverso da quello dell'affermazione della sola monarchia del Padre, unica origine del Figlio e dello Spirito. Contro l'arianismo ancora virulento in Occidente, esso era destinato a mettere in risalto il fatto che lo Spirito Santo è della stessa natura divina del Figlio, senza mettere in causa l'unica monarchia del Padre. Presentiamo qui il senso dottrinale autentico del Filioque sulla base della fede trinitaria del simbolo professato dal secondo concilio ecumenico a Costantinopoli. Diamo tale interpretazione autorizzata nella consapevolezza che il linguaggio umano è inadeguato a esprimere il mistero ineffabile della santa Trinità, Dio unico, che va al di là delle nostre parole e dei nostri pensieri» (Chiarificazione). «Tale simbolo [di Costantinopoli] è stato conosciuto e accolto da Roma soltanto in occasione del concilio ecumenico di Calcedonia nel 451. Nel frattempo, sulla base dell'anteriore tradizione teologica latina, i padri della chiesa d'occidente quali sant'Ilario, sant'Ambrogio, sant'Agostino e san Leone Magno, avevano confessato che lo Spirito Santo procede (procedit) eternamente dal Padre e dal Figlio» (Chiarificazione). 24/05/2011 «Così come la Bibbia latina aveva tradotto Gv 15,26 (parà tou Patròs ekporeuetai) con "qui a Patre procedit", i latini hanno tradotto l'ek tou Patròs ekporeuomenon del simbolo di Nicea-Costantinopoli con "ex Patre procedentem". Si creava così involontariamente, circa l'origine eterna dello Spirito, una falsa equivalenza tra la teologia orientale dell'ekporeusis e la teologia latina della processio. L'ekporeusis greca non significa altro che la relazione d'origine in rapporto al solo Padre in quanto principio senza principio della Trinità. Per converso, la processio latina è un termine più comune che significa la comunicazione della divinità consustanziale del Padre al Figlio e del Padre per mezzo e con il Figlio allo Spirito Santo. Confessando lo Spirito Santo "ex Patre procedentem", i latini non potevano dunque fare altro che supporre un Filioque implicito che sarebbe stato esplicitato più tardi nella loro versione liturgica del simbolo» (Chiarificazione). «Quest'ultimo [cioè lo Spirito] manifesta Gesù come Figlio del Padre al battesimo, riposando su di lui (cfr. Lc 3,21-22; Gv 1,33). Sospinge Gesù al deserto (cfr. Mc 1,12). Gesù ne ritorna "ricolmo di Spirito Santo" (Lc 4,1), poi inizia il suo ministero "con la potenza dello Spirito" (Lc 4,14). Esulta di gioia nello Spirito benedicendo il Padre per il suo benevolo disegno (cf. Lc 10,21). Sceglie i suoi apostoli "sotto l'azione dello Spirito Santo" (At 1,2). Scaccia i demoni per mezzo dello Spirito di Dio (Mt 12,28). Offre se stesso al Padre "con uno Spirito eterno" (Eb 9,14). Sulla croce egli "rimette il suo Spirito" nelle mani del Padre (Lc 23,46). "In esso" egli discende agli inferi (1Pt 3,19) ed è per mezzo suo che è risuscitato (cfr. Rm 8,11) e "costituito Figlio di Dio con la sua potenza" (Rm 1,4). Tale funzione dello Spirito, nel più intimo dell'esistenza umana del Figlio di Dio fatto uomo, deriva da un rapporto trinitario eterno con il quale lo Spirito caratterizza, nel suo mistero di dono d'amore, la relazione tra il Padre, come sorgente d'amore, e il Figlio suo diletto» (Chiarificazione). Quest’ultima citazione è una bella sintesi del ruolo dello Spirito Santo nella vita terrena di Gesù. Il periodo in grassetto ha la funzione di bilanciare il “subordinazionismo” che il Filioque è accusato di implicare. Infatti, esso stabilisce che lo Spirito non soltanto procede dal Figlio ma è attivo nei confronti del Figlio; lo Spirito, in altri termini, non ha soltanto un ruolo passivo. Abbiamo qui un passaggio dall’economia alla vita intratrinitaria. Lo Spirito è in qualche modo presente nella generazione del Figlio: infatti, se la Risurrezione è operata per mezzo dello Spirito e questa risurrezione è chiamata “generazione”, in qualche modo lo Spirito ha un ruolo nella generazione eterna del Figlio. Se da un punto di vista logico, è chiaro che la generazione avviene prima della spirazione, ciò è appunto vero solo dal punto di vista logico e non da quello cronologico (perché in Dio non c’è tempo). In altri termini, nella generazione c’è anche la spirazione e lo Spirito non è subordinato al Figlio. Lo Spirito poi “riposa” nel e sul Figlio (come la Colomba che “si posa” sul Figlio nel Battesimo al Giordano). Hryniewicz sostiene che si devono distinguere due movimenti nella Trinità: il da e il verso. Il Filioque parla del movimento dal Padre e dal Figlio ma dimentica il movimento verso. H. si riferisce al Damasceno, che sostiene che lo Spirito procede dal Padre per riposare nel Figlio e rimanere in lui: in questo modo si fa chiaro il legame tra il Figlio e lo Spirito che il Filioque ci vuole insegnare: infatti questo legame tra il Figlio e lo Spirito è chiarificato proprio dall’idea del riposare. In questo modo, la Trinità è una comunione perfetta delle Tre Persone divine e viene rispettata la monarchia del Padre: lo Spirito procede dal (da) Padre per riposare (verso) nel Figlio. Ovviamente, si noti che il movimento verso è preso dall’economia e trasferito analogicamente alla dinamica della vita intratrinitaria. 5. Lo stato odierno della discussione sul Filioque Se la Chiesa latina sostiene che il Filioque non comporta alcun problema perché esso funziona sul livello della consustanzialità e che esso sia complementare al per Filium, alcuni teologi ortodossi, tra cui Jean-Claude Larchet, esprimono una visione critica e scettica sulla Chiarificazione del 1995. D’altra parte esiste una corrente molto più vicina alla teologia cattolica, rappresentata da Boris Bobrinskoy e da Olivier Clemant, i quali sostengono che con la Chiarificazione rettamente intesa si può considerare sostanzialmente chiusa la questione del Filioque (questa corrente ha tra i suoi esponenti anche S. N. Bulgakov, cfr. Il Paraclito, nel quale apprezzava il Filioque come un modo per esprimere la relazione tra il Figlio e lo Spirito). Larcht definisce questi pensatori latinofroni, teologi che pensano alla latina. La Conferenza di Lambeth, organo della Chiesa anglicana, ha consigliato di cassare il Filioque dai testi liturgici per evitare problemi di cattiva ermeneutica. Ma bisogna chiedersi: togliere il Filioque dalla lettera del Credo, mantenendone però la teologia, è una soluzione ecumenica o un trucco ecumenico? Congar pensa che la Chiesa Cattolica possa anche togliere il Filioque dal Credo ma mantenendone in maniera assoluta la teologia, che è necessaria all’approccio latino al mistero trinitario. In particolare, il Filioque va mantenuto per due motivi: per salvaguardare la distinzione ipostatica dello Spirito in rapporto al Figlio; per salvaguardare la consustanzialità del Figlio con il Padre (che dona al Figlio anche la capacità di spirare lo Spirito). Parte IX Le moderne controversie del concetto di “persona” e di “relazione” in Dio D. Kowalczyk, La personalità in Dio, Roma 1999, pp. 161-169; 208-225 Cantalamessa: “persona” è un termine che la teologia raccoglie dalla strada, privo di qualsiasi genealogia filosofica ma sin da subito presente nella teologia cristiana a causa delle controverse trinitarie. 1. Da Tertulliano a Kant – una breve storia del concetto di “persona” Il concettodi persona viene introdotto nella teologia dai modalisti: unus deus, una substantia, una persona. Ippolito, subito dopo, parlerà del padre e del figlio come di due prosopa. Tertulliano parlerà, invece, di tre persone: tres unum sunt non unus. Si trattava di indicare una trinità oggettiva delle persone in dio. In Oriente, il processo parallelo porta alla designazione origeniana di tre ipostasi. Fu Gregorio nazianzeno che, al Costantinopolitano I, riuscì a far accettare l’equivalenza concettuale e terminologica tra “tre ipostasi” e “tre persone”. Il Concilio di Costantinopoli II del 553 parlerà di “un’unica divinità che viene adorata in tre ipostasi o persone”. L’equivalenza teologica verrà dunque accettata pienamente e il concetto di persona diventerà norma linguistica per la teologia trinitaria, pur rimanendo poco chiaro il suo significato. Agostino – come sappiamo – era abbastanza scettico sull’uso del termine; la successiva definizione di Boezio sarà utile alla cristologia ma non tanto alla teologia trinitaria, in quanto carente dal punto di vista relazionale. Riccardo da San Vittore correggerà, poi, la definizione in senso relazionale. E Tommaso, infine, con la sua definizione di persona come “relazione sussistente”, completerà lo sviluppo del concetto di persona nella dottrina trinitaria classica. Dalla teologia, il concetto di persona passa alla filosofia. Cartesio e poi Kant cambiano prospettiva nel discorso sul concetto di “persona”. Da Kant in poi “persona” indicherà una coscienza che pensa se stessa di fronte a tutto il resto. La persona sarebbbe l’autocoscienza dell’io, diversa da tutte le altre autocoscienze (da tutti gli altri “io”). Bisogna però dire che il significato filosofico moderno del termine rimarrà sostanzialmente estraneo tanto alla tradizione teologica orientale quanto a quella occidentale. Per i Padri “persona” non indica l’autocoscienza. R. Cantalamessa sostiene che, nel linguaggio dei Padri, “una sostanza e tre persone” significa che Dio è un soggetto, una coscienza, una libertà e una volontà in tre individuazioni distinte. In chiave moderna, ciò significherebbe che Dio è un solo oggetto in tre soggetti (cioè tre io distinti, tre coscienze, tre libertà). Dobbiamo allora domandarci: quali sono gli effetti del mutamento del concetto di “persona” nella teologia trinitaria? All’interno del quadro concettuale della modernità, il parlare di “persona” in Dio può essere equivocato in senso triteista. Si dovrebbe dire che il concetto moderno di “persona” vada applicato all’unità piuttosto che alla trinità di Dio e si potrebbe dire, ancora in senso moderno, che Dio è “una persona”, senza per questo cadere nell’eresia (per il fatto che il termine/concetto moderno è diverso da quello classico). Ecco il problema: abbiamo oggi due prospettive sul concetto di “persona”: una metafisico-trinitaria e una antropologica. Per questo problema sono presenti due profili di soluzione: la convinzione che il termine “persona” (in senso classico) si possa e si debba applicare a Dio e, analogicamente, anche alle sue creature; la negazione di tale possibilità: l’applicazione di tale concetto confonde (non chiarifica) la realtà divina e perciò va rifiutato. Tutto, dunque, si gioca sul valore dogmatico del termine “persona”: è legittimo, dal punto di vista dottrinale, rifiutarlo? Raniero Cantalamessa: il concetto di persona è intoccabile nella cristologia, dopo Calcedonia, ma non è così nel concetto di persona nelle formule trinitarie. Nessun Concilio ha sancito l’uso trinitario di “persona”, anche se è vero che c’è una prassi costante dell’uso, una tradizione. Ma è proprio la tradizione a dichiararne il carattere opzionale e provvisorio. Quale sarebbe però la formula domgatica non opzionale? “Dio è uno. Il Padre è Dio. Il Figlio è Dio. Lo Spirito Santo è Dio. Il Padre non è il Figlio. Il Padre non è lo Spirito Santo. Il Figlio non è lo Spirito Santo”. 2. La proposta di Karl Rahner Il teologo tedesco indica le diverse aporie del concetto di “persona” nella teologia trinitaria: Il concetto non si trova nel NT né nella Chiesa primitiva. Il termine, usato nell’espressione “Dio in Tre persone”, tenta di addizionare ciò che è assolutamente unico e in quanto tale non si può addizionare; la difficoltà viene dal fatto che noi non abbiamo un concetto generale di “persona” e poi, nella Trinità, tre esemplari di questa specie, tali da elencarli e sommarli; ogni Persona divina è assolutamente unica e, in quanto Persona, non ha niente in comune con le altre due. Hanno la medesima sostanza ma, in quanto Persone, sono totalmente uniche. Persona, in quanto concetto concreto, non designa la specie/essenza (personalitas) ma la concreta Persona divina; l’univocità del termine può suscitare l’impressione che si tratti di tre persone uguali di cui si danno tre esemplari. L’uso del termine “persona” può portare a galla un triteismo latente, facendo pensare a tre centri di coscienza (in senso moderno), tre centri spirituali. 2.1 Un “Tu” reciproco nella Trinità? In Dio non ci sono tre centri di coscienza. Il Padre è l’unico che parla; il Logos non è Colui che parla ma Colui che viene detto (che “è parlato”): non c’è propriamente un amore reciproco tra Padre e Figlio. Il Padre-Io genera il Figlio-Tu e, in questa relazione, il Figlio non diventa un “Io”: infatti non c’è propriamente un’azione del Figlio sul Padre. «In Dio però non ci sono tre tali centri. Sia perché in Dio c’è una sola essenza e dunque una sola coscienza assoluta, sia anche perché c'é una sola autoespressione del Padre, cioè il Logos (ed egli non è colui che parla, bensì colui che vien detto), e perché non c'è propriamente un amore reciproco tra Padre e Figlio (che presuppone due atti)» (Rahner, Il Dio trino…, in MySal III, p. 489). Le divine Persone non vanno distinte attraverso l’autocoscienza di sé, anche se non si può negare che ogni Persona divina ha una coscienza di sé e dei suoi rapporti con le altre due. Ma questa coscienza è unica e comune al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. D’altra parte, in Dio, non si può distinguere tra coscienza e conoscenza. Nella vita intratrinitaria, la coscienza è originaria ed è conoscenza originaria. La coscienza di sé e la conoscenza della Tre Persone coincidono nell’unica coscienza divino-trinitaria. Ciò porta a dire che: «Non c'è all'interno della Trinità un tu reciproco. Il Figlio è l'autoespressione del Padre, la quale, ancor una volta, non può venir concepita come ‘parlante’; lo Spirito è il ‘dono’ il quale ancor una volta non dona. Io. 17,21; Gal. 4,6; Rom. 8,15 presuppongono un punto di partenza creato del ‘tu’ rispetto al Padre» (Rahner, Il Dio trino…, in MySal III, nota 30, p. 462). In questo modello, rimane certamente l’alterità in Dio ma salta altrettanto certamente la reciprocità delle Persone in Dio. La reciprocità, per Rahner, si recupera solo nell’economia. [Ci domandiamo, però, l’alterità senza reciprocità non perde forse il suo fine?] In questo senso, la preghiera non può essere intesa nella prospettiva della doppia dossologia (quella coordinata – Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo – e quella subordinata – Gloria al Padre, per il Figlio nello Spirito Santo) ma solo strettamente nella prospettiva dossologica subordinata (ma sarebbe meglio dire, nel caso di Rahner, subordinazionista). Ogni preghiera ci conduce inevitabilmente al Padre: ciò è certamente vero ma non è necessario escludere la coordinazione per dire ciò. È piuttosto necessario integrarla. Es.: una preghiera come “Vieni Spirito Santo” significherebbe solamente “Padre mandami lo Spirito Santo”. 2.2 Padre, Figlio e Spirito come distinti modi di sussistenza Rahner propone allora di riformulare il concetto di persona: le persone sono tre modi dell’autocomunicazione dell’unico Dio. Ciò, secondo Rahner, non è modalismo e non si gioca solo sul piano economico perché questi tre modi di autocomunicazione sono tre modi distinti di sussistenza presenti non solo a partire dall’economia ma anche nellavita intratrinitaria. Il vantaggio più significativo dell’uso della locuzione “tre modi distinti di sussistenza” è che ci fa pensare all’unità di Dio (scartando il triteismo) e che non insinua la moltiplicazione dell’essenza e della soggettività. Inoltre, il parlare delle Tre Persone in Dio può far pensare ad una quarta divinità da cui emanano le Tre Persone: Rahner pensa che il termine “persona” non porti solamente il rischio di triteismo ma anche quello di una “quaternità”. L’espressione “modo distinto di sussistenza” dice lo stesso della concettualizzazione di persona di Tommaso e della teologia greca di “ipostasi”. Rahner pensa dunque che si possa parlare di “modo distinto di sussistenza” per parlare della Trinità senza cadere nel modalismo. «Con questa nozione [modo distinto di sussistenza], che non vuol essere altro che una spiegazione giustificata dalla definizione di ‘persona’ fatta da Tommaso d'Aquino, non si vuol abolire [...] l'uso del concetto di persona. Ma questa applicazione congiunta, può servire a vincere il preconcetto che sia cosa chiara ed evidente ciò che si pensa con ‘persona’ e soprattutto con ‘persona’ nella dottrina trinitaria» (Rahner, Il Dio trino…, in MySal III, p. 496). 3. Le correzioni della proposta rahneriana: atti personali e atti essenziali Il giusto rifiuto del triteismo latente non deve portare al rifiuto di un “tu” reciproco nella Trinità. Secondo Kasper, bisogna distinguere, seguendo Agostino e tutta la teologia occidentale, tra atti personali e atti essenziali. «Non rimane altro da dire se non che nella Trinità abbiamo a che fare con tre soggetti, i quali sono reciprocamente coscienti in forza dell'unica e medesima coscienza ‘posseduta’ in modi differenti dai tre differenti soggetti. […] Ciò che Rahner descrive non è affatto la concezione moderna di persona, ma piuttosto un individualismo estremo, dove ognuno è un centro di attività che possiede se stesso, di se stesso dispone e dagli altri si differenzia» (Kasper, Il Dio di Gesù Cristo, p. 385). Invece di seguire il concetto individualistico di persona, si dovrebbe piuttosto cercare il concetto personalistico di persona delle correnti filosofiche contemporanee (cfr. Buber): né sostanza né soggetto bastano per esaurire il concetto di persona: è necessario ricorrere alla relazionalità. Queste correnti filosofiche ci mostrano che la personalità può esiste solo con l’interpersonalità. Kasper ci mostra che il Padre è Colui che parla e il Figlio è Colui che obbedisce. È ovvio poi che questa relazione non è interscambiabile: il Figlio non può prendere il posto del Padre (cioè la processione non può essere invertita) ma ciò non significa che il “tu” reciproco vada eliminato dalla teologia trinitaria. «Da tutto ciò però “non consegue che allora non si darebbe un reciproco Tu. Anche la risposta nell'obbedienza e nel mostrarsi in debito si esprime nel Tu, ovviamente un Tu che garantisce l'unicità sia della propria che dell'altrui persona. Ciò significa che in Dio e fra le persone divine, non malgrado ma proprio a motivo della loro unità infinitamente più grande, si danno pure un'interrelazionalità ed interpersonalità infinitamente maggiori di quelle che si riscontrano nel rapporto interpersonale tra gli uomini» (Kasper, Il Dio di Gesù Cristo, p. 386). In altri termini le processioni divine, secondo il loro ordine, non sono un ostacolo alla reciprocità in Dio ma ne sono il presupposto. Le Persone divine non stanno solo in dialogo ma sono esse stesse dialogo. E la misura di questo dialogo è infinitamente più grande di quanto possiamo analogicamente immaginare dalla nostra posizione di creature dialogiche e relazionali, immerse nell’interpersonalità. «Il concetto di persona, a partire dalla sua origine, esprime l'idea del dialogo e di Dio quale essere dialogico. Esso pensa a Dio come all'essere, che vive nella parola ed esiste come io e tu e noi nella Parola. [...] Persona in Dio è la pura relatività dell'essere-rivolti-l'uno-all'altro, essa non si trova sul piano della sostanza - la sostanza è una sola -, ma sul piano del dialogo, della relatività reciproca» (Ratzinger, Dogma e Predicazione, Brescia 1974, pp. 178-179). Anche se è solo il Padre che pronuncia la Parola (è solo il Padre che genera), questo non vuol dire che il Figlio (la Parola pronunciata) non possa rispondere “Tu” al Padre. Bourassa condivide la distinzione tra atti personali e atti essenziali e sostiene che la coscienza essenziale è la coscienza che ogni Persona divina ha della pienezza della divinità; la coscienza personale consiste nell’essere cosciente di sé della Persona divina come distinta dalla altre Persone. Ciascuna delle Tre Persone esercita la coscienza di essere Dio insieme alle altre e la coscienza di essere distinta dalle altre. L’atto essenziale è comune alle Tre nella pienezza di Dio, l’atto personale è proprio a ciascuna Persona e identico alla coscienza personale di ciascuna di esse. La coscienza personale è il culmine dell’unità perché non soltanto non indebolisce la coscienza essenziale ma implica l’unità essenziale della coscienza e dell’amore. Essa vuol dire anche che si può parlare di tre “io” e di conseguenza del “tu” reciproco all’interno della Trinità. 26/05/2011 Anche Balthasar si oppone alla concezione rahneriana. L’immagine della Trinità può essere sviluppata soltanto su due linee che si condizionano a vicenda: la struttura dell spirito creato che deve uscire da un autopossesso (lo spirito pone sé davanti a sé per afferrarsi); tale prospettiva però chiude lo spirito in sé stesso; ci vuole perciò la seconda direzione, che spinge lo spirito fuori di sé, cioè verso un “tu” e, soltanto in questo superamento, l’io spirituale diviene sé stesso. Balthasar è perciò convito che, in base al rigore del primo schema, la cui somiglianza con Dio sta nell’unità dello spirito, non è opportuno fermarsi solo su di esso e non muoversi verso il secondo, ossia dichiarare impossibile ogni “tu” intradivino. Scheffczyk: una delle conoscenze fondamentali della filosofia moderna un io spirituale non matura nell’auto-essere senza il co-essere con un “tu” e se dobbiamo comprendere Dio come amore in sé stesso (non amore che diventa tale nell’incontro con il creato) bisogna attribuirgli un “tu” intradivino. 4. Il modello sociale (comunitario) della Trinità 4.1 La proposta di Heribert Mühlen Anche M. si rivolge ai personalisti moderni. Il suo punto di partenza è la convinazione che in relazione alle Persone in Dio non si possa parlare del numero come lo facciamo quando ci riferiamo alle persone umane. Concilio di Toledo XI (DH530): in Dio il numero si riferisce soltanto alle relazioni intratrinitarie e non in quanto sono ad se. In altre parole, le Persone divine, in quanto Persone, non hanno nulla in comune; la differenza tra le Persone divine è maggiore di quanto si possa pensare (non abbiamo una specie “Persona divina” e tre esemplari). Ci sono due tipi principali di relazioni personali: io-tu: reciprocità; l’uno di fronte all’altro; noi: comunità; l’uno con l’altro. Il Padre è “io” sussistente e il Figlio si presenta come “tu” sussistente; lo Spirito Santo, invece, è “noi” sussistente. La relazione Padre-Figlio corrisponderebbe alla relazione “io-tu”. Per il fatto di non essere generato, il Padre può essere chiamato “io”; in contrapposizione all’io che non presuppone nessuno, il “tu” è qualcuno che si interpella e risponde e il Figlio sarebbe il “tu” costituito dalla relazione con il Padre. In quest’ottica la relazione del Figlio con il Padre, sarebbe la realzione di un “tu” verso un “tu”. Il modello del “noi” è quello della relazione tra Padre e Figlio rispetto allo Spirito; la relazione del Padre e del Figlio, in relazione allo Spirito è la relazione del “noi” verso un “tu”. Lo Spirito Santo non è per il Padre e il Figlio un “lui” ma un “noi” in Persona. In altre parole, la pericoresi del Padre e del Figlio (l’amore del Padre e del Figlio) è quella di una Persona in due. Lo Spirito è una Persona in due Persone: il“noi” in Persona. Andrea Milano critica M. dicendo che forse sarebbe il caso di parlare del Padre e del Figlio come reciproci “io” e “tu” abbandonando la velleità di determinare il primo come “io” e il secondo come “tu” (cioè quale sia il primo e quale il secondo). E perché mai lo Spirito non può essere designato come un “io” o come un “tu”? Ladaria, invece, difende M. sostenendo che: «Mühlen parla chiaramente dell’”io” del Padre e del Figlio, pur con le differenze che abbiamo indicato; anche dell’”io” dello Spirito Santo, in quanto riferito al Padre e al Figlio. L’equiparazione del “noi” del Padre e del Figlio con la terza persona ha originato critiche, come se il carattere personale dello Spirito santo fosse rimasto sminuito e attenuato. Non sembra che ciò sia del tutto vero, poiché questo “noi” […] non elimina il suo “io”. I pronomi si applicano preferibilmente a ogni persona, ma non esclusivamente, come talvolta si è rimproverato all’autore. L’intenzione di Mühlen utilizzando diversi pronomi personali è proprio quella di far vedere come il carattere “personale” dei tre sia diverso» (Ladaria, La Trinità mistero di comunione, p. 152). Alcuni teologi ricordano che schemi di questo tipo non sono soddisfacenti e che vada fatto un passo avanti. 4.2 La proposta di Joseph Bracken B. riprende la questione dei tre “io” in Dio o del “tu” reciproco, cominciando con breve riferimento a due autori di metà degli anni Cinquanta del Novecento. Presenta la posizione di un certo Hodgson, il quale propone un modello dell’unione organica della Trinità, un modello comunitario. La teoria di Hodgson trovò il suo oppositore in un certo Welch, il quale nega la possibilità del passaggio dal modello dell’unione dell’io individuale al modello dell’unione sociale delle Tre Persone e all’analogia sociale. Secondo Welch, Dio è una sola personalità e un solo “tu”, nel senso mderno dei termini. B fa notare che la dottrina trinitaria si sviluppava verso W., cui bisogna aggiungere Rahner, in cui B. vedeva il pericolo di un sabellianismo latente, in cui le Persone divine venivano presentate quasi come subordinate alla Natura divina. Inoltre, l’equazione rahneriana tra TI e TE non è pienamente riuscita. Esiste una contrapposizione tra il linguaggio economico rahneriano per la TE e il linguaggio modalistico che lo stesso Rahner usa per parlare della TI. Se le Tre sono Tre distinte nella TE, allora dovrebbero essere altrettante Tre nella TI; allo stesso modo, se le Tre nella TI sono “modi distinti di sussistenza”, tali dovrebbero essere anche nella TE. B. fa notare che R. sviluppa unilateralmente il termine Persona (cercandone di chiarire dubbi e difficoltà, che scaturiscono dal mutamento dal concetto classico a quello moderno) ma non si è occupato assolutamente di reinterpretare e sviluppare il concetto di Natura (cui R. non dedica affatto tempo). Neanche il concetto di “Natura” (“Una Natura in Tre Persone”) è così chiaro e forse bisogna salvare il concetto di Persona e riformulare quello di Natura. B. è convinto che si dovrebbe riesaminare piuttosto il concetto di Natura e lo comprende come “comunità di Persone”; se tale ipotesi fosse accettabile si potrebbe dire che ciascuna delle Tre Persone divine possiede il proprio “io”, la propria autocoscienza, la propria mente e la propria volontà. “Natura” passerebbe ad essere non più un concetto compreso individualisticamente ma comunitariamente. 4.3 La proposta di Jürgen Moltmann Moltmann sviluppa quella che egli chiama la “storia trinitaria di Dio”. M. rigetta l’affermazione rahneriana secondo cui l’unicità di una natura dice e include l’unicità di una coscienza e di una libertà unica. Il discorso della personalità in Dio deve riferirsi alla filosofia personalistica: è possibile comprendere l’io solo a partire dal tu; senza socialità, nessuna personalità. Ne deriva che trinitariamente, per parlare di personalità in Dio bisogna prima parlare di comunità. Se non esiste un “tu” reciproco intratrinitario – come vuole R. – allora il dicorso sulla personalità in Dio diventa problematico e la dottrina della Trinità sfocia nella solitudine mistica di Dio (cioè in una variante del modalismo). M. ci propone di parlare dell’unificazione delle Persone divine. Il concetto di unificazione indicherebbe un’autodifferenziazione personale e non soltanto modale in Dio. L’unità di Dio sarebbe riferita non alla sostanza né al soggetto assoluto (come vuole Rahner) ma alla comunione pericoretica delle Persone divine. «In virtù della loro personalità, il Padre, il Figlio e lo Spirito non sono soltanto fra loro distinti ma anche fra loro uniti, dato che personalità e socialità rappresentano semplicemente due aspetti della stessa realtà. In se stesso il concetto di persona dovrà quindi implicare il concetto di unificazione, come viceversa il concetto di unificazione di Dio dovrà implicare in se stesso quello delle tre persone. [...] E se l'unità di Dio viene riconosciuta nell'unificazione del Dio Tri-Uno, e quindi come unità pericoretica, non si correranno più nella teologia cristiana i pericoli dell'arianesimo e sabellianesimo» (Moltmann, Trinità e regno di Dio, pp. 164-165). La critica dell’approccio rahneriano, nel quale non c’è posto per un “tu” all’interno della Trinità, sembra apparentemente ragionevole e ben giustificata. La pars construens comunitaria, di autori come questi ultimi, non è neppure convincente perché ha suscitato tante accuse di triteismo. La comprensione comunitarismo senza sostituire l’unità naturale delle Tre con un’unità intenzionale, voluta dalle Tre (che decidono, ad un certo punto, di essere Uno). La ricerca di modelli trinitari continua… Parte X La Trinità in noi, noi nella Trinità – la preghiera di Suor Elisabetta della Trinità 1. Dove possiamo trovare la Santissima Trinità? Il CCC, al n. 292, citando Ireneo di Lione, afferma che la creazione è opera comune della SS.ma Trinità. Perciò possiamo cercare e trovare tante diverse analogie trinitarie nel creato e nella natura che ci circonda. Possiamo poi trovare la Trinità nella storia, in primis quella di Gesù di Nazaret ma anche nella storia personale, magari nella storia della nostra vocazione personale, nella storia delle nostre relazioni con gli altri. Possiamo, infine, trovare la Trinità in noi stessi, nel nostro cuore. La presenza della Trinità nell’anima si chiama inabitazione (di cui si parla tanto nella Scrittura quanto nella storia della mistica). I grandi scolastici come Tommaso e Bonaventura parlavano di inabitazione nel quadro della teologia trinitaria (e non in quella della grazia). 2. La rivelazione della inabitazione nel Nuovo Testamento. «Voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi […]. Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui» (Gv 14, 20.23). «Se ci amiamo a vicenda, Dio rimane in noi. Da questo conosciamo che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha dato il suo Spirito. Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in lui ed egli in Dio» (1 Gv 4,12-13.15). «Voi siete sotto il dominio dello Spirito dal momento che lo Spirito abita in voi […]. Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in Voi» (Rm 8,9.11). Leggendo questi brani si può dire che non sono molte le verità che si trovano così chiaramente espresse nel testo biblico. L’insegnamento biblico sui rapporti tra Dio e l’uomo trova nell’inabitazione il suo vertice. Forse questa verità è oggi un po’ trascurata. 3. L’insegnamento del Magistero sulla inabitazione Uno dei documenti del Magistero in cui si parla di inabitazione è l’enciclica Divinum illud munus (1897) di Leone XIII. Dio si trova in tutte le cose per la sua potenza, con la sua presenza e con la sua essenza, in quanto egli ha tutto assoggettato a sé, di tutto è la causa prima. «Ma nella creatura ragionevoleDio si trova in un'altra maniera: cioè in quanto è conosciuto e amato, giacché è secondo natura amare il bene, desiderarlo, cercarlo. Infine Dio per mezzo della sua Grazia sta nell'anima del giusto in una maniera più intima ed ineffabile, come in un suo tempio, da cui deriva quell'amore reciproco, grazie al quale l'anima è intimamente presente a Dio, è in lui più che non avvenga fra carissimi amici e gode di lui con piena soavità. Ora questa unione, che propriamente si chiama INABITAZIONE, la quale non nell'essenza, ma solo nel grado differisce da quella che fa i beati in cielo, sebbene si copia per opera di tutta la Trinità, con la venuta delle Tre Persone nell'anima amante di Dio, tuttavia si attribuisce allo Spirito Santo» (Leone XIII, Divinum illud munus). Un altro documento magisteriale che parla dell’inabitazione è la Mystici corporis (1943) di Pio XII. Secondo l’insegnamento della Chiesa, l’inabitazione trinitaria non è una presenza metaforica ma vera e reale. Si tratta della presenza di tutte e Tre le divine Persone e non solo dei doni santificanti. L’inabitazione ha luogo in chi possiede la grazia e la carità. Optatam Totius, n. 8: «gli alunni imparino a vivere in intima comunione e familiarità vivere in intima comunione e familiarità col Padre per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo, nello Spirito Santo». 4. La testimonianza mistica di Elisabetta della Trinità (1880-1906) Nei suoi scritti ci ha lasciato una testimonianza profonda della sua quasi ininterrotta comunione con le Persone divine che la inabitavano. «Ho trovato sulla Terra il mio Cielo perché Dio è nell’anima mia». Nelle sue preghiere, Elisabetta, monaca carmelitana, si rivolge a Dio dicendo “Voi, Voi Tre”. Ai suoi Tre rivolge una preghiera considerata tra le più belle e profonde rivolte alla SS.ma Trinità, 21 novembre 1904, al termine di un periodo di ritiro nella sua cella, su un foglietto strappato da un quaderno: Mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi completamente, per fissarmi in Te, immobile e tranquilla, come se la mia anima fosse già nell'eternità. Nulla possa turbare la mia pace, né farmi uscire da Te, o mio Immutabile, ma che ogni istante m'immerga sempre più nella profondità del tuo mistero. Pacifica la mia anima, rendila tuo cielo, tua dimora prediletta e luogo del tuo riposo. Che non ti ci lasci mai solo, ma che io sia tutta là, vigile e attiva nella mia fede, tutta adorante, tutta consegnata alla tua azione creatrice. […] O miei Tre, mio Tutto, mia Beatitudine, Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo, mi consegno a voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra luce l'abisso delle vostre grandezze (Elisabetta della Trinità)