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I
1. Popolare è notoriamente termine quanto mai elastico e controverso: si
pensi al dibattito suscitato da quella che, in riferimento ai prodotti culturali,
rimane forse la più stimolante lettura di tale concetto, la lettura bachtiniana.
In sede preliminare, gli può forse conferire una fisionomia meno vaga l’evi-
dente constatazione che il periodo storico medievale, nell’àmbito europeo
quantomeno, vede l’affermarsi di veicoli linguistici ed espressivi che già per
l’attributo apposto — volgare — si ricollegano all’emergere o al riemergere
alla ribalta della storia, nel segno di un rimescolamento degli assetti sociali,
di gruppi, mentalità e sensibilità culturali definite come basse. Ma già qui si
apre notoriamente un problema: come risulta dal dibattito appena ricordato
(ma anche, ad esempio, dalla prima parte del volume di Burke sulla cultura
popolare nell’Età Moderna, le cui osservazioni restano probanti anche per il
Medioevo)1, «volgare» rinvia certo a volgo, ma da ciò non deriva un’automa-
tica e tantomeno un’esclusiva assimilazione del termine ai livelli infimi della
società. Pure se la corrispondente realtà linguistico-culturale si definisce ri-
spetto a un antonimo a lungo inteso come superiore — il latino, strumento
della cultura dotta ufficiale —, nei fatti la situazione è più variegata, denun-
ciando una natura nettamente interclassista: a livello sociale, infatti, la linea
separativa distingue, da un lato, una minoranza piuttosto, anche se non esclu-
sivamente, compatta — la minoranza dei colti, dei clerici (ma si ricordi già
qui che le articolazioni interne di questa minoranza sono massimamente rile-
vanti per il nostro problema, posta la funzione che gli specialisti intellettuali
rivestono nell’elaborare e trasmettere materiali culturali di qualsiasi prove-
nienza); mentre dall’altro lato si colloca l’ibrida maggioranza degli incolti,
dei laici. Il punto è da tener fermo per le sue immediate ricadute sul proble-
ma del teatro del Medioevo, il quale per le sue destinazioni di massa si avva-
le del volgare, in quanto viene prodotto per chi normalmente, non avendo
un’istruzione compiuta, non sa leggere né tantomeno scrivere, ma nella sede
teatrale può ascoltare e spectare. Il problema è dunque squisitamente socio-
culturale, visto che molti dei tratti popolari di cui si dirà più sotto possono es-
ser rintracciati anche in testi teatrali che si avvalgono del latino, in quanto ta-
Teatro medievale: teatro popolare?
di Nicolò Pasero
1 Burke 1980, pp. 26-64.
La scena assente. Atti delle II Giornate Internazionali Interdisciplinari di Studio sul Medioevo…, 
a cura di F. Mosetti Casaretto, Alessandria 2006, pp. 1-00
2
li destinati soprattutto al consumo dei colti. In altre parole, si ricorderà che i
temi definiti volgari possono essere trattati tanto in latino quanto in volgare,
cosicché non basta la loro isolata presenza per qualificare un’opera in un de-
terminato senso. 
2. Dicotomie come quelle appena accennate — latino vs volgare, colti vs
incolti, clercs vs popolo — assumono una fisionomia più netta , se si consi-
dera il teatro non più sotto l’aspetto ricettivo, ma sotto quello della sua pro-
duzione (categoria che nel caso specifico include tanto la redazione di testi
quanto la loro messa in scena). In questa prospettiva compaiono con maggior
evidenza fenomeni di incrocio e contaminazione fra i livelli socioculturali: è
la risaputa (e discussa) storia della duplice fisionomia attribuita al teatro alla
sua comparsa (o meglio ricomparsa) nel Medioevo, in corrispondenza con la
doppia articolazione di fondo del sistema culturale complessivo: da un lato la
matrice clericale, che veicola dall’alto culturale verso il popolo cristiano dei
messaggi ideologici esemplari, per loro costituzione intimamente legati a
competenze esclusive (in sintesi: la necessaria padronanza tanto delle Scrit-
ture come della scrittura); e che nello stesso tempo, almeno in una prima fase
(quella attivata all’interno del luogo sacro), fornisce alla pratica teatrale i ne-
cessari specialisti, in veste di autori e rielaboratori, ma anche (seppure non
esclusivamente) di registi, interpreti, tecnici. Dall’altro lato, con minor evi-
denza — soprattutto, pour cause, a livello di documentazione scritta — agi-
sce la matrice laica e popolare, principalmente quella legata alla piazza festi-
va di bachtiniana definizione, luogo e teatro di azioni spettacolari: e sottoli-
neo pour cause, poiché di norma — come s’è detto — questa cultura dal bas-
so accede alla tradizione (alla great tradition, per dirla con Robert Redfield)2
solo ove venga assunta e rielaborata da specialisti nel senso appena indicato,
competenti quantomeno della scrittura. 
3. In alcuni dei primi esempi del teatro medievale (penso qui soprattutto
all’area romanza, documentariamente fra le più ricche; ma il discorso an-
drebbe condotto in prospettiva comparatistica europea, per esempio partendo
dai testi a suo tempo antologizzati da Gianfranco Contini3) l’interazione fra i
due livelli indicati — clericale e popolare — si manifesta con la massima
pregnanza già nell’aspetto più estrinseco del testo: vale a dire nella sua dop-
pia articolazione linguistica, dove le parti in volgare rivestono, al servizio
delle masse illetterate, una funzione traduttoria riguardo al messaggio tra-
smesso, il quale — scrittura in tutti i sensi — viene prima recitato nella sua
2 Cfr. Burke 1980, pp. 27. Ma al proposito si vedano le osservazioni critiche di Carlo
Ginzburg nella prefazione al volume (Burke 1980, pp. XI sgg.).
3 Contini 1949.
Nicolò Pasero
3
veste latina ufficiale: lo mostrano ad abundantiam i noti esempi dello Spon-
sus4 e del Jeu d’Adam5. Ma soprattutto — aspetto determinante così in queste
due opere come in tutto il teatro in volgare — alla duplicazione linguistica
del messaggio si accompagna quell’altro modo di traduzione che è la dram-
matizzazione dei suoi contenuti, la loro messa in scena; ed è qui che intervie-
ne con particolare vigore una matrice culturale diversa, insinuando il suo
specifico senso della realtà negli interstizi lasciati liberi dalla dominanza del-
l’ideologia ufficiale. È discorso comune della critica far risalire a questo li-
vello culturale tutti gli elementi e motivi variamente definiti come bassi, rea-
listici, comici, carnevaleschi, insomma popolari, da sempre individuati nei
testi teatrali del Medioevo: cito alla rinfusa: diavoli più o meno buffi (Spon-
sus, Jeu d’Adam, Jeu de la Feuillée6), familiarizzazione dei personaggi (ad
esempio, sempre nel Jeu d’Adam, i bisticci coniugali di Adamo e Eva), quoti-
dianità e scurrilità (tratto specifico delle cosiddette Mercatorszenen inserite
nei drammi della Passione, sul genere di quella analizzata da Roman Jakob-
son nel suo saggio sull’Unguentarius in antico ceco)7; corporeità e altri parti-
colari veristici (vedi il sangue nella scena dell’assassinio di Abele nel Jeu
d’Adam); ambientazioni basse dell’azione (le taverne del Jeu de saint Nico-
las8, del Courtois d’Arras9, del Jeu de la Feuillée; il lupanare del Jeu de
sainte Agnès10).
4. Fra gli elementi rilevanti per il nostro interrogativo di partenza andreb-
be certo inserito anche l’impiego di tecniche teatrali particolari, per loro na-
tura povere, assimilabili a quelle messe in luce da Piotr Bogatyrëv nel suo
saggio sulla semiotica del teatro popolare slavo di epoca moderna11. Il richia-
mo non è pretestuoso, visto che nelle conclusioni del contributo12 lo Studioso
russo alla realtà teatrale indagata accosta esplicitamente quella medievale,
sulla base della comunanza di molti elementi: entrambe le realtà mescolano
tragico e comico, non osservano le unità aristoteliche (è «come se l’abbon-
danza di azione assorbisse il tempo e il luogo»)13, rappresentano sulla scena
azioni brutali e violente, contengono parti cantate — cosa che, come si sa,
avviene con particolare pregnanza nel Jeu de Robin et de Marion di Adam de
4 Sponsus, I 1-XIX 87 (Avalle ed. 1967, pp. 69-81).
5 Ordo representacionis Ade (Noomen ed. 1971).
6 Adamde la Halle, Jeu de la Feuillée (Brusegan ed. 2004, pp. 261-381).
7 Jakobson 1975.
8 Jehan Bodel, Jeu de saint Nicolas (Infurna ed. 1987).
9 Courtois d’Arras (Faral ed. 1922).
10 Jeu de sainte Agnès (Jeanroy ed. 1931). 
11 Bogatyrëv 1973.
12 Bogatyrëv 1973, pp. 21-22.
13 Bogatyrëv 1973, p. 19.
Teatro medievale: teatro popolare?
4
la Halle14 —, utilizzano prologhi ed epiloghi recitati da personaggi nella fun-
zione detta «dell’araldo» (qui si pensa subito agli attacchi del Jeu de Saint
Nicolas e del Jeu de la Feuillée), e altro ancora. A questi fattori — il cui im-
patto più notevole mi sembra la generale tendenza a semplificare (o superare,
nel nome di una diversa poetica) molti aspetti canonici delle teoriche teatrali
— vanno aggiunti, come altrettanto significativi, quelli che tendono a inde-
bolire la divisione di ruoli fra chi recita e chi assiste allo spettacolo, divisione
che viceversa fornisce di solito la misura dell’ufficialità di una rappresenta-
zione. Il fenomeno è particolarmente evidente nel Jeu de la Feuillée di Adam
de la Halle, la cui vicinanza alla cultura della festa sta notoriamente al centro
della lettura che ne fornisce Bachtin nel volume su Rabelais15: da un’analisi
del Jeu condotta in quest’ottica risultano, come ho cercato d’indicare in un
mio contributo16, caratteristiche quali la continua variabilità del fuoco sceni-
co, che viene di volta in volta realizzato all’interno dello spazio complessivo
in cui si fa teatro; il sistematico ricorso all’intervento cooperativo del pubbli-
co, nello spirito di quella che ancora Bogatyrëv definisce «un’intesa fra attori
e spettatori circa la recitazione e la percezione simbolica di tutto ciò che è
mostrato sulla scena»17; e altri tratti tipici, come la creazione di scenografia
attraverso i movimenti degli attori (i testi sono ricchi di deittici la proposito). 
Non va nascosto che simili accostamenti non devono mettere in ombra
una controtendenza: i (relativamente pochi) dati documentari sulle messe in
scena medievali testimoniano anche di una ricerca di realismo rappresentati-
vo e di effetti coinvolgenti, che va in direzione opposta rispetto alla semplifi-
cazione appena indicata: si veda la raffinatezza di certi artifici scenici, come
quelli desumibili dalle note registiche al Jeu d’Adam (il serpente artificiose
compositus, il meccanismo nascosto che fa sgorgare il sangue di Abele) e dai
sopravvissuti manuali dei metteurs en scène medievali18. 
5. Meno fruttuosa nei riguardi dell’interrogativo di partenza mi sembra in-
fine un’indagine sui livelli sociali rappresentati nelle opere che sia finalizza-
ta, secondo una vecchia impostazione di sociologia letteraria, alla ricerca di
protagonisti popolari: come è norma quasi assoluta nei prodotti culturali del
Medioevo, infatti, la presenza nei testi teatrali di personaggi quali mercanti
(Sponsus, Misteri della Passione), tavernieri (Jeu de saint Nicolas, Courtois
d’Arras), malavitosi (ancora Jeu de saint Nicolas), meretrici (Courtois, Jeu
de sainte Agnes), messi, banditori, carnefici e simili, è in genere funzionale a
14 Adam de la Halle, Jeu de Robin et de Marion (Brusegan ed. 2004, pp. 151-259).
15 Bachtin 1979, pp. 281-287.
16 Pasero 1988.
17 Bogatyrëv 1973, p. 7.
18 Si vedano Cohen 1925 e Vitale-Brovarone 1984.
Nicolò Pasero
5
trame narrative alte e avviene solo in corrispondenza all’introduzione dei ri-
cordati nuclei tematici bassi. Qualche volta sembra comparire, al margine
dell’azione, il popolo come massa, ma è massa di spettatori (come potrebbe
essere quella fra cui discurrunt i diavoli nel Jeu d’Adam); altrimenti mi pare
che non si diano protagonisti estranei agli status sociali superiori (oratores e
bellatores di rango elevato). V’è sì una parziale eccezione, rappresentata dal
preudom del Jeu de saint Nicolas: questi appartiene certo al popolo, nel sen-
so interclassista di cui si diceva sopra, ma, come è stato da più parti rilevato,
il suo ruolo di credente borghese che sconfigge le forze anticristiane sta so-
stanzialmente al servizio19 di una politica di coinvolgimento dei ceti cittadini
in quello spirito di crociata a cui, pur con tutte le ambiguità del caso, l’ideo-
logia ufficiale del testo si ispira.
II
1. Come si vede, la domanda di partenza, qui sommariamente indagata
sotto alcuni profili, resta largamente aperta. Soprattutto, se si vuole attribuire
la qualifica di popolare al teatro del Medioevo (o quantomeno a qualcuno dei
testi teatrali di quest’epoca), una caccia a indizi che si risolva in un catalogo
di tratti più o meno significativi (come avviene nella ricezione vulgata della
grande ipotesi bachtiniana) si rivela premessa magari necessaria, ma non suf-
ficiente20. Penso invece che ci si possa avvicinare a una definizione più vali-
da nella misura in cui si riesca a stabilire quanto la comparsa nelle opere de-
gli elementi richiamati — la cui intenzione prima, ripeto, è quella di rendere
il loro messaggio più accessibile al pubblico dei laici (in analogia con quanto
avviene, ad esempio, nella pratica della predicazione in volgare) — induca
nel senso dei testi delle modifiche di sostanza, trascinando con sé porzioni
più o meno estese di Weltanschauungen tendenzialmente svincolate da quelle
ufficiali (le quali ultime, nel caso in questione, sono principalmente quelle
del credo religioso). Una definizione condotta su queste basi richiede però
l’accettazione del principio-guida della concezione bachtiniana di cultura po-
polare: che essa cioè significhi qualcosa di più che non la sommatoria di trat-
ti isolati come basso materiale corporeo o corpo grottesco o mondo alla rove-
scia o quant’altro ancora, ma si riferisca a una concezione complessiva, a un
atteggiamento culturale a cui pertenga pienamente, per usare con altre impli-
cazioni una famosa espressione di Bogatyrëv e Jakobson, la qualità di forma
di creazione autonoma. Perno di un simile atteggiamento è allora la com-
prensione del reale nella dinamica delle sue contraddizioni e nella sua sostan-
ziale relatività, come si desume con tutta evidenza dalla categoria centrale di
quel vero e proprio compendio d’autore della teoria del carnevalesco che Ba-
19 Cf. Payen 1973, Rey-Flaud 1980, c. VI, nonché l’introduzione dell’edizione Infurna
(Infurna ed. 1987, pp. 12-13).
20 Su questo punto mi permetto di rinviare a Pasero 1985.
Teatro medievale: teatro popolare?
6
chtin inserisce nella versione riveduta della sua monografia su Dostoevskij:
la categoria di ambivalenza21. 
Ambivalenza e relativizzazione, e non semplice inversione e abbassa-
mento, allora, dovrebbero essere fra i punti forti di una ricerca sui possibili
caratteri popolari della produzione teatrale del Medioevo. Lo si percepisce
qualche volta da certi indizi rintracciabili nei testi: non solo l’intervento di fi-
gure teatrali caratterizzate da un’ambiguità di fondo (paragonabile a quella
espressa dalla nota maschera della vecchia incinta delle feste carnevalesche),
quali potrebbero essere i diavoli, spaventosi ma buffi, che, secondo le indica-
zioni registiche del Jeu d’Adam, discurrunt per plateas gestum facientes
competentem; ma anche la comparsa in alcune opere di zone libere rispetto
all’ideologia ufficiale che veicolano. Si accennava sopra al Jeu de Saint Ni-
colas, per negare che il suo protagonista sia un eroe popolare; ma nello stesso
Jeu la non conversione al Cristianesimo dei ladri e dell’emiro ribelle indivi-
dua una zona appunto libera, seppure definita negativamente, con cui i valori
assoluti della religione (riconfermati, per usare i termini della semiotica lot-
maniana, dal generale passaggio di attanti dall’ES all’IN della cultura a cui
aderisce il testo) vengono relativizzati.
2. Ma per esemplificare meglio quanto sto argomentando ricorrerò a un
passaggio fondamentale del Jeu de la Feuillée, il testo teatrale che Bachtin,
come già accennato, definisce profondamente carnevalizzato22: precisamente
al monologo iniziale dell’autore-personaggio, un pezzo di bravura che tratta
dell’incompatibilità fra il suo trascorsoamore per la moglie Maroie e l’attua-
le desiderio di recarsi a Parigi per riprendere gli studi, argomentata in una
sorta di pubblica confessione. Qui, sotto la superficie di un divertissement in-
triso di autoparodia e ricco di virtuosismi stilistici23, si nasconde qualcosa di
molto più impegnativo: il confronto con due grandi ideali del tempo — amo-
re e sapere, amors e clergie — , colti tanto in sé, quanto nelle loro controver-
se connessioni. Ha analizzato in un lucido saggio la dialettica di questi due
princìpi Gioia Zaganelli, sottolineando in particolare come
nel momento stesso (…) in cui afferma il proprio diritto alla clergie, il poeta non
dimentica che l’amore è, nella cultura del tempo, il mezzo, essenziale, di perfe-
zionamento morale. L’esigenza di realizzazione individuale è così di volta in vol-
ta limitata — o arricchita — dalla necessità di collocare correttamente, nella ri-
scoperta dimensione intellettuale del singolo, il legame sentimentale con la don-
na24.
21 Bachtin 1963, cap. IV, in particolare pp. 159-175. Cfr. anche Musso 1985.
22 Bachtin 1979, p. 281.
23 Cfr. Pasero 2003, pp. 39-44.
24 Zaganelli 1977, p. 25.
Nicolò Pasero
7
In prima istanza, dunque, Adam affronta direttamente il tema dell’amore,
denunciando le componenti d’illusione che intervengono nel processo del-
l’innamoramento con la sua esaltazione delle grazie femminili (Amours si le
gent enoint / e chascune grassse enlumine / en fame…25) e insistendo — nel-
la doppia descrizione del corpo della moglie, tutta intessuta di adonc e or, al-
lora e adesso — sulla transitorietà di tale fenomeno; ma ciò avviene senza
abiure, perché quello con cui Adam fa i conti non è il fatto amoroso in gene-
rale, bensì il fondamentalismo implicito della dottrina cortese, che fa dell’a-
more l’unico elemento che permette all’individuo di realizzarsi. Cito ancora
Gioia Zaganelli: 
In contrasto con tutta la tradizione cortese che vede nell’amore la sola possibilità
di realizzazione individuale, che ha fatto, cioè, dell’amore un valore assolutamen-
te positivo, fonte di tutto ciò che è in saeculo bonum, forza capace di esaltare le
potenzialità dell’essere, Adam si sente in dovere di giustificare il tempo passato
— e per lui perduto — nell’esaltazione del cuore e dei sensi. Non fino al punto,
però, di non riconoscere la persistenza, in quell’amore negato, di valori positivi26.
3. A ben guardare, tuttavia, nel decorso del ragionamento di Adam c’è
qualcosa di più: la contrapposizione di valori indicata assume una forma spe-
cifica, perché non vi si tratta solo di amore e sapienza tour court, ma dell’in-
conciliabilità fra status matrimoniale e missione del dotto, un tema non se-
condario di controversia dottrinale nell’epoca in cui viene composto il Jeu.
Con tali termini entra in gioco un preciso riferimento storico, al quale non mi
pare sia stata prestata sufficiente attenzione da parte della critica del Jeu27:
difatti il proposito ribadito dall’Autore in chiusura del suo monologo — la
volontà di pour aprendre a Paris courre28 — non evoca solo il luogo che,
rappresentando la capitale intellettuale del tempo (prima solo ad Arras, si ag-
giunga), ben si presta a focalizzare il suo desiderio di realizzarsi nel sapere;
oppure la città nella quale, come osservano alcuni commentatori, Adam
avrebbe già intrapreso una prima fase di studi precedentemente al matrimo-
nio e in cui vorrebbe ora ritornare (il termine revenir apre e chiude la scena ai
versi 2 e 185 del testo)29. Parigi è la città in cui precisamente in questo mo-
mento storico si sviluppa, com’è più che noto, uno scontro culturale di gran-
de significato, come risulta già dalle date: il 1276 della composizione (e pre-
sumibile messa in scena) del Jeu cade nell’epoca centrale dei dibattiti susci-
25 Adam de la Halle, Jeu de la Feuillée, 82-84 (Brusegan ed. 2004, p. 272).
26 Zaganelli 1977, pp. 27-28.
27 Sfiorano la questione trattata qui di seguito, a mia conoscenza, solo Dufournet 1974,
pp. 116-117 e Mauron 1976, p. 194.
28 Adam de la Halle, Jeu de la Feuillée, 181 (Brusegan ed. 2004, p. 278). 
29 Adam de la Halle, Jeu de la Feuillée, 2; 185 (Brusegan ed. 2004, p. 264; p. 278).
Cfr., per esempio, Cartier 1971, p. 20.
Teatro medievale: teatro popolare?
8
tati all’Università parigina dalle novità dell’aristotelismo radicale, che con-
trappongono i Maestri secolari e i rappresentanti degli Ordini predicatori, di-
battiti la cui tappa più significativa è rappresentata dal 1277, quando la con-
danna delle tesi eterodosse da parte dell’arcivescono di Parigi Etienne Tem-
pier chiude la fase più aspra della contesa. E, com’è più che noto, la querelle
non è rimasta limitata all’ambito della discussione filosofica, ma ha impron-
tato di sé anche la produzione letteraria coeva, parigina e non solo: si pensi,
da un lato, alla sua presenza nelle opere di autori come Rutebeuf e Jean de
Meung; dall’altro lato, alle sue ripercussioni sulla produzione poetica del
Duecento italiano, evidenziate da Maria Corti nei suoi studi su Cavalcanti e
Dante30.
Vista l’assoluta attualità e la grande risonanza del dibattito parigino, non
dovrebbe allora meravigliare che anche nel testo di Adam compaia una presa
d’atto delle sue tematiche, osservate e rielaborate dal punto di vista della spe-
cola atrebatense: e ciò con specifico riferimento a uno dei punti centrali della
discussione, il tema della felicità umana, quello che vi si articola nei noti in-
terrogativi: qual è il sommo bene per l’uomo? L’amore o la conoscenza?
Qual è lo stato preferibile per l’individuo che vuole realizzarsi? Quello del-
l’uomo comune, che ama, si sposa, genera, o quello del sapiente, del filo-
sofo?
4. Echi non tanto lontani di questi interrogativi sembrano risuonare nel
monologo di Adam: ad esempio quando, sempre a proposito della sua ricerca
del sapere, egli riafferma la necessità di rivolgere al bien l’intelletto (engien)
ricevuto da Dio (Puis que Dieus m’a donné engien, / Tans est que je l’atour a
bien31); o ancora quando oppone alla ricerca da parte dell’innamorato di chou
qui li vient a talent (ciò che viene a piacergli, nel suo caso il corpo di Maroie,
descritto nell’affascinante apparenza che Amore gli conferisce) un imprecisa-
to valore superiore, definito sen meilleur, ciò che per lui è meglio32. Nel con-
testo, che lo identifica come raggiungibile solo attraverso l’aprendre, questo
30 Per il dibattito parigino, con tutta la bibliografia relativa, si può ricorrere a Bianchi
1990 e Bianchi 1997; per le tesi del 1277 cfr. Hissette 1977; per Rutebeuf, Faral-Ba-
stin ed. 1969, I, pp. 65-82 e 227-389; per Jean de Meung, Paré 1947; per Cavalcanti
e Dante, Corti 2003, pp. 3-175.
31 Adam de la Halle, Jeu de la Feuillée, 31-32 (Brusegan ed. 2004, p. 266).
32 Nella stagione degli amori nus n’i cache sen meilleur, / Fors chou qui li vient a ta-
lent (Adam de la Halle, Jeu de la Feuillée, 61-62, Brusegan ed. 2004, p. 270). Vedo
che, rispetto alla traduzione di nus n’i cache sen meilleur, come «nessuno va allora
alla ricerca del suo meglio», che è anche quella della maggioranza degli editori, l’e-
dizione Brusegan dà «uno non cerca di migliorare in senno», con meilleur attributo
di un sostantivo sen. Alla luce delle considerazioni che seguono, mi sembra però
preferibile leggere in meilleur una forma sostantivata, coerente con l’idea del sum-
mum bonum a cui l’uomo deve aspirare.
Nicolò Pasero
9
meilleur, e così il bien precedente, appare, se non termine, certo concetto
coerente con la discussione sul summum bonum, quella nel cui corso soprat-
tutto il partito degli eterodossi insisteva sulla superiorità del sapere sugli altri
valori umani, inclusi quelli dell’amore fisico e/o del matrimonio (fa testo al
proposito, fra l’altro, la nota posizione di Sigieri di Brabante sull’incompati-
bilità di filosofia e matrimonio)33. Per dare un’idea dell’atmosfera di questa
discussione, mi limito a tre brevi citazioni, rinviando ad altra sede un ap-
profondimento dei rapporti del testo di Adam con il dibattito parigino: la pri-ma dal trattato De summo bono di Boezio di Dacia, magister alla Facoltà del-
le Arti di Parigi dal 1270 circa, uno dei rappresentanti di spicco dell’aristote-
lismo radicale (addirittura definito dalle fonti dell’epoca, insieme a Sigieri,
come suo inventor): Et ideo dolere debent homines qui tantum delectationi-
bus sensibilibus detinentur quod bona intellectualia omittunt, quia suum
summum bonum numquam attingunt34, «Devono essere grandemente commi-
serati gli uomini che si fanno possedere dai soli piaceri dei sensi fino al punto
da trascurare i beni dell’intelletto»35; la seconda dal commento anonimo, di
taglio radicalmente averroista, ai primi due libri del De anima di Aristotele,
noto come «Anonimo Giele» (una reportatio di lezioni tenute fra il 1270 e il
1275 da un magister parigino, forse identificabile con lo stesso Boezio), do-
ve, nella Quaestio intitolata Utrum scientia sit honorabilis, si leggono dichia-
razioni come scientia est bonum quo in entibus non invenitur melius36; la ter-
za dalle tesi condannate nel 1277 dal Tempier, fra le quali la proposizione n°
40 recita apoditticamente: «Non v’è modo di vivere migliore che dedicarsi
alla filosofia»37. 
Piaceri dei sensi contro beni dell’intelletto; attività intellettuale come bo-
num quo non invenitur melius: termini e concetti, dunque, all’ordine del gior-
no della cultura ufficiale, ripresi e tradotti da Adam in un testo che si apre (e
a suo modo prosegue) mettendo in scena proprio il tema della ricerca della
felicità, personale e umana. Sembrerebbe a questo punto, se si resta all’aper-
tura del dramma, che Adam — abbandonando a fine monologo quella relati-
vizzazione del principio di piacere con cui aveva corroso le pretese esclusivi-
stiche dell’amore — si accampi a-dialetticamente sulla sponda alternativa,
quella dei celebratori della figura del sapiente, unico depositario dei valori
che distinguono l’essere umano dai bruti privi di intelletto, e lo stesso sapien-
Teatro medievale: teatro popolare?
33 Cfr. Bianchi 1990, pp. 149-195. 
34 Boethius de Dacia, de summo bono (Green-Pedersen ed. 1976, p. 369.14-17).
35 Cito dalla traduzione italiana del trattato in Bottin ed. 1989, p. 50.
36 Anonymous, quaestiones in Aristotelis libros I-II de anima, quaestio V: utrum scien-
tia sit honorabilis (Giele-Van Steenberghen-Bazán ed. 1971, p. 29.42-44). Sul rap-
porto con l’Anonimo Giele fa notoriamente perno l’interpretazione della canzone
cavalcantiana Donna me prega proposta da Maria Corti: cfr. Corti 2003, pp. 9-41.
37 Cfr. Bianchi 1997, p. 312.
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te (filosofo, clerc, maistre) dall’uomo comune, dedito ai piaceri dei sensi e
ingabbiato nel matrimonio. Ma il Jeu, come si apre, così si chiude, mettendo
in scena una seconda relativizzazione, non più attraverso la discorsività argo-
mentativa del monologo ma attraverso il meccanismo teatrale: nel ritorno di
tutti i personaggi di Arras — Adam compreso — alla realtà festiva della ta-
verna, anche l’ideale alternativo espresso inizialmente rivela la sua intrinseca
contraddittorietà, perché il viaggio a Parigi, inteso a pareggiare i conti col
tempo perso dietro all’amore (per me perte rescourre, aveva detto il protago-
nista in chiusura del suo monologo38), resterà appunto un progetto. Ma que-
sta oggettiva rinuncia avverrà giocosamente, perché — a smentire certi ec-
cessi d’interpretazione esistenziale dell’opera, come quelli che affiorano so-
prattutto nelle monografie di Alfred Adler, Normand R. Cartier, Jean Dufour-
net39 — sarà risolta nell’atmosfera carnevalesca del riso, del vino e degli
scherzi, in una chiave di lettura che a sua volta non risparmia gli stessi valori
popolari che mette in scena. 
5. Dal modo tutto peculiare con cui il Jeu de la Feuillée si confronta con i
temi della discussione culturale dell’epoca traspare un atteggiamento che a
mio avviso non è riconducibile tout court a quelle forme di semplice rove-
sciamento delle posizioni alte a cui ci si riferisce di norma se e quando si par-
la di cultura popolare; nel testo di Adam opera, ripeto, una superiore capacità
di comprensione della complessità del reale e della relatività dei valori che
contraddice l’impianto monologisticamente affermativo delle culture ufficia-
li. In che misura questa constatazione permetta di risolvere l’interrogativo da
cui si è partiti — se e come al teatro medievale sia applicabile la qualifica di
teatro popolare — resta argomento aperto; mi sembra però indubitabile che
le posizioni espresse nel Jeu non siano solo la trovata personale di un grande
autore, ma rivelino la presenza di una concezione del mondo innovativa e al-
ternativa, tradotta in una visibile carnevalizzazione del testo.
38 Adam de la Halle, Jeu de la Feuillée, 180 (Brusegan ed. 2004, p. 278).
39 Adler 1956; Cartier 1971; Dufournet 1974.
Nicolò Pasero
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